La Dittatura del Conformismo

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Nei confronti di alcune tematiche “calde” e attuali è facile osservare che una qualche prospettiva di­viene spesso così diffusa tra la maggioranza da ri­sultare egemone e lasciare poco spazio ad altre in­terpretazioni, che sovente vengono ghettizzate se non addirittura criminalizzate. Tanto la cronaca quanto la storia sono piene di esempi di veri e propri arroccamenti di una parte dell’intellettuali­tà – con il placito di una maggioranza più o meno passiva – nei confronti di specifiche opinioni, che talvolta sono giunti a portare gli “eretici” sul rogo. Oggi per gli eretici (dal greco, αἱρετικός, [colui] che sceglie) la prassi non è più il rogo ma la cen­sura sotto forma di rimozione dai social, e la go­gna non è più fisica ma solo mediatica. Nondime­no la critica contro la dissidenza è spesso feroce. Come mai relativamente ad alcuni argomenti una così ampia maggioranza segue acriticamente il cosiddetto mainstream (letteralmente: flusso prin­cipale)?

La spiegazione abitualmente fornita da chi con­corda con la narrativa dominante è che essa è tale in quanto giusta. Argomentazione piuttosto fragile e autoreferenziale ma soprattutto, la storia ci inse­gna, fallace. Sappiamo dalle testimonianze del periodo che durante il Fascismo il regime godeva di un consenso ampiamente diffuso, spesso since­ro, anche se già alla vigilia della Liberazione era diventato difficile trovare chi si dichiarasse tale. E ben oltre i confini di una nazione era diffusa la convinzione che la razza bianca fosse superiore, nonché tra essa superiori i portatori dei geni “mi­gliori”. L’eugenetica non è stata invenzione tede­sca ed anche se solo i nazisti si sono spinti all’organizzato sterminio di nati deformi e malati di mente (prima di passare agli ebrei) le idee eu­genetiche erano condivise dalla maggior parte de­gli intellettuali europei e statunitensi. No, l’ampia diffusione di un’idea non è né logicamente né fat­tualmente dimostrazione della sua veridicità, e crederlo è in effetti piuttosto ingenuo.

Naturalmente l’obiezione neppure comporta che l’opinione della maggioranza sia tout court sba­gliata. In tutti i casi occorrerebbe un approfondi­mento critico e autonomo, che è esattamente ciò che manca e che viene anzi scoraggiato (“chi sei te per occuparti della tematica, che vuoi mai sa­perne?”). Ciò, unitamente alla potenza mediatica offerta dall’odierna tecnologia, favorisce l’affer­mazione di quello che, chi ne contesta l’intransi­genza nei confronti delle posizioni dissidenti, chiama “Pensiero Unico”. Ma quali sono i mecca­nismi psicologici che ne portano all’accettazione dalla cosiddetta “maggioranza silenziosa”? Riten­go che se ne possano individuare a più livelli ed in questo breve lavoro mi propongo di esporli.

Normopatia

La tendenza a conformarsi alla maggioranza, tra­scurando lo sviluppo di un autonomo pensiero cri­tico, è stata definita normopathy (normopatia) dalla psicanalista Joyce McDougall (1978). Chri­stopher Bollas la definisce “the numbing and eventual erasure of subjectivity” (1987, p.135). Mentre lo psicologo Enrique Guinsberg (2001, 49-50) definisce il normopatico come:

aquel que acepta pasivamente por principio todo lo que su cultura le señala como bueno, justo y correcto no animándose a cuestionar nada y muchas veces ni siquiera a pensar algo diferente, pero eso sí a juzgar críticamente a quienes lo hacen e incluso condenarlos o a aceptar que los condenen.

(colui che accetta passivamente per principio tutto ciò la sua cultura gli in­dica come buono, giusto e corretto, non incoraggiandosi a mettere in discussione nulla e spesso nemmeno a pensare qualcosa di diverso, ma giudicando criticamente coloro che invece lo fanno, giungendo a condannarli o ad accettare che siano condannati.)

Naturalmente gli autori citati ritengono patologico (normopatico) non la semplice concordanza con le opinioni egemoni, bensì l’acritico conformarsi che talvolta potrebbe esserne alla base. Lo psica­nalista Christophe Dejours (2000) paragona il concetto a quello, ben noto, di “banalità del male”, sviluppato dalla Arendt (1963). In Italia un parallelo potrebbe essere visto nelle idee esposte da Don Milani in “L’obbedienza non è più una virtù” (1965).

L’ipotesi, e la conseguente preoccupazione, che il conformismo possa trovare le sue origini in una personalità scarsamente sviluppata è chiaramente pertinente una visione psicologica che in modo al­largato potremmo definire umanistica e che attin­ge le sue origini in ciò che Jung chiamava Proces­so di Individuazione, ma che oggi, sia pure con termini diversi, troviamo trasversale a più orienta­menti. Si tratta di una preoccupazione chiaramen­te non peculiare alla prospettiva psichiatrica, or­ganicista, o a quegli orientamenti che identificano la patologia come uno scostamento dalla media o una mancata capacità adattiva, il cui consegui­mento è visto come principale, se non unico, obiettivo della terapia. Chi scrive tuttavia afferi­sce al primo gruppo e pertanto con coerenza si preoccupa dei rischi collaterali a un eccessivo conformismo.

Sulla normalità

Dobbiamo a Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin, sia la nascita dell’Darwinismo sociale e dell’Eugenetica, che della biometria e della psico­metria. Mentre le prime sono almeno ufficialmen­te screditate e conseguentemente estinte, le secon­de godono di ottima salute e sono alla base, tra l’altro, dell’epidemiologia, della farmacologia, della diagnosi medica e di alcune discipline psico­logiche. Galton osservò che la curva di distribu­zione di probabilità individuata da Abraham de Moivre e resa celebre da Carl Friedrich Gauss (conosciuta come gaussiana in onore di quest’ulti­mo) oltre a descrivere la distribuzione di errori ca­suali (come studiato da Gauss) si prestava a de­scrivere la distribuzione dei più svariati fenomeni biologici e comportamentali, a partire dall’altezza di un gruppo di individui. Tanto che da allora tale distribuzione prende anche il nome di “Normale”.

Tali studi daranno ampio sviluppo alla statistica, fino a portarla oggi allla base delle discipline scientifiche, sia fisiche, che mediche, che sociali. Senza addentrarsi nei dettagli (comunque noti a chiunque abbia una laurea scientifica) basterà qui ricordare che si tratta di una distribuzione di pro­babilità (osservata, e pertanto attesa) della variabi­lità di fenomeni misurabili su scala continua, come appunto, a classico esempio, l’altezza di un gruppo di soggetti. Mi limito ad accennare che in virtù dei Teoremi del Limite Centrale la distribu­zione gaussiana può essere considerata la migliore approssimazione anche nello studio di altre distri­buzioni e che ad essa in psicometria vengono ricondotti, attraverso l’approssimazione continua di una scala Likert, anche valori che propriamente sarebbero discreti.

Ritengo che da quanto fin qui esposto si possano trarre alcune considerazioni inerenti il conformi­smo, a quanto mi risulta inedite. Innanzitutto l’adozione così estesa di un tale modello matema­tico ai più vari aspetti biologici e comportamentali implica che sia ritenuto una valida descrizione della realtà. Ovvero che i valori osservabili dei più svariati fenomeni effettivamente si concentra­no in larga maggioranza intorno ad un valore me­dio con differenze nei due estremi (di basso o alto; come pure di ritardo mentale o genialità; di mancata reazione o iper reazione ad un farmaco; e di molti altri esempi) sempre più minime al di­stanziarsi dal valore medio osservato, cioè “nor­male”. Ciò farebbe supporre che, similmente a migliaia di situazioni in cui si osserva così essere, anche la tendenza della maggioranza degli indivi­dui a conformare le opinioni ad una visione “nor­male” abbia in qualche modo della basi naturali.

Ne conseguirebbero due implicazioni. La prima deriva dalla spiegazione scientifica del perché vari fenomeni si distribuiscano in tale modo, che è di tipo evoluzionistico (non dimentichiamo che la biometria nasce da Galton): i valori medi sarebbe­ro i più adattivi alla specifica situazione ambienta­le e/o sociale ed aumenterebbero pertanto la fit­ness (il potenziale di sopravvivenza e riproduzio­ne) dei singoli individui; al contempo però con l’esistenza di soggetti che esprimono valori che si distaccano fortemente dalla media la specie si ga­rantirebbe una continuità nel caso in cui il conte­sto dovesse variare sensibilmente ed i valori più diffusi non rilevarsi pertanto più adattivi. Stando così le cose, in tempi normali la migliore risposta sarebbe il conformismo, ma in tempi eccezionali, o di emergenza, ciò potrebbe risultare deleterio e solo un’eventuale dissidenza potrebbe salvare dalla totale disfatta.

La seconda considerazione concerne invece l’implicito, e spesso inconscio, passaggio da mera constatazione di frequenza di un valore alla sua colorazione qualitativa. Complice ne sono certa­mente le plurime accezioni del termine “norma­le”, che oltre al significato statistico sopraesposto, ha quello di “conforme alla norma”, ma anche quello di “sano, giusto”. Accade quindi nella fatti­specie che da una neutra statistica descrittiva, pas­sando tramite una statistica inferenziale, quasi senza accorgersene si giunga ad identificare il va­lore medio osservato come quello desiderabile. Il paradosso tuttavia consiste nel fatto che se l’osservazione fosse effettuata in una società tutta malata, tale malattia da mera normalità statistica si ergerebbe a valore desiderabile; se una società praticasse abitualmente stupri o atti di pedofilia, tali atti oltre che diffusi rischierebbero di diventa­re normali anche nell’accezione di desiderabili; se una società fosse per lo più analfabeta, o magari analfabeta funzionale, come molti italiani sembra­no essere (Italiaindati, n.d), ciò potrebbe diventare anche segno di essere ben adattati.

Psicologia sociale e conformismo

Che le precedenti tesi offrano una valida chiave di lettura al fenomeno del conformismo, o meno, la psicologia sociale ci dimostra oltre ogni dubbio che il fenomeno del conformismo esiste ed è am­piamente diffuso. Tra i pionieri dello studio del fenomeno, lo psicologo Solomon Asch, condusse una serie di studi (1955) nei quali presentava ad un gruppo di soggetti 3 linee di diversa lunghezza chiedendo quale fosse uguale ad una quarta di ri­ferimento. La differenza tra le linee era sostanzia­le e facilmente riconosciuta dai soggetti nella si­tuazione di controllo. Nel gruppo sperimentale tuttavia alcuni partecipanti complici dello speri­mentatore indicavano come corrispondente una li­nea chiaramente diversa. A causa di questa pres­sione sociale ben il 36,8% dei soggetti dell’esperi­mento se preceduti da alcune affermazioni chiara­mente contrarie alla loro percezione capitolavano e concordavano con gli altri. Da questo ed altri primi studi sono seguiti decenni di esperimenti sul conformismo di cui sono pieni i manuali di psico­logia sociale.

Divertente e spunto di riflessione, per quanto non abbia certo gli standard di un’esperimento scienti­fico, è l’esperimento televisivo presentato da Jo­nah Berger della University of Pennsylvania per la trasmissione “Brain Games” della National Geograpic TV. Una paziente entra nella sala di at­tesa di un oculista, dove nove finti pazienti si al­zano in piedi al suono di una campanella. Già alla terza ripetizione e senza avere alcuna idea del per­ché il soggetto si conforma, alzandosi in piedi, ogni volta, anche quando è arrivato il turno di tutti gli altri finti pazienti ed è rimasta sola. Perfino ognuno dei quattro soggetti entrati successiva­mente, senza alcun contatto con il gruppo origina­rio dei finti pazienti, adottano a turno la stessa norma sociale. Per vedere la registrazione dell’esperimento televisivo è sufficiente digitare online “Conformity Waiting Room”.

Elaborare informazioni in modo approfondito ha un alto costo energetico, per questo talvolta imita­re gli altri senza pensarci a fondo può risultare conveniente. Si tratta di una scorciatoia mentale del tipo che la psicologia chiama “euristica”. Se­condo il modello di probabilità di elaborazione degli psicologi John Cacioppo e Richard Petty (1984) l’informazione ricevuta può essere elabo­rata tramite una via chiamata centrale, che appro­fondisce con cura tutti gli argomenti presentati; o tramite una via periferica che si ferma ad aspetti superficiali di semplice elaborazione (come la no­torietà della fonte, la piacevolezza di una coperti­na o altri aspetti marginali al messaggio). Poiché la prima via richiede grande impegno la seconda sarà preferita dai cosiddetti individui definiti sem­pre da Cacioppo e Petty (1982) con basso bisogno di cognizione (Need for cognition), soprattutto quando in presenza di bassa motivazione.

La cornice dei nostri pensieri

Anche chi si sforza di pensare con la propria testa resistendo ad ogni influenza dell’opinione altrui e si impegna in un’elaborazione approfondita dell’informazione non è tuttavia totalmente im­mune dalla tendenza a confluire verso un’opinio­ne comune. Questo perché ogni informazione as­sume il suo peculiare significato solo se inserita all’interno di quello che viene chiamato frame (cornice) che ne delimita l’ambito e i riferimenti. Occorre innanzitutto precisare che di teorie psico­sociali che utilizzano il termine “frame” ne esistono (almeno) due: quella che è valsa il nobel per l’economia allo psicologo Daniel Kahneman e quella nata dagli studi del sociologo Erving Goff­man.

La Teoria del Prospetto di Kahneman e Tversky (1979) si riferisce all’effetto (Framing Effect) che presentare la scelta tra due opzioni sottolineando­ne la possibilità di guadagno o focalizzandosi sul­la prospettiva di perdita ha sulla scelta effettuata. La Teoria del Frame (o Frame Analysis), svilup­pata a partire da un saggio di Goffman (1959), da successive sue opere e da altri autori, si riferisce ad uno schema di rappresentazione della realtà; ben definibile con le parole di Gitlin (1980): “Fra­mes are principles of selection, emphasis, and presentation composed of little tacit theories about what exists, what happens, and what mat­ters” (ivi, 6).

Potremmo sintetizzare affermando che inevitabil­mente abbiamo degli schemi di riferimento, alme­no in parte inconsapevoli, con cui attribuiamo un senso alla realtà; che una parte di essi è influenza­bile dal modo in cui l’informazione viene presen­tata; e che pertanto siano (gli schemi) e siamo (noi tutti) manipolabili. Lascio alle parole del politolo­go Robert Entman (1993) evidenziare la portata di ciò sulla libera formazione di opinioni:

[Framing] seems to raise radical doubts about democracy itself. If by shaping frames elites can determine the major manifestations of “true” public opinion that are available to government (via polls or voting), what can true public opinion be? How can even sincere democratic representatives respond correctly to public opinion when empirical evidence of it appears to be so malleable, so vulnerable to framing effects? (ivi, 57)

 

I paradigmi di Kuhn

Potremmo considerare come analoghi ai frame in ambito scientifico i paradigmi, ovvero delle visio­ni globali del mondo e della sua struttura condivi­se dalla comunità scientifica di riferimento, di cui scrive Thomas Samuel Kuhn in The Structure of Scientific Revolutions (1962), pietra miliare della moderna epistemologia (da tale lavoro deriva la locuzione “cambio di paradigma” entrata nel lin­guaggio comune). Kuhn evidenzia che durante la fase che lui chiama di “normal science” lo scien­ziato incontra sia molti dati che si confanno al pa­radigma adottato sia alcune “anomalies” che ten­ta di risolvere ed integrare nel paradigma. Si accumulano tuttavia anche alcune anomalie non spiegabili che lo scienziato “normale” tende ad ignorare. Per dare di conto delle anomalie tuttavia alcuni scienziati “rivoluzionari” sviluppano nuove teorie che la maggior parte dei colleghi rigetta come eretiche. Fintanto che la mole di anomalie non spiegabili dal paradigma adottato cresce al punto da non potere più essere ignorata e l’intera comunità è costretta ad una fase di “extraordinary scienceche porta all’adozione di un nuovo para­digma, e con esso all’inizio di un nuovo ciclo.

Kuhn individua nella storia della scienza moltissi­mi esempi di evoluzione scientifica secondo lo schema esposto. Inoltre per Kuhn due distinti pa­radigmi sono incommensurabili, giacché si basa­no su linguaggi diversi, attribuiscono diversa in­terpretazione ai dati, si fondano su diversi criteri di successo; né sono sottoponibili a verifica al di fuori del paradigma stesso, poiché Kuhn ritiene semplicemente impossibile costruire un metodo comparativo neutro. Non sarebbe pertanto il para­digma più “vero”, più corrispondente alla “real­tà”, o più “efficiente” ad imporsi; bensì quello che, sia su basi logiche, sia tramite aspetti socio­logici, sia grazie all’entusiasmo e le aspettative che è in grado di generare, ottiene il consenso di un sufficiente numero di scienziati.

In parole più semplici, la supposta oggettività scientifica non è epistemologicamente sussistente: ogni scienziato tende inevitabilmente a confron­tarsi con il paradigma dominante ed è spinto a conformarsi ad esso. Durante il Novecento la vi­sione positivista tardo-ottocentesca è stata confu­tata su più fronti ed è difficile comprendere come oggi i legittimi dubbi di cui una vera scienza è sempre portatrice abbiano troppo spesso lasciato posto ad una fede scientista.

Conclusioni

Come succintamente esposto, a più livelli di ana­lisi psicologica sono riscontrabili meccanismi su­scettibili di favorire il conformismo nei confronti di idee dominanti. Non è intento di questo scritto soffermarsi su come tali dinamiche naturali possa­no essere sfruttate da chi ne abbia intenzioni e competenze. Mi limito ad osservare che le inten­zioni, o comunque il desiderio, di manipolare le opinioni di una maggioranza di individui sono in­trinseche al concetto stesso di potere, che su ciò si basa. La storia dovrebbe insegnarci oltre ogni ragionevole dubbio che chi il potere lo detiene, o chi lo ambisce, non ha mai esitato – né pertanto esiste motivo di supporre che esiterebbe – a fare di tutto per indirizzare il consenso verso i suoi obiettivi. Quanto alle competenze, molta acqua sotto i ponti è scorsa dai tempi di Edward Bernays; “Psicologia della Persuasione” è da anni un esame comune tra i corsi di laurea in psicologia; e gli spin doctor sono da tempo figure professionali assai richieste.

Ne concludo che esiste una tendenza naturale a conformarsi verso l’opinione dominante, diffusa a livello di maggioranza della popolazione; che tale tendenza può essere artificialmente guidata; che ogni potere è intenzionato a tale manipolazione e che esistono professionisti a tal fine formati. Non sarebbe pertanto realistico aspettarsi che il confor­mismo non fosse ampiamente diffuso, né a livello sociale ritengo lecito immaginare che così non sia. Certamente nel tempo varia l’opinione cui esiste una tendenza a conformarsi – come nell’esempio iniziale del sostegno al Fascismo prima o dopo la sua caduta – ma ritengo che la tendenza alla conformità sia in sé inevitabile. Nondimeno a livello individuale il conformismo è tanto più forte quanto più è inconsapevole e de­cresce in proporzione allo sviluppo di un autono­mo pensiero critico.

Pensare criticamente; concentrarsi sull’approfondimento dei contenuti di un messag­gio in luogo che valutare il messaggio limitandosi alla supposta autorevolezza della fonte (errore lo­gico conosciuto come fallacia ab auctoritate, o authority bias); costruirsi una visione di insieme; richiede molto tempo, impegno e fatica. Nondi­meno ritengo che ne valga la pena e che oggi sia quantomai auspicabile.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Kuhn, T. S. (1962). The structure of scientific revolutions. Chicago: University of Chicago Press.

Milani, L. (1965). L’obbedienza non è più una virtù. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina.

McDougall, J. (1978). Plea for a Measure of Abnormality. New York: International University Press.


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