Disagio esistenziale e de-costruzione del corpo sociale: nuove minacce e antiche tentazioni


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In ogni società, l’immagine dominante della morte

determina l’idea prevalente della salute

(Ivan Illich, 1974)

INTRODUZIONE

Questo contributo si inscrive nel solco della collaborazione sorta tra alcuni dei firmatari del Comunicato Psi (https://comunicatopsi.org), un accorato appello sottoscritto nel maggio di quest’anno da più di settecento tra psicologi e psichiatri e indirizzato all’attenzione degli organi di Governo dello Stato e delle istituzioni che si occupano di salute pubblica, al fine di considerare gli effetti negativi del lockdown e le sue conseguenze psicologiche sulla popolazione. L’attenzione e la preoccupazione di molti tra i firmatari hanno successivamente dato vita ad una raccolta spontanea di entusiasmi che si è data il nome di Sinergetica – Movimento di Libera Psicologia, a sottolineare la vitale e irrinunciabile necessità di poter esprimere libertà di opinione, di replicare scientificamente e coerentemente alla stereotipata versione mediatica sulla “pandemia”, opponendosi in maniera lucida e coscienziosa alla diffusione dell’allarme sociale e dei condizionamenti suscitati dalla paura del virus, ma anche delle malattie e della morte. Sinergetica si propone, attraverso varie attività divulgative e scientifiche di contribuire a riportare equilibrio e verità in un panorama che appare contraddistinto da schieramenti dicotomici e, pertanto, manipolabili dalla politica e dall’informazione mainstream.

La parola “morte”, che nel gergo comune è vocabolo oggi quasi impronunciabile, pur dominando il panorama mediatico come ospite abituale dei bollettini medici, viene tuttavia osteggiata da un’ipocrisia perbenista e dal gergo medico, che nei sofismi del linguaggio, sia comune sia tecnico, veicola l’anestetico della de-significazione della realtà, sostituendosi con perifrasi o allocuzioni che ne testimoniano l’imbarazzo: “è venuta meno” oppure “se n’è andata”, il “decesso del paziente”, o il più letterario “dipartita”. Ognuna di queste sostituzioni destituisce la nostra esistenza dell’identità antropologica e dei significati a lei conferiti dall’evento della morte. Come ha argomentato Geoffrey Gorer in The Pornography of Death (1955), la morte nella modernità ha assunto il ruolo che il sesso ricopriva nell’epoca vittoriana, la cui morale conferiva all’argomento una certa pruderie che ne allontanava l’esplicitazione dal linguaggio comune, allo stesso modo al giorno d’oggi l’imbarazzo che riveste le atmosfere e le azioni intorno alla morte, spogliano questo momento importante della vita della sua funzione identitaria dell’anthropos, che nel suo etimo più essenziale descrive “quell’animale che cammina guardando di fronte a sé”, e aggiungiamo qui, proprio per la sua capacità, incontra la morte.

La psicologia scientifica è restia ad occuparsi di categorie morali e mimando la ricerca medica pretende di oggettivare le variabili del comportamento umano e sociale. Pur senza entrare in questo delicato e controverso problema epistemologico, ne risulta un’idea frammentata di essere umano, al punto che la modellizzazione ne confonde la natura. Categorie morali come il coraggio (Tangocci et al. 2020), la volontà, la responsabilità, trovano poco spazio nella ricerca empirica, poiché probabilmente ritenute non riducibili a variabili elementari statisticamente scomponibili. Tuttavia questo atteggiamento di ricerca allontana l’uomo dall’umanità.

Così, prendendo a prestito alcuni luoghi della psicologia esistenziale, propongo al lettore un’esplorazione di zone fondamentali dell’esperienza umana, necessarie alla sopravvivenza, dove l’involuzione antropologica del nostro tempo – caratterizzato da un ipertecnologismo e dal progetto del transumanesimo, presentatoci dai grandi network della comunicazione come un prodotto allettante e desiderabile– mira invece a destituire l’essere umano della sua più intima e vitale essenza, ovvero la sua naturale capacità “sinergetica”, che possiamo scorgere nella qualità vibrazionale delle frequenze biologiche degli organismi, tra cui il nostro, quando stabiliscono quella straordinaria connessione o risonanza tra sistemi e domini presenti in natura. Queste capacità sono state sistematizzate nei secoli dalle culture nei metodi di conoscenza di sé, nelle filosofie, nelle teologie e nelle preghiere, edificate sulla pietra angolare del concetto liminale della morte, senza l’aiuto di modificazioni genetiche o interfacce biocompatibili. Già in quest’ultima promessa biotecnologica, come abbiamo potuto comprendere in questi mesi, vi risiede un programma di manipolazione dei consumi e delle coscienze delle persone, nel quale potremmo scorgere l’illusione dell’abolizione definitiva delle malattie, la presunzione della conquista dell’immortalità, realizzabile nell’assimilazione alla macchina, che in tempo reale possa informarci del pericolo di contagio e che monitori costantemente i nostri parametri vitali, restituendoci, in sostanza, un profilo transumano che ci illuda di un senso di protezione continua dal pericolo. In questo progetto l’anthropos, idea di umanità che cammina guardando di fronte a sé, faro del proprio sguardo, vorrebbe essere delegato ad una moltitudine di entità disseminate, tecniche e tecnologiche, ma in questa delega si nasconde il pericolo di abbattere la sua natura senziente, cognitiva e volitiva.

Per quali motivi siamo arrivati ad essere massa incosciente, che ritiene desiderabile l’obiettivo di consegnare la propria vitalità a dispositivi esterni, hard disk al di fuori del nostro controllo? Per quale motivo siamo diventati incapaci di costruire la realtà con le nostre mani, fino a diventare dipendenti da realtà virtuali? La prima realtà virtuale alla quale ci siamo lentamente assuefatti è la necessità di abolire la morte dal discorso quotidiano, coltivando l’illusione narcisistica della giovinezza e dell’immortalità. Sulla base di questa preoccupante consapevolezza proveremo a rispondere alle domande.

PROSPETTIVE

Il punto di osservazione di partenza è la psicologia esistenziale. Questo ramo poco frequentato delle discipline psicologiche si è sviluppato principalmente dalle posizioni dei filosofi esistenzialisti tedeschi e francesi e dalla teorizzazione dei principi di psicologia e psicoterapia formulati dal filosofo e psicologo Karl Jaspers, nel suo celebre saggio Psicopatologia generale (1913). Attualmente identifica quattro principali aree di intervento diagnostico e clinico sulle sofferenze psicologiche delle persone (Yalom, 1980) così riassumibili:

  1. La Morte, la concezione che l’uomo contemporaneo ne ha fatto e la paura che suscita.

  2. La Libertà, intesa come fonte ingestibile di responsabilità da parte delle persone e quindi fonte di terrore per l’assenza di una struttura esterna che si prenda carico delle scelte individuali.

  3. L’Isolamento esistenziale, inteso non tanto come isolamento inter o intrapersonale, quanto come quella condizione che mette di fronte l’individuo alla consapevolezza di “entrare nel” ed “uscire dal” mondo in solitudine. La consapevolezza della nostra finitezza individuale in contrasto al desiderio di essere parte di un insieme più ampio, diventa, così, fonte di conflitto interiore.

  4. L’Assenza di senso, che permea le nostre esistenze e il continuo tentativo di conferirne uno alle nostre scelte, ai nostri errori, agli sforzi e alle idee che attraversano le nostre vite, ci mette nella condizione di tentare incessantemente a rispondere alle domande fondamentali: perché viviamo? Che senso ha la vita? Se non vi è senso perché, allora, vivere? ecc.

Pur essendo tutte legate in reciproca interazione, in questo contributo ci addentreremo soprattutto nelle prime due istanze, evidenziando il legame che si crea tra: a) rifiuto della morte, b) il suo ritagliarsi uno spazio in relazione alla mancanza di senso esistenziale e c) la libertà.

Secondo la corrente psicologica dell’esistenzialismo, è proprio la libertà a determinare una dimensione terrifica dell’esistenza nel momento in cui richiede all’essere umano di assumersi la responsabilità di essere libero di costruire legami, significati e limiti, in sostanza quando concretizza la mancanza di partecipazione al bene comune e alla creazione di un corpo sociale solidale. Al di fuori dell’incontro, inteso nel suo senso più vasto, rimane infatti soltanto la perdita dei legami di comunità e la desolazione dell’isolamento esistenziale, che non è sinonimo di solitudine. Quest’ultima può essere, infatti, contemplativa, ascetica e anche creativa. L’isolamento esistenziale corrisponde invece alla mancanza di un vero e proprio destino di “accoppiamento” con sé stessi e con la realtà che ci circonda, rendendo in tal modo l’esistenza sterile e piena di fantasmi.

Quindi, il senso che possiamo trarre dalla capacità di scegliere e, di conseguenza, lo sviluppo di una certa consapevolezza del nostro vivere; la direzione che riusciamo a darle, insita nelle nostre costruzioni ideali e materiali; la capacità di accettare la solitudine e conferirle non solo una dignità ma una propria dimensione di conoscenza e infine la coscienza della morte e del morire, sono le istanze alla base della nostra capacità di stare nel mondo o, al contrario, quando non riusciamo a realizzarle, le cause del soffrire disagio e malattia. In un periodo attraversato dagli sconvolgimenti pandemici e post-pandemici, queste categorie sembrano dominare l’umana difficoltà di adattamento a questo nuovo assetto globale.

Nella scelta di un campo in cui misurare la propria appartenenza, in un senso vanno quelle persone che aderiscono ad una narrazione “ufficiale” dei fatti, la maggior parte, per le quali sembra vitale cercare la rassicurazione nella delega delle libertà e della propria salute ai politici e ai medici, oppure a entità fisiche come un farmaco o un vaccino, a loro volta rappresentanti simbolici di istanze magiche quali la protezione dalla malattia, l’immunità, l’incorruttibilità della sostanza corporea, la salvezza di fronte alla morte. In un altro verso vanno le persone che non aderiscono alla narrazione ufficiale, la minoranza, i quali, rigettandola, tentano faticosamente di trovare mediazioni tra un giustificato principio di precauzione a fronte del cambiamento imposto e il tentativo fondato di demistificare le distorsioni di natura fobica e paranoidea generate dalla manipolazione dell’informazione. Vi è una terza categoria di soggetti, gli indifferenti o chi non riesce a farsi un’idea di ciò che sta succedendo nel contesto politico e sociale mondiale, perché travolti dalla dissonanza cognitiva determinata dalla roboante contraddittorietà del contesto infodemico. In questa categoria si identifica un gruppo eterogeneo di persone rispetto alle quali è ancora più importante riflettere e verso i quali è necessario stimolare attenzione, discussione e fondata critica, perché possano affrontare la tentazione di rifugiarsi nella versione più comoda e meno rischiosa dal punto di vista personale, che al tempo stesso amplifica l’isolamento, sulla scia delle misure di contenimento del contagio imposte.

LA PAURA E LA MEDICINA

La paura è ubiquitaria nei quattro domini identificati dalla psicologia esistenzialista e al momento sembra condizionare anche personalità fino a ieri ritenute brillanti. Quandanche le ragioni che tali menti propongono sembrino ancorate a “ferree logiche scientifiche” – perlomeno fino a quando il nostro stupore non lascerà spazio al più giustificato sospetto di adesioni acritiche e strumentali, motivate dal desiderio di potere, di denaro o di appartenenza politica, che illusoriamente garantiscano protezione, potere e prestigio istituzionale – il loro silenzio o la loro adesione alla versione “più gridata” lascia un senso di sconforto e spaesamento. Solleva stupore e rabbia il modo in cui tali politici trascurino, nella loro azione istituzionale, i principi che li hanno portati alla ribalta, mentre gli scienziati ignorino le elementari regole di prevenzione e profilassi delle influenze o gli allarmi lanciati da numerosi medici riguardo al problema delle interferenze vaccinali, della mancanza di movimento, della mancanza di un robusto profilo immunitario, puntando invece su un’insistente battage mediatico a favore di un miracoloso vaccino. In più, ancor prima che il Covid-19 facesse la sua comparsa, queste regole hanno sempre avuto pochissimo spazio nella pratica medica e nelle campagne di educazione alla salute, principalmente ispirate dalla fiducia conferita alla presunta onnipotenza del farmaco, con la conseguenza socio-sanitaria di aver creato un esercito di ammalati cronici, utenti mansueti e garantiti al sistema pubblico delle cure e delle case farmaceutiche.

La salute, o meglio, la “vendita di salute”, è stata architettata allo scopo di creare la dipendenza dei più dal potere prescrittivo dei medici, di destituire la capacità degli individui di autoregolare la propria alimentazione e i propri bisogni essenziali, in un’orgia continua di sedentarietà televisiva e delega. Chi si occupa di psicologia comprende, tuttavia, che alla base della delega non si pone soltanto la fiducia. Il conferimento di un potere totale al medico sulla propria salute nasconde manovre psicologiche profondamente difensive a protezione della propria “fragilità” psicologica, mentre chi riceve tale delega, altrettanto difensivamente, può utilizzarne il potere prescrittivo per nascondere responsabilità personali e tecniche relative al rischio di fallimento terapeutico, che è normalmente insito nelle procedure diagnostiche e terapeutiche. Il medico, includendo in questa categoria gli operatori sanitari in genere, deve inoltre lottare continuamente con il senso di onnipotenza e aspetti narcisistici della personalità insiti nella scelta della professione di aiuto e questa posizione espone le scelte di chi cura ad un complesso intreccio difensivo fondato sulle connaturate angosce di morte dell’essere umano (Imbasciati, 2008; Campailla, 2018).

A tal riguardo, mi sovviene alla mente un’amica, che pur di continuare a fumare senza sosta, attende con speranza il vaccino che la protegga dal virus, rifiutandosi di prendere coscienza del fatto che se continua a fumare nessun vaccino la salverà dal cancro. Ma questi atteggiamenti, di cui l’esempio appena descritto non rappresenta nemmeno la più inconscia delle rimozioni, testimoniano di una maturazione involutiva della coscienza collettiva, ben descritta da Recalcati (2010) e, come precedentemente analizzato da Lacan, dominata dal “discorso del capitalista” e dalla sua logica del “godimento in assenza di desiderio”, che sprofonda l’uomo nel vortice della pulsione di morte. Se accogliamo le premesse lacaniane, è facile comprendere che il rapporto che si è venuto a creare tra uomo, medicina e morte, sulla base dello sviluppo tecnologico irrefrenabile iniziato nel 900, ha condotto l’umanità alle soglie di un totale smarrimento del senso dell’esistenza, prima legata “all’interdetto” ovvero alla legge, al limite, alla morte e alla sua giustificazione escatologica: in sintesi alla sua accettazione regolativa. Oggi, invece, questa stessa umanità, un tempo competente nel lavoro, nella percezione della fatica e nel riconoscere i limiti del corpo, è divenuta incapace di regolare la risposta fisiologica alla vita e al suo milieu sociale, microbiotico e virale, se non in funzione di un continuo esorcismo biotecnologico, identificato nel farmaco, ma soprattutto nella sua ricerca e assunzione compulsiva. A ben vedere, in molti casi, il gesto di assumere un farmaco, evitando di stimolare una propria efficace risposta immunitaria, si rivela essere un espediente apotropaico, non più efficace che assumere un ansiolitico o toccare la cornucopia. Inoltre la sperimentazione in campo farmacologico svela ogni giorno di più, interessi economici e manomissioni strumentali, che rendono insicura la pratica di affidare la propria salute al solo rimedio farmacologico (Bottaccioli, 2018; Campailla, 2020; Ratto, 2020).

Per poter garantire la credulità della maggioranza nel sistema delle cure farmaco-tecnologiche devono allora essere socialmente rievocati antichi rituali. Così l’atavica paura della morte si insinua nella rinnovata pratica sociale del , l’espulsione rituale dalla città di un uomo e una donna brutti di aspetto, che nell’antica Atene conservava il significato di allontanare le sventure e la paura di contaminazioni dalla comunità, mentre al giorno d’oggi si palesa nel superstizioso rifiuto del dissenso, dell’informazione libera, della libertà di scelta terapeutica, nell’ignorare l’attacco alle libertà costituzionali, tanto preziose e faticosamente conquistate dai nostri “padri”, ma anche nell’accettazione, timorosa e accondiscendente ad un tempo, di una “nuova normalità”, ritenuta necessaria in nome dell’assurda guerra ai virus.

LA MORTE E L’UOMO

L’atteggiamento sociale dell’uomo nei confronti della morte è mutato nel corso della storia, non sappiamo invece se l’atteggiamento individuale sia rimasto sempre dominato dal sentimento della paura della fine. Quel che possiamo estrarre dalle narrazioni letterarie e dai resoconti storiografici testimonia di un atteggiamento dei costumi nei confronti del morire segnato da grandi, seppur lente, trasformazioni (Aries, 1975). Durante il medioevo e fino al tardo romanticismo, il rapporto dell’uomo con la morte, in particolare con la propria, è stato un rapporto intimo. La morte si presentava e il morituro l’accoglieva consapevolmente, mentre la morte improvvisa veniva considerata una sventura, poiché non permetteva la messa in scena del rituale che accompagnava il morente, precludendogli la possibilità di raccomandare l’anima a Dio, di pentirsi e di scusarsi, di disporre e indicare la via da proseguire dopo di lui, soprattutto ai più giovani, che erano spesso il vero obiettivo del messaggio educativo della morte incarnato nell’ars moriendi. Al giorno d’oggi siamo più propensi a sperare in una morte improvvisa, meglio se arriva durante il sonno, in modo da evitarci massimamente il dolore del corpo. La paura del dolore e della malattia sembrano dominare il desiderio di una morte repentina. Inoltre i giovani e i bambini devono essere rigorosamente esclusi dallo spettacolo della morte e dalla vista del cadavere, eventi diventati macabri, caratterizzati dall’imbarazzo che mostriamo di fronte al dolore. Anche questo deve mantenersi su binari dignitosi e contenuti. L’ostentazione catartica della disperazione, del pianto e delle grida, che caratterizzavano la manifestazione del lutto e le esequie, descritte e musicate come pianto rituale da Ernesto De Martino (1960), sono definitivamente usciti dalla scena della morte moderna.

Dall’immagine attuale che la società ha ritagliato sulla morte e sul morire, possiamo derivare l’idea di salute e malattia, come suggerisce Ivan Illich in epigrafe. La salute, come recita la fuorviante definizione data dall’OMS, deve identificarsi non solo con l’assenza di malattia, ma come completo stato di benessere fisico, psichico e sociale; così come la vita deve identificarsi con l’occultamento della morte, l’annichilimento del lutto, la scomparsa del cordoglio. Di contro assistiamo ad un diffuso senso di banalizzazione, che potremmo definire gossip, profuso quotidianamente sui social media, in cui la pubblicità individuale della perdita di un caro reclama condoglianze surrogate in forma di emoticon e “like”, tanto impersonali quanto insensati, lontani dal contatto delle mani, dall’accoglimento del dolore e del pianto, tanto ridicoli quanto deprivati di realtà. La mancanza di senso, ancora, permea il rapporto con la morte nelle “congiure del silenzio” che le famiglie intessono intorno ai propri malati gravi. Come l’Ivan Il’ic di Tolstoj, questi si assoggettano, in una rabbia sorda e disperata, al copione che i propri familiari, ma soprattutto i medici, hanno scritto per loro. Complici i professionisti sanitari, la morte è negata fino all’ultimo momento, in una sorta di danza dell’ipocrisia. Nell’eccezionale documento letterario, scritto nel 1886, Tolstoj ci mostra come l’espropriazione della propria morte sia in accordo con l’imperativo di definire e sostenere una diagnosi.

Il mutamento del rapporto tra medicina e malattia, iniziato con la rivoluzione francese e le riforme degli ospedali, conferirono un nuovo corpus alla scienza medica e allo stesso modo conferirono un nuovo corpus al ruolo di malato (Foucault, 1969). Già in corso con il mutamento della famiglia borghese, iniziato nel XVIII secolo, che inizia a circoscrivere la morte all’interno del circuito emotivo degli affetti più prossimi, questo evento, in questo passaggio dal romanticismo al dominio della scienza positiva, viene consegnato via via nelle mani della medicina (Aries, 1975, 233):

Ormai Ivan Il’ic esce dal ciclo vitale, familiare, fonte di rassegnazione, o d’illusione, o d’ansia, che era stato da sempre quello di tutti i malati gravi, assimilati ai moribondi. Entra nel ciclo medico

La disperazione generata dalla sostituzione del linguaggio degli affetti con quello della diagnosi, suscitano il secondo atteggiamento negativo di fronte alla morte, l’isolamento. Nonostante la commedia dell’ottimismo recitata intorno alla morte moderna, le persone ammalate, come anche le persone anziane le quali, seppur stanche e consumate dagli anni, ricevono spesso costanti e pressanti esortazioni alla salute e all’attività da parte di familiari e amici, vivono l’inesorabile condizione dell’essere oggetto di incomprensione e in risposta accentuano il loro ritiro dalla società.

Ad un certo punto è apparso il Covid. La paura della morte, legata a doppio filo al disprezzo per la vita, che fino a quel momento navigava al di sotto delle coscienze dei più, ha fatto irruzione. Non che non si morisse anche prima del Covid, soltanto che questa notizia non possedeva dignità di cronaca. Dal Covid in poi si può morire anche con il Covid, soprattutto se la salute non è delle migliori. L’interrogativo che ci si pone al riguardo non si rivolge soltanto alla comprensibile paura del contagio, rispetto al quale siamo ormai del tutto consapevoli e potremmo ben prevenire, ma alla risposta confusa e massiva, orientata alla delega in bianco nei confronti della politica e della scienza, senza che tali soggetti vengano più valutati per le innumerevoli prove di inefficacia, nonché malafede, che storicamente hanno dato di sé.

La popolazione e la medicina si stanno comportando come se il diluvio universale stesse per abbattersi sul mondo per una seconda volta e il terrore di morire affogati avesse innalzato il panico a livelli mai visti prima. Per spiegare questo fenomeno che, con i dati generali che abbiamo oggi a disposizione, oltrepassa l’immediata comprensione, dobbiamo rivolgerci a categorie e ipotesi ulteriori. La paura del giudizio universale sembra essersi impossessata della maggior parte delle coscienze, ma per poterla giustificare abbiamo bisogno ancora una volta del pensiero di Ivan Illich, il quale pone alla base della paura della morte la percezione individuale del peccato e della propria condizione di peccatore (1955-1985). Lo stesso peso della fine impone, in genere, al morente la decisione di sottomettersi al giudizio di Dio, allo scopo di riconciliarsi con lui e continuare a vivere nella vita eterna oppure di rinunciarvi, con l’esito di subire l’inferno o il nulla agnostico. La percezione che l’attività dell’uomo in vari ambiti dell’esistenza fosse arrivata, prima del covid, a livelli di eccesso, iniquità, ingiustizia, disprezzo e perversione, non più sopportabili, poteva tuttavia accompagnarsi con leggerezza all’idea che, nonostante l’abito moralistico tanto elegantemente indossato dalla maggior parte delle persone della parte consumistica del mondo, ognuno fosse un po’ partecipe di questa lecita trasgressione e quindi assolto. Tuttavia il senso di colpa è largamente distribuito e, anche in assenza di trasgressioni, fa parte della normalità nevrotica della vita quotidiana per cui nessuno se ne può dire immune. Oltre a questo fisiologico fardello, le istituzioni utilizzano comunicazioni distorte e strategie di distrazione di massa per instillare il senso di colpa collettivo, ne è un esempio la questione del debito pubblico, che consiste nell’indurre le persone comuni a ritenersi responsabili dell’enorme buco economico, oltraggiosamente perpetrato dalla finanza neoliberista, senza permettere che i veri meccanismi all’origine del dissesto dell’economia dello Stato emergano alla consapevolezza dei più (Bersani, 2017).

Oggi la scure del giudizio universale – o, se ragioniamo, un fenomeno normale e frequente nella storia delle società, quale è un’infezione virale al quale i governi del mondo avrebbero dovuto essere ampiamente preparati (Fracassi, 2020) – ha dato inizio ad un processo nichilistico che poggiava da tempo sulle fondamenta già solide e ampiamente collaudate dell’alienazione dei legami antropologici più profondi tra l’individuo e gli archetipi “dell’essere umani”. Così, in un tempo incalcolabilmente breve si è creato il link tra peccato e remissione dell’anima all’autorità e al nuovo Dio dei nostri tempi: la scienza. Purtroppo la scienza è un fenomeno umano.

QUALCHE PAROLA SULLA LIBERTÀ

Parafrasando Illich è possibile affermare che il soggetto perde la sua libertà quando, paradossalmente, rifiuta in toto le regole che lo governano e, allo stesso modo, quando delle stesse regole ne fa un feticcio (ibidem). Paradossalmente ci si può sentire tanto liberi in una condizione di schiavitù quanto schiavi in una condizione di libertà. In tal senso, per alcune persone potrebbe sembrare una grande conquista di libertà il passeggiare all’aria aperta con una mascherina posizionata sul volto: al fine di preservare i confini dell’aria si stabilisce, facendo il verso ad un adagio popolare, che “dove finisce la mia aria comincia la tua”. Per queste persone è segno di libertà rispettare questo limite, come è pretesa di democrazia che tale limite venga osservato da tutti. Questo limite appare così una demarcazione che definisce uno spazio privato, quello del soggetto, che al tempo stesso configura un confine illusorio di proprietà del proprio destino di salute o malattia e di quello dei propri congiunti, da difendere con tutti i mezzi, esattamente come il podere o la casa. Purtroppo i virus non sono capitalisti, bensì radicalmente “socialisti”, se proprio volessimo dare loro un’entità che superi il loro carattere esclusivamente biologico e informazionale. Sono socialisti perché si confondono con velocità nella massa e della massa fanno la forza quanto più si diffondono, secondo il criterio dell’immunità di gruppo.

Questa libertà, così incarnata nel concetto di proprietà privata, è tuttavia minacciata dall’isolamento, dal momento che in questa condizione il soggetto, protetto all’interno dei suoi confini, diventa preda di una confusione esistenziale, facendo di lui un essere “consciamente confuso e inconsciamente controllato(n.d.r.), come ebbe a dire Freud (1906), parlando del determinismo psichico. La libertà dovrebbe essere rappresentata da criteri di convivenza e di scelta condivisi sulla base delle conquiste sociali di democrazia, diritto e non violenza, pur nel diritto della propria proprietà privata. Tuttavia la “pandemia” ha rinforzato l’opinione che il senso di libertà mantenga un significato individuale e soggettivo, quando non proprio arbitrario, in relazione al vincolo di delimitazione rispetto alla prossimità con un altro soggetto per cui, come si diceva pocanzi, la libertà dell’uno finisce dove inizia quella dell’altro e viceversa. Ne è una diretta ed estrema espressione il secondo emendamento della costituzione degli Stati Uniti d’America, che a difesa dell’incolumità personale e della proprietà, consente dal 1791 di possedere e usare armi.

Nonostante le aberrazioni, l’illusione individualistica fondata sul concetto di proprietà privata perde di forza di fronte al bisogno umano di appartenere ad una massa, come ci ricorda Elias Canetti (1960, 391-392):

Nella massa si è tutti uguali, nessuno ha il diritto di impartire comandi agli altri, o, se si vuol dir così, ognuno comanda ad ogni altro. Non solo non si aggiungono nuove costrizioni (n.d.r.), ma si è anche – provvisoriamente – liberi da tutte le vecchie. Ciascuno è, per così dire, sgattaiolato fuori di casa lasciando in cantina tutte le spine che vi stanno ammassate. Questo uscir fuori da tutto ciò che crea vincoli rigidi, confini e carichi, è la vera e propria determinante dell’euforia che l’uomo prova nella massa. In nessun altro luogo egli si sente più libero; egli desidera disperatamente di continuare a formare una massa, proprio perché sa bene cosa lo aspetta quando uscirà fuori dalla massa stessa”

È pur vero che ogni massa si identifica sempre in una leadership, dal quale progetto dipende il suo comportamento violento o non violento, organizzato o disorganizzato, costruttivo o distruttivo.

Lo sfruttamento capitalistico delle persone, che ha raggiunto un suo culmine nella nostra contemporaneità neoliberista, ha, invece, reso il significato di libertà, tanto equivoca quanto solipsistica. Come ha scritto recentemente Giorgio Agamben (www.quodlibet.it):

[…] “è importante non lasciarsi sfuggire che una comunità fondata sul distanziamento sociale non avrebbe a che fare, come si potrebbe ingenuamente credere, con un individualismo spinto all’eccesso: essa sarebbe proprio al contrario, come quella che vediamo oggi intorno a noi, una massa rarefatta e fondata su un divieto, ma, proprio per questo, particolarmente compatta e passiva”.

In sostanza, il bisogno di fare massa, contenitore sociale dell’istanza di libertà, può declinarsi secondo due modalità: il cercarsi, stabilendo affinità, prossimità, identificazioni, significati condivisi e azioni, oppure, come suggerisce Agamben, ritirarsi in un distretto virtuale di tacito accordo sull’opinione più diffusa, giuridicamente imposto, aggressivo e intollerante. Questa massa gelatinosa e poco agglutinata, sebbene sia incapace di stabilire azioni propulsive all’interno della società in cui vive e che decide piuttosto delegarle a istituzioni e tecnici, si accorda a nuove forme di conservatorismo e difesa della propria passività, basa la propria reazione su un’idea di libertà monadica e non costruttivista, predilige il distanziamento non come soluzione al rischio ma come identificazione definitiva alla propria narcisistica difficoltà di interagire all’interno delle relazioni umane.

Il bene che più viene ritenuto assoluto, la libertà, è infatti un bene collettivo, che si esprime nella possibilità di incontrarsi in gruppi o masse critiche dal potere catartico, divenute coscienti dei propri diritti e doveri, capaci di costruire reti di condivisione, protezione ed uso ragionato dei beni comuni, sulla base di nuove iniziative di comunità. La paura che coglie il “narcisista della proprietà privata” si palesa allora di fronte al rischio di espansione della coscienza, al disconoscimento della coazione pulsionale di morte, inconsciamente coltivata nel corso della propria storia relazionale e, in sintesi, di fronte all’incapacità di abbandonarsi alla fiducia nell’altro. La vastità di tale espansione, unico antidoto all’annichilimento imposto dalle dittature, nasce dall’ascolto, dall’esperienza dell’incontro, il più aperto possibile e dall’esperienza del rispecchiamento, senza il quale non potremo riconquistare alcuno spazio di libertà e di comunità. Per concludere, faccio mie le parole di Jacob Levi Moreno, padre dello Psicodramma, che nel suo celebre Motto infonde speranza nell’unico vero presupposto che la non violenza possiede, il riconoscersi in sé e tra simili e che risulta essere più prorompente e costruttivo di qualsiasi coercizione all’annullamento delle identità (Moreno, 1980, 7):

[…] E quando sarai vicino io coglierò i tuoi occhi

per metterli al posto dei miei,

e tu coglierai i miei occhi

per metterli al posto dei tuoi

poi io ti guarderò coi tuoi occhi

e tu mi guarderai coi miei.

Così persino la cosa comune impone il silenzio e

Il nostro incontro rimane la meta della libertà […] .

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Riferimenti Bibliografici

 

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