UN’ANALISI CRITICA SUL CONCETTO DI COMPLOTTISMO

Alice Lazzari – il Regno dell’Ongheu

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Ormai da mesi ci siamo abituati ad una nuova normalità imposta e sempre più diventa necessario interrogarsi sul significato di parole che sembrano entrate nel vocabolario comune, e che, già nella loro forma più implicita, delineano fazioni, spaccature, contrasto.

Un effetto della condizione di pandemia che stiamo vivendo è che chi teme fortemente questo virus e considera l’altro come possibile untore, come possibile causa di contagio, di malattia, di morte, non riesca a tollerare che qualcuno metta in dubbio le sue sicurezze e la convinzione che tutto ciò venga fatto per il bene della comunità. Diventa allora un nemico, un complottista, chiunque dica qualcosa non in linea con i messaggi che arrivano “dall’alto” ampiamente veicolati dai mass media. Tra mascherine e distanza sociale, controlli in arrivo e partenza, chiusure in casa, isolamento totale in ospedale nei momenti più delicati e fragili della malattia e della morte, aggiungiamo dunque la separazione tra buoni e cattivi tra chi, “buono” difende la salute pubblica aderendo con solerzia alle direttive che arrivano dall’alto, e chi comincia a mettere in discussione tali direttive e le verità che le sostengono e viene additato come “cattivo”, menefreghista, egoista, complottista.

Vorremmo iniziare questo articolo citando un aforisma di Baruch Spinoza:mi occupai con diligenza di non deridere, di non piangere, di non condannare, ma solo di comprendere (…) le azioni umane (Spinoza, 1941, 147), nel quale egli esprime un atteggiamento empatico nei confronti dei suoi simili, scevro da facili pregiudizi. Così, quattro secoli dopo, vorremmo approcciarci a comprendere le motivazioni che spingono le persone a puntare il dito contro, tacciando di complottismo, se non di negazionismo, chi esprime opinioni contrarie alle proprie.

Gli effetti dell’influenza sociale e la dissonanza cognitiva

Alla base delle diverse teorizzazioni, che nell’ottica della psicologia sociale possono permetterci di spiegare l’attribuzione di complottismo a quanti hanno un’opinione divergente rispetto a quella dominante, si pongono gli studi classici e recenti sul fenomeno del conformismo e sui processi ad esso correlati.

Per conformismo si intende comunemente la tendenza ad adattarsi alle norme seguite dalla maggioranza che stabiliscono cosa sia giusto pensare, sentire o agire in un contesto sia privato che sociale. In questo quadro il concetto di norma sociale assume dunque un ruolo centrale rappresentando il parametro di riferimento di processi anche molto complessi che regolano l’agire individuale, le relazioni interpersonali e le dinamiche sociali. Le norme sociali per definizione rappresentano un modo generalmente accettato di pensare, sentire e comportarsi che risulta da un accordo all’interno della maggioranza del gruppo e da essa sostenuta come giusto e corretto (Thibaut e Kelly, 1959). Riflettono dunque valutazioni di gruppo condivise su ciò che è giusto o sbagliato, vero o falso, opportuno o inopportuno, che spesso prendono la forma di “opinione pubblica”, “il modo corretto in cui bisogna comportarsi”, “il modo in cui stanno le cose”. Per loro natura le norme sociali possono essere definite descrittive, rappresentando ciò che gli altri pensano, sentono o agiscono (ad esempio, in tempo di pandemia la maggior parte delle persone evita di stabilire un contatto fisico con gli altri ritenendolo pericoloso, indossa la mascherina ed è preoccupata per il futuro) o ingiuntive, indicando ciò che le persone dovrebbero pensare, sentire o fare (bisogna applicare il distanziamento sociale, indossare la mascherina, non abbassare la guardia di fronte ad un pericolo imminente). Quando molte persone si comportano ripetutamente sempre allo stesso modo può svilupparsi la convinzione che sia doveroso agire così e in questo caso la norma sociale da descrittiva può diventare ingiuntiva (Guala e Mittone, 2010) rappresentando la base per lo sviluppo di un automatismo che diventa poi difficile mettere in discussione e modificare. Un’ulteriore distinzione riguarda il conformismo privato che è il frutto di una interiorizzazione della norma sociale che spinge l’individuo a pensare, sentire e agire in modo conforme al gruppo anche quando questo non è fisicamente presente (mi convinco che mantenere la distanza sociale, indossare la mascherina e rimanere in allerta siano valide forme di protezione), e il conformismo pubblico che si verifica quando l’individuo è compiacente pubblicamente verso una norma sociale per effetto della pressione reale o immaginata degli altri ma non interiorizza tale norma (ritengo che la mascherina non abbia effetti protettivi ma la indosso per non sentirmi criticato o dovermi giustificare). In generale tale compiacenza è giustificata dal tentativo di evitare le conseguenze negative del rifiuto di una norma, come il discredito, l’esclusione e l’applicazione di sanzioni. Per quanto di fronte a insistenti e potenti pressioni esercitate dal gruppo noi possiamo decidere di conformarci solo pubblicamente, la maggior parte delle volte mettiamo in atto l’accettazione privata delle norme e frequentemente tale processo avviene al di fuori della nostra consapevolezza (per effetto della ripetizione quando mi avvicino all’altro mi viene spontaneo mantenere la distanza). Ne consegue inoltre che tanto più una convinzione sociale diventa radicata interiormente tanto più forte sarà la sua difesa, sia a livello individuale che di gruppo, rispetto alle convinzioni divergenti.

Cosa motiva la spinta al conformismo? Tra le diverse motivazioni ricordiamo senz’altro il bisogno di consenso, che consiste nella percezione che la nostra visione del mondo sia la stessa degli altri simili a noi con il vantaggio di sentirci sicuri e nel giusto. Altre due spinte basilari sono il bisogno di accuratezza, garantito dall’influenza informativa (riteniamo che il gruppo disponga di informazioni corrette sulla realtà che accettiamo come tali) e il bisogno di appartenenza, soddisfatto dall’influenza normativa (ci adeguiamo alle norme del gruppo per ottenere un’identità sociale positiva e apprezzata e conquistare il rispetto degli altri membri del gruppo). Queste spinte diventano tanto più forti quanto più il gruppo è saliente per l’individuo e l’appartenenza ad esso è definita sulla base di valori importanti. Ciò comporta che la nostra adesione e la nostra difesa sarà molto più forte nei confronti di norme descrittive e ingiuntive radicate nel gruppo di appartenenza e condivise dai loro membri (Christensen et al, 2004). Al contrario non abbiamo bisogno di trovarci d’accordo con i membri di gruppi esterni e non siamo preoccupati di trovare aspetti in comune con essi (Robbins e Krueger, 2006). Questo atteggiamento può favorire l’espressione di un giudizio negativo e attribuzioni stereotipate e pregiudiziali verso chi esprime opinioni diverse e diverse visioni della realtà. Ne consegue che chi tende ad andare contro corrente rispetto al pensiero dominante venga spesso punito, ridicolizzato o rifiutato (Abrams et al., 2014).

L’affidamento all’influenza informativa risulta particolarmente accentuato quando l’individuo ha la percezione di vivere un periodo di crisi e si confronta con una situazione potenzialmente pericolosa e minacciosa che non sa come gestire autonomamente. In questo caso l’informazione data dagli altri e il loro comportamento (norme ingiuntive e descrittive) possiedono un alto valore informativo. In sintesi le situazioni in cui aumenta la tendenza al conformismo attraverso l’influenza informativa sono rappresentate dall’ambiguità della situazione (Huber, Klucharev e Rieskamp, 2014), dalla percezione di un pericolo che suscita paura e insicurezza (Aronson, Wilson e Sommers, 2019), dalla presunta presenza di esperti, che a sua volta sostiene il processo di obbedienza all’autorità (Williamson, Weber e Robertson, 2013). Nella teoria dell’impatto sociale, Latanè (1981) sostiene che la probabilità con cui rispondiamo all’influenza sociale proveniente dagli altri derivi da tre fattori principali: a) la forza, ossia il grado di importanza che il gruppo ha per noi (nella situazione della pandemia l’adeguamento alle prescrizioni è stato favorito dal fatto che la maggior parte delle persone aspira a essere considerata onesta e responsabile dalla società); b) l’immediatezza, ossia il grado di vicinanza spaziale e temporale che il gruppo ha nei nostri confronti durante il tentativo di influenza (attraverso tutti i canali mediatici è stato effettuato un bombardamento di informazioni unilaterali rispondenti all’idea del pericolo e alla necessità delle limitazioni), c) la numerosità, il numero di soggetti dai quali subiamo la pressione (la campagna è stata compiuta su larga scala e ha trovato consenso e rinforzo nella maggioranza delle persone).

Un fenomeno correlato è quello della polarizzazione del gruppo. La polarizzazione del gruppo si verifica quando la posizione media iniziale del gruppo diventa sempre più estrema. Ciò può essere il frutto sia dell’utilizzo superficiale della strategia euristica del consenso che spinge gli individui incerti ad abbracciare il consenso della maggioranza spostando la visione del gruppo verso un estremo (Bohner, et al., 2008), sia la risultante del desiderio di ogni membro di essere il miglior membro possibile andando anche oltre la visione condivisa dalla maggioranza (Codol, 1975).

La ricerca del consenso, sottostante la spinta al conformismo, prende dunque a volte strade sbagliate. Tale consenso è infatti inaffidabile quando presuppone un’adesione acritica al pensiero degli altri, quando si fonda su pregiudizi condivisi e quando è sostenuta da un conformismo pubblico che implichi la sola adesione superficiale alla norma sociale in assenza di un processo di pensiero sistematico. In casi estremi si può assistere anche al fenomeno dell’ignoranza pluralistica in cui le persone di fronte ad una decisione da prendere, in un processo di influenza reciproca, si limitano a conformarsi a ciò che pensa, sente o fa l’altro.

In uno scenario diverso si colloca l’influenza della minoranza che per sua definizione non possiede la forza, l’immediatezza e la numerosità del gruppo di maggioranza. La sua influenza, spesso associata ai cambiamenti e alle più importanti trasformazioni sociali, risulta particolarmente preziosa ma è spesso oggetto di attacchi e pregiudizi. L’affermarsi del pensiero della minoranza e il successivo consenso sono possibili attraverso un attento e a volte lungo processo di validazione che non si fonda sul semplice confronto sociale, che è alla base del conformismo, ma su un processo di elaborazione sistematica dei dati. Dunque, se nell’influenza della maggioranza si possono individuare un’influenza normativa e una informativa, l’influenza della minoranza è resa possibile dalla sola influenza informativa che si concentra su visioni alternative e divergenti della realtà rispetto a quelle della maggioranza, sulla base di argomentazioni forti, prove di validità e soluzioni creative alle situazioni. Con l’obiettivo di stimolare l’interiorizzazione di una norma diversa da quella ampiamente condivisa, la minoranza deve mostrarsi coerente e tale da suscitare un pensiero critico in grado di mettere in discussione il pensiero dominante e causare una rottura dell’unanimità e della acquiescenza. È proprio in risposta a tale dinamismo che la maggioranza, anche grazie alla forza dei suoi strumenti mediatici, attiva le sue difese incrementando la compattezza delle sue idee e svalutando quelle ritenute devianti.

Ritornando al concetto iniziale di complottismo attribuito ai gruppi che non seguono le idee dominanti appare dunque chiaro come tale etichetta sia funzionale al mantenimento di un pensiero accettato e diffuso come giusto e alla svalutazione del pensiero divergente.

A tal proposito risultano molto interessanti i risultati di recenti ricerche che hanno invece evidenziato come, diversamente da quanto sostenuto dagli stereotipi culturalmente diffusi, le persone etichettate come “teorici della cospirazione” si presentino più sane ed equilibrate rispetto a chi accetti le versioni ufficiali dei fatti contestati. Uno studio pubblicato nel 2013, in merito alle vicende dell’11 settembre 2001 (Wood, Douglas, 2013) ha confrontato i commenti di tipo “cospirazionista” e “convenzionalista”, postati da utenti di siti di notizie online. Un primo dato riguarda la maggiore numerosità di commenti a supporto della teoria del complotto rispetto a quelli delle persone che continuano a reputare valide le versioni ufficiali dei fatti trasmesse dai media “ufficiali”. Ciò risulta indicativo di una versione di tendenza rispetto a ciò che viene definita maggioranza o minoranza. Inoltre i soggetti che si fanno portavoce di una visione convenzionalista esprimono i loro commenti con maggiore rabbia ed ostilità e con maggiore tendenza al fanatismo. Diversamente i cosiddetti cospirazionisti non pretendono di avere un’unica teoria esplicativa dei fatti ma elaborano ipotesi con argomentazioni più complesse e articolate. In breve, lo studio evidenzia come le caratteristiche stereotipate di fanatismo ostile, espressione della propria setta di appartenenza, attribuite ai complottisti in realtà siano maggiormente descrittive di coloro che difendono le versioni ufficiali. Ancora i complottisti presentano una migliore visione d’insieme e una capacità critica nei confronti del contesto storico.

Sempre rimanendo sul tema la Manwell (2010) asserisce che le persone anticomplottiste spesso non sono in grado di ragionare con lucidità sui fatti incriminati per via della loro incapacità di elaborare informazioni in contrasto con una linea di pensiero inculcata precedentemente. Anche Hoffman (2010) sostiene che gli individui che si contrappongono alle teorie cospirative siano soggetti a un forte bias di conferma che motivi da una parte la ricerca di informazioni congruenti con le convinzioni preesistenti, dall’altra favorisca forme di etichettamento di chi sostiene posizioni diverse nel tentativo di evitare di confrontarsi con informazioni contrastanti.

Nella sostanza questo processo di difesa delle proprie convinzioni, anche di fronte a prove fondate e documentazioni di carattere scientifico, rimanda alla messa in atto di strategie atte a risolvere uno stato di dissonanza cognitiva, che nel caso specifico di eventi catastrofici che coinvolgano l’intera umanità, può essere vissuto non solo nella propria individualità ma essere oggetto di condivisione e rinforzo sociale. Viene definita dissonanza cognitiva lo stato mentale di disagio che nasce da un’incoerenza tra due rappresentazioni dello stesso atteggiamento come quando gli individui si trovano a comportarsi in modo discrepante rispetto alle proprie convinzioni (Festinger, 1957). Di base la dissonanza produce disagio e di conseguenza si generano, spesso in modo inconsapevole, delle pressioni per ridurla o per eliminarla. Tra le forme più ricorrenti di riduzione vi sono: a) la tendenza a modificare una o più delle convinzioni, opinioni o comportamenti coinvolti nella dissonanza, b) acquisire nuove informazioni che aumentino lo stato di consonanza, c) negare o ridurre l’importanza delle cognizioni che risultino dissonanti (Festinger, 1951). Ma cosa accade quando questo fenomeno assume un carattere sociale e diventa esperienza condivisa? In questo caso i meccanismi attuati non riguardano il solo singolo individuo ma entrano in gioco processi relazionali che connotano una risposta sociale. In tal caso vengono agiti contemporaneamente processi cognitivi di ridefinizione e meccanismi di difesa ma anche processi intergruppi che possono sfociare in stereotipizzazioni, pregiudizi, discriminazioni e la messa in atto di processi persuasivi e manipolatori tesi a rinforzare ancora di più il proprio quadro di credenze e screditare il punto di vista divergente. Tale processo risulta tanto più forte quanto più le convinzioni sono state interiorizzate e hanno assunto rilevanza per l’azione, in riferimento a quelle convinzioni le persone hanno assunto un impegno e attuato un investimento e si è innescato un forte sostegno sociale (Festinger, Riecken, Schachter, 2012). Nel caso della pandemia queste condizioni sembrano essere tutte presenti dal momento che il tema della salute e la protezione dal pericolo di malattia e morte ha assunto immediatamente una forte rilevanza per le persone determinando un marcato impegno personale in termini di azioni e sacrifici e generando immediatamente una condizione di rinforzo, modellamento e controllo sociale. Non stupisce dunque che di fronte a dati che mettano in discussione le credenze interiorizzate sullo stato della pandemia la maggior parte della popolazione difenda collettivamente e strenuamente le convinzioni a cui ha aderito e per le quali ha fatto sacrifici attribuendo agli altri senso di irresponsabilità e mancanza di senso civico.

Il pensiero di gruppo e la chiusura cognitiva

Un processo riscontrabile nei gruppi fortemente coesi, in cui l’organizzazione e il senso di identità si strutturano attorno a un nucleo saldo di idee e convinzioni, è il pensiero di gruppo. Questo è definibile come la tendenza da parte dei membri di un gruppo coeso a orientarsi, durante un processo decisionale, in modo unanime verso una direzione e un pensiero convergente trascurando la possibilità di cercare visioni e soluzioni alternative. Tale tendenza esalta la ricerca del consenso e della lealtà al gruppo rinforzando di conseguenza la risposta di acquiescenza da parte dei membri che già abbiamo definito come aspetti centrali del conformismo. Il pensiero di gruppo tende quindi a sostenere la tendenza all’omologazione. Secondo Janis (1982) gli elementi a cui possiamo attribuire l’insorgenza di un pensiero di gruppo sono l’alta coesione interna al gruppo, l’isolamento del gruppo, simbolicamente raffigurabile anche come evitamento del confronto con le idee divergenti dalle proprie, la presenza di un leader carismatico o di una autorità percepita come forte, fenomeni come la depersonalizzazione, la deindividuazione e il favoritismo verso il gruppo di appartenenza.

La polarizzazione di gruppo e il pensiero di gruppo possono essere intesi anche come forme di centrismo di gruppo. Quest’ultimo include una serie di atteggiamenti (opinioni, valutazioni affettive e comportamenti) che rispecchiano il significato e il valore che il gruppo ha per i suoi membri e che si caratterizza per una marcata ricerca di consensualità e omogeneità interne, una tendenza al conservatorismo, la preferenza per una leadership forte e sentimenti positivi verso l’ingroup e negativi verso l’out-group. Non appare dunque strano che una simile impostazione sia la base di un atteggiamento di autorinforzo delle proprie idee e forme di comportamento e di svalutazione ed etichettamento negativo di chi si pone in modo critico e ha una visione che non si uniformi al gruppo. Per spiegare questo fenomeno è utile chiamare in causa il concetto di bisogno di chiusura cognitiva che regola i processi di assimilazione e mantenimento delle conoscenze di un gruppo (Kruglanski 1989, 2004). In sintesi, un alto livello di chiusura cognitiva spinge verso l’uniformità e l’omologazione piuttosto che verso la differenziazione, considerando che la pressione verso tale uniformità non deriva soltanto dall’alto ma trasversalmente dagli stessi membri del gruppo che occupano posizioni paritarie. Inoltre la chiusura cognitiva facilita la concentrazione del potere in pochi elementi del gruppo (autocrazia) e crea un forte rifiuto di gruppi esterni. Per quanto riguarda il mantenimento delle conoscenze acquisite, un alto livello di chiusura cognitiva comporta un aumento del rifiuto delle opinioni sentite come minacciose verso il consenso (devianti); questo aspetto può diventare un rinforzo verso la valorizzazione di membri che sono attivamente conformisti. Da ciò ancora una volta non può che notarsi il rinforzo di atteggiamenti conservatori e di opposizione verso quelli innovativi; la tendenza a reprimere qualsiasi forma di violazione delle regole; infine, un alto livello di chiusura cognitiva spingerà alla promozione della lealtà verso la cultura del gruppo (Pierro, et al., 2007).

L’obbedienza all’autorità

Parlando di complottismo (quindi di reazione al messaggio proveniente dall’autorità) e convenzionalismo (completa accettazione dello stesso) un contributo importante può essere fornito da Milgram e dalla sua storica ricerca sull’obbedienza all’autorità (Milgram, 1963, 1974). Tale studio, proposto nel tempo in 18 versioni, ha certamente il merito di aver studiato la complessità di tutti quei processi che regolano la risposta ad un ordine proveniente da un individuo con uno status superiore all’interno di una gerarchia definita. Grazie alla manipolazione di alcune variabili, diversa in ognuno dei 18 studi, Milgram riuscì ad individuare in quale circostanze l’obbedienza risultasse più elevata. Risultò quindi che l’influenza maggiore sui soggetti gerarchicamente inferiori era data da:

  • la lontananza della vittima, i soggetti degli esperimenti erano evidentemente separati tra loro, definiti sperimentalmente come appartenenti a gruppi estranei;

  • la vicinanza dello sperimentatore nelle vesti dell’autorità, l’autorità aveva una evidente priorità nella relazione col soggetto sperimentale;

  • la legittimazione dell’autorità, quando gli sperimentatori erano presenti ed erano presenti chiari riferimenti alla loro autorità il soggetto tendeva ad obbedire con percentuali elevate;

  • la pressione dei pari, come pressione all’uniformità soprattutto se agite in un contesto di ridotta libertà reale o percepita;

  • una caratteristica minore era data dall’autoritarismo, gli individui che tendevano ad obbedire di più erano quelli maggiormente autoritari.

Per concludere, secondo Milgram, l’esecuzione di un ordine provocherebbe un effetto di responsabilità diffusa: la responsabilità non viene percepita come personale in quanto frutto di una decisione del gruppo, o meglio di una autorità riconosciuta dall’esecutore. Tale processo, pur non avendo eliminato, nelle varie situazioni sperimentali, la sofferenza per quanto impartito ad una vittima, è comunque in grado di ridurre la sottostante dissonanza cognitiva, derivante dall’agire in modo probabilmente contrario ai propri valori (Pedon, 2011).

Le euristiche e i bias cognitivi

Un interessante contributo alla comprensione della tendenza ad aderire ad un pensiero comune e condiviso, attribuendo a ciò che si discosta da questo una connotazione negativa e riduttiva, fa riferimento alle teorie di Tversky e Kahneman che nel 1974 vennero pubblicate con il titolo “Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases”. Gli autori descrivono come gli esseri umani, in un mondo dominato dall’incertezza e da risorse mentali limitate, dovute a limiti di tempo, di informazioni e di capacità cognitive, prendono le loro decisioni utilizzando un numero limitato di euristiche, ossia di scorciatoie mentali, anziché utilizzare sofisticati processi razionali. Kahneman ci spiega come durante l’evoluzione l’Homo Sapiens, al fine di sopravvivere in ambienti ostili, abbia imparato ad utilizzare le euristiche, le quali funzionano correttamente in molti ambiti di vita ma producono errori sistematici di attribuzione (bias) in molte altre (Hewstone, Stroebe, Jonas, 2012). Passiamo in rassegna alcuni di questi bias che come effetto possono determinare la frammentazione del nostro tessuto sociale con il nascere e persistere di fazioni contrapposte in cui vi sono i buoni che vogliono il bene del prossimo e pensano alla salute pubblica e i cattivi, i cosiddetti complottisti, che a detta dei primi, pensano solo a loro stessi. Il bias che deriva dalle euristiche della rappresentatività e della disponibilità si caratterizza, ad esempio, per la violazione di regole probabilistiche a favore di opzioni più rappresentative e più mentalmente disponibili (Aronson, 2019). Pertanto, se pensiamo alla situazione COVID19 è chiaro che le informazioni che arrivano dai canali informativi ufficiali sono maggiormente disponibili e sembrano più autorevoli, maggiormente probabili e credibili. Tra tutti il “Bias Blind Spot” (Pronin, 2015) è forse il più intrusivo e suggestivo e riguarda la tendenza a ritenere oggettiva la propria lettura della realtà differentemente dalla lettura soggettiva attribuita agli altri. Ciò sottende la mancata consapevolezza di interpretare gli eventi attraverso il filtro del proprio sistema di convinzioni e del punto di vista proprio o del gruppo di appartenenza.

Un altro bias determinante nello spiegarci il fenomeno qui trattato è quello chiamato “Error Management Theory per cui quando i costi di differenti tipi di errori sono asimmetrici rispetto ai benefici, per effetto della selezione naturale, si innescheranno meccanismi cognitivi che massimizzeranno l’errore meno dannoso per l’essere umano. Pertanto, ad esempio alcuni uomini, potrebbero massimizzare l’attrazione sessuale che le donne provano per loro, valutando in modo erroneo i messaggi non verbali che provengono da queste ultime e tale bias avrebbe comportato un vantaggio di tipo riproduttivo nel corso dell’evoluzione. Sempre riferendoci al nostro contesto, potremmo ipotizzare che l’errore meno dannoso sia proteggerci da un virus contagioso e mortale, per quel che possiamo saperne e per quello che ci viene raccontato dai media ufficiali, piuttosto che approfondire le informazioni sull’argomento che porterebbero a scelte diverse da quelle ufficiali (Haselton, Buss, 2000). Tale Bias, letto in quest’ottica, richiama il bias “Better safe than sorry”, che comporta il preoccuparsi preventivamente piuttosto che dolersi in un secondo tempo di un comportamento negligente, senza tener però conto dei reali rischi, infatti quest’euristica è quella più inflazionata nei disturbi d’ansia (www.apc.it).

Dalla prova scientifica allo scientismo della verità

Secondo la teoria del mondo giusto di Lerner (1980) le persone hanno l’idea che ognuno nella vita ottenga ciò che realmente si merita. Pertanto, in una sorta di fatalismo sociale, la maggior parte delle persone potrebbe essere indotta a ritenere più o meno consapevolmente, che ognuno sia l’artefice del proprio destino e che, a seconda dei propri pensieri e azioni nel mondo, ognuno raccolga ciò che ha seminato. Così, per chi assume questa visione implicita del mondo, le persone buone verranno certamente ricompensate mentre quelle cattive riceveranno la commisurata punizione per le loro azioni. Alla base di tale ideologia vi è la convinzione inconscia che, essendo le azioni personali di chi agisce bene certamente giuste, in un mondo che per sua definizione è equo e riconoscente, il bene infine deve essere riconosciuto e ricompensato.

Cosa succede, invece, in un mondo in cui un gruppo consistente di persone crede che la teleologia dell’universo porti al riconoscimento delle proprie buone azioni mentre un’altra non ci crede affatto? Una prima ricaduta consiste nel confermare il giusto castigo per chi si ritiene debba meritarsi le conseguenze dei suoi gesti, qualora queste siano negative o rovinose.

Per esempio, non è infrequente ascoltare offensivi giudizi all’indirizzo delle vittime di stupro, che attribuiscono a queste la responsabilità di ciò che hanno subito, per esempio per l’abbigliamento troppo provocante. Tali esternazioni seguono una logica manichea che distingue il mondo secondo categorie morali assolute: il giusto e lo sbagliato, il bello e il brutto, il buono e il cattivo, ecc…

Possiamo ritrovare questi atteggiamenti nell’attualità, quando vediamo esplodere la vendicatività, soprattutto sui social media, verso persone che sostengono una versione della pandemia diversa da quella ufficiale. Possiamo notare come il dileggio e il giudizio moralistico si abbattano su tali individui, con sequele di malauguranti auspici di contagio e sventura, anche per la restante parte di scettici non ancora colpita. Ognuno di questi soggetti, seguendo la teoria di Lerner, è giudicato meritevole del castigo della malattia.

Chi da tempo ha sviluppato un atteggiamento critico nei confronti della storia, può aver sperimentato in prima persona la difficoltà di conciliare la contraddizione tra i principi di onestà, rettitudine, rispetto delle leggi, costruzione del bene comune, comunità e il perseguire l’obiettivo di una sopravvivenza individualistica a discapito del prossimo. Contraddizioni che rispecchiano la difficoltà di cercare aspetti nascosti di una verità di ordine morale, filosofico e introspettivo, non basati sull’accettazione fideistica di informazioni, anche quando si presentano come “verità” scientifiche, da qualsiasi parte giungano, ma sulla verifica delle fonti, del proprio atteggiamento di fronte agli studi e alle ricerche scientifiche, alle notizie, alle ideologie, agli schieramenti.

Molti elementi concorrono a rendere il rapporto tra fatti e verità più complesso di quanto sia immaginabile. Innanzitutto: nell’attualità questa relazione si è arricchita di un ulteriore elemento poco maneggevole, alla verità dei fatti si è aggiunto il concetto di “verità” scientifica in cui le teorie, le sperimentazioni o i concetti di natura medico-scientifica, si fondano sui principi di non-contraddittorietà e falsificabilità sperimentale. L’impianto falsificazionista inoltre amplifica sempre più la distanza tra laboratorio e vita reale, misurata dal metro dell’impianto riduzionistico che persegue ciecamente una pretesa obiettività scientifica, tanto più esasperato quanto più sofisticata diventa la tecnologia e le “matematiche” utilizzate dalla ricerca. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia: “Il potere dell’uomo sulla natura e la distanza che egli riesce a frapporre tra sé e il mondo per dominarlo sono ciò che consentirà lo sviluppo delle scienze naturali: ma una volta posta la stessa distanza fra l’uomo che indaga e l’uomo indagato (fra il soggetto di conoscenza e l’oggetto di natura), il potere dell’uomo sulla natura si traduce nel potere dell’uomo sull’uomo” (Ongaro, 1982,. 156). Questa riflessione ci porta ad assumere una posizione critica rispetto al potere che la verità scientifica ha conferito ai tecnici della scienza, al meccanismo sociale e psicologico che permette loro di eleggere la propria voce come assoluta, per quanto teoricamente falsificabile, come anche a osservare le sinergie che traducono le loro traiettorie in meccanismi di potere sui sistemi sociali, sulle masse e sui singoli esseri umani.

La differenza tra i tempi di Ongaro Basaglia e quelli attuali risiede nel livello avanzato della specializzazione raggiunta dalla tecnologia della ricerca, che assolda un esercito di specialisti in ogni branca a difesa di interessi economici e politici, gli stessi che hanno determinato lo svuotamento rappresentativo della partecipazione popolare alla politica e alla sostanzialità del voto, che ha trasformato la democrazia rappresentativa in “democrazia televisiva”.

Conclusioni

La storia è piena di congiure, cospirazioni, o orditi segreti di chi il potere lo aveva e puntava a mantenerlo o espanderlo, e di chi il potere non lo aveva e desiderava ottenerlo. Agamben ci dimostra come la Storia sia stata da sempre contrassegnata da complotti: da Alcibiade, a Napoleone, fino a Mussolini. E, “come sempre nella storia, anche in questo caso vi sono uomini e organizzazioni che perseguono i loro obiettivi leciti o illeciti e cercano con ogni mezzo di realizzarli ed è importante che chi vuole comprendere quello che accade li conosca e ne tenga conto. Parlare, per questo, di un complotto non aggiunge nulla alla realtà dei fatti” (www.quodlibet.it).

Ripartendo dalle nostre prime affermazioni, in questo articolo si è discusso di concetti che nascono da parole “non-nostre”, parole dell’umana vulnerabilità, dell’umano resistere tenendosi stretti – poiché ci sarebbe un Noi da recuperare dietro tutto questo. Noi che ci aiutiamo a sopravvivere facendo ciò che limitatamente all’essere umano può essere fatto, senza calpestarci verso l’uscita mentre la stanza è in fiamme; parole costruite e vendute in sacchetti di plastica, infilate di soppiatto alla cassa del supermercato; parole da marketing politico ormai assonanti ed egosintoniche, ma non per questo umane. E se il linguaggio crea il mondo, dovremmo costruire nuove bilance per pesare il peso delle parole. Se il linguaggio crea il mondo, attenzione a quello che ascoltiamo e che diciamo.

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