Dallo stress lavorativo al mobbing: qual è la linea sottile che li unisce?

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Il presente articolo tratta il fenomeno dello stress in ambito lavorativo strettamente legato al fenomeno del mobbing. L’obiettivo di questo articolo è quello di analizzare come lo stress correlato all’attività lavorativa possa rappresentare un pericolo alla mente e al nostro corpo. Quando si parla di mobbing trattiamo un particolare stress psicosociale legato da effetti indesiderati sulla salute fisica e mentale.

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Introduzione

Lo stress può condizionare la nostra vita, ma può anche aiutarci nella stessa, perché rappresenta l’elemento essenziale che ci spinge a cercare una condizione di equilibrio. Lo stress in particolare quello circoscritto in ambito lavorativo verrà trattato in questo articolo da un punto di vista psicologico e sociale. Grazie ad approfondimenti di ricerche di autori famosi e articoli di riviste che constatano quanto un malessere del genere possa danneggiare il diretto interessato e coloro che si trovano attorno a lui. Verrà trattato in maniera specifica anche il mobbing come fenomeno sociale e come particolare stress psicosociale.

Lo stress e le sue caratteristiche

Prima di poter affrontare la tematica dello stress lavorativo (stress lavoro correlato) bisogna introdurre la parola “stress” all’interno di un quadro complessivo che illustri quest’ultima come un fenomeno adattivo nonché disadattivo con i suoi elementi e le varie tipologie che lo contraddistinguono. Nella sua etimologia, il termine stress, richiama sia l’azione di sottoporre qualcuno a qualcosa oppure l’esito finale della pressione stessa. Nonostante ciò, si usano vari termini come “stressors” per indicare un processo che chiama in causa diversi eventi o fattori di richiesta; “strain” per categorizzare le reazioni fisiologiche, comportamentali e psicologiche adottate dalla persona; “coping strategies” per indicare un insieme di sforzi e strategie adottate dalla persona e gli “stress outcomes” che sono le conseguenze dello strain sia organizzativo che sociale (Sarchielli, Fraccaroli, 2010). Ciò nonostante, in seguito alle ricerche di Selye con il termine stress si intende la risposta aspecifica con la quale la persona si adatta ai vari tipi di cambiamento o reagisce a un ambiente troppo affaticante per le sue risorse (Farnè, 2001). Bisogna precisare che gli studi sul fenomeno stressogeno iniziarono con la psicofisiologia di Cannon (1914), il quale elaborò il concetto di reazione di allarme in biologia che si verifica quando un soggetto affronta un pericolo esterno. Il termine stress che fu acquisito dalla psicologia ha percorso diversi orientamenti (Ege, Lancioni, 1998):

– lo stress come risposta; concepito come la risposta di adattamento allo stimolo esterno.

– lo stress come interazione; si riferisce alla situazione stressante e alla personalità del soggetto che l’affronta.

– lo stress come stimolo; concepito come lo studio della risposta alla situazione percepita come minacciosa.

La prima distinzione tra eustress e distress, fu data da Selye che evidenziò come il primo concetto sia relativo ad una condizione benefica, mentre nel secondo caso si riferisce ad un’angoscia ansiogena. Tuttavia, dipende molto dall’interpretazione che il soggetto dà alle emozioni, che possono essere intese sia come negative o positive (Sarchielli, Fraccaroli, 2010). Lo “stress buono” (eustress) indica un’alterazione non patologica dell’omeostasi individuale che svolge una funzione adattiva, utile nello spingere l’individuo a far fronte agli ostacoli utilizzando le proprie risorse. Mentre, “lo stress cattivo” (distress) viene indicato come un turbamento patologico dell’omeostasi individuale oppure un modo sbagliato di affrontare lo stress, e può avere conseguenze dannose per l’individuo causando l’insorgenza di malattie (De Filippo, 2009). Gli effetti negativi o positivi possono dipendere dal rapporto di due fattori: la gravità dell’evento stressante e dal modo con cui la persona può affrontare lo stress. Se questo rapporto risulta sproporzionato può diventare dannoso (Wilkinson, 1999). Infatti quando si è sottoposti a un livello eccessivo di stress, non solo l’organismo subisce un attacco dall’interno, ma diminuiscono anche le sue capacità di difesa dal mondo esterno. La mente e il corpo di una persona diventano maggiormente vulnerabili (Lewis, 1996).

Effetti sull’individuo

Essere soggetti a rapidi e a innumerevoli cambiamenti può risultare un’importante causa di stress, più sono rapidi tali eventi e maggiore sarà anche la probabilità di accusare sintomi di stress a livello emotivo o fisico. Per valutare l’evento stressante , è necessario tener conto alcuni fattori che ne amplificano la portata come, l’imprevedibilità, l’intensità, la gravità, l’inevitabilità, la desuetudine e la ineluttabilità. Tuttavia, è importante nella valutazione dell’evento stressogeno anche l’età è molto importante (Wilkinson, 1999). Tra gli effetti sull’individuo evidenziamo quelle che sono le reazioni emotive, come gli aumenti della tensione, l’irritabilità e il malumore. Anche la capacità di affrontare semplici problemi può subire variazioni, queste ultime possono variare anche per il cibo (Wilkinson, 1999). Anche le reazioni d’ansia insorgono frequentemente soprattutto quando il soggetto si rende conto di non essere più all’altezza di affrontare alcune responsabilità e incorre in errori, ritardi o dimenticanze significative. Tutti questi sintomi sono transitori quando la situazione si mantiene a livelli minimali, ma possono strutturarsi in sintomi quando il livello di stress e la sua durata non ne consentono il recupero (Cassitto, 2005). Le più comuni reazioni emotive del soggetto sono: paura costante; incapacità di prendere decisioni; tensione e nervosismo; maggiore predisposizione al pianto; paura di sbagliare; frustrazione e aggressività; avere pensieri negativi per il fatto di non sentirsi bene; sensazione di vuoto mentale; sensazione di trovarsi sotto pressione; istinto di fuggire; aumento dell’irritabilità; sentirsi inutile di fronte alla situazione e agitazione e difficoltà di concentrazione (Ege, Lancioni, 1998). In sintesi, è noto che in situazioni di stress sia negativo che positivo, l’individuo reagisce come un tutto modificando sia la tonalità dell’umore, sia il comportamento e il sistema neurovegetativo. Tuttavia, la risposta allo stress non coinvolge sempre questi aspetti contemporaneamente, questo dipende molto dal soggetto e dalla loro modalità di funzionamento (Cassitto, 2005). Oltre alle reazioni emotive, le reazioni fisiologiche possono colpire l’organismo, infatti sotto stress aumenta la produzione di ormoni come l’adrenalina, il cortisone e la noradrenalina con ripercussioni sul battito cardiaco, sulla pressione arteriosa ed il metabolismo. Con il passare del tempo, il cortisone si accumula nel corpo, indebolendo le difese dell’individuo rendendolo meno preparato di fronte le malattie, contemporaneamente viene rilasciata dall’organismo anche una quantità di endorfina, che provoca nel soggetto una sensazione di rilassamento, e con il passare del tempo può provocare effetti secondari, come l’indolenzimento articolare (Ege, Lancioni, 1998). Quando nell’organismo si scatena una reazione fisica, il polso e la pressione arteriosa aumentano. Le reazioni fisiologiche più comuni della risposta da stress sono una varietà di sensazioni spiacevoli, come la tensione muscolare; il battito cardiaco rapido; bruciori di stomaco; sudorazione; debolezza negli arti; mal di schiena; difficoltà di digestione. Queste sono solo alcune manifestazioni patologiche associate ad eventi di vita stressanti (Wilkinson, 1999). Lo stress provoca anche una riduzione di globuli bianchi facilitando la comparsa di altri disturbi, soprattuto in area cardiaca e gastrica. Lo stomaco, infatti, riduce la sua attività durante situazioni stressogene. A stomaco pieno e durante stress fisici di forte rilievo si potrebbe verificare un blocco digestivo, mentre a stomaco vuoto si verificano forti contrazioni con un senso di secchezza alla bocca. Il cuore è un organo che risente molto dedli stimoli stressogeni, l’adrenalina ne aumenta la frequenza raggiungendo 140-230 battiti al minuto facendo sì che la pressioni si alzi, creando condizioni di svantaggio per l’organismo. In questo periodo il cuore si indebolisce gravemente e l’aumento della pressione arteriosa contribuisce ai quei disturbi noti come l’infarto e l’arteriosclerosi (Ege, Lancioni,1998). Lo stress come già detto precedentemente può portare a problemi del sonno, alla cosiddetta “insonnia primaria” che si caratterizza da una latenza di addormentamento molto lunga (superiore ai 30 minuti), infatti la persona fa fatica sia ad addormentarsi che a mantenere il sonno. Durante le poche volte in cui la persona riesce ad addormentarsi di nuovo e si risveglia subito dopo, riferisce, che di sentirsi affaticata e accusa stanchezza (Sanavio, Cornoldi, 2005). Molto frequenti nelle persone affette da stress sono le reazioni comportamentali, ci sono alcune persone che preferiscono estraniarsi e rimanere in solitudine, altri, invece, preferiscono trovare aiuto negli amici o familiari. Un soggetto stressato sente il bisogno di continue rassicurazioni, cade in preda ad incertezze, cambia spesso umore e piange senza un motivo. Anche la sfera intima può subire delle modifiche, ad esempio. non si prova più interesse per l’altro sesso oppure s’intrattengono relazioni casuali. Le persone sotto stress negano di aver cambiato il proprio comportamento, cosa che invece risulta evidente ai loro conoscenti e ai loro familiari. A volte utilizzano dei falsi rimedi che possono dare dei sollievi temporanei, ma spesso possono risultare invani. Può capitare che queste persone adottino altri comportamenti che possono essere considerati nocivi per la persona stessa, come bere alcool in maniera eccessiva oppure fumare. Anche la sfera alimentare è alterata dalla normale regolazione dell’appetito che viene azzerata oppure sostituita da reazioni impulsive in cui il soggetto, ad esempio, si alza di notte per mangiare in maniera da colmare il senso di vuoto e angoscia che impedisce il sonno (Cassitto, 2005). In questa sfera rientrano le somatizzazioni di secondo tipo relative al comportamento e al linguaggio non verbale, come l’anoressia e la bulimia; grattarsi senza aver prurito; mangiare le unghie, sistemarsi continuamente i capelli; muovere ritmicamente le dita e sfregare spesso il naso (Ege, Lancioni, 1998).

I principali modelli del processo stressogeno

Sono stati elaborati vari modelli teorici che hanno cercato di comprendere le variabili che intervengono in un’esperienza stressante e il modo in cui tali variabili sono tra loro connesse. Vediamo ora uno per uno alcune delle varie teorie che hanno contribuito al tema dello stress:

  • I primi studi iniziali sono quelli di W. Cannon che circoscrive lo stress secondo un approccio medico, di tipo bio-psicosociale. Lo stress viene studiato da un punto di vista fisiologico. Secondo Cannon (1936) non appena viene ricevuto un segnale di pericolo, l’individuo mette in atto una risposta di fuga o attacco (fight or flight), cessata la minaccia, ritorna in uno stato di omeostasi (Compare, Grossi, 2012).

  • Le prime ricerche furono di Hans Selye (1936), che durante i suoi esperimenti sugli animali scoprì che una varietà di stimoli ambientali nocivi (stressors), come l’esposizione ad alte temperature, lesioni fisiche, produceva lo stesso tipo di reazioni somatiche nell’organismo, come ulcere nello stomaco e nell’intestino (Fraccaroli, Balducci, 2011). Lo stress da Selye (1946) viene concettualizzato come una parte di una sindrome generale di adattamento (General Adaption Syndrome –GAS), fenomeno composto dalla reazione di allarme, dalla resistenza e dall’esaurimento finale, che descrive le fasi attraverso cui passa l’organismo nel tentativo di far fronte alla minaccia esterna (Rossati, Magro, 1999). Vediamo qui di seguito le varie fasi e le loro caratteristiche:

  1. La prima fase detta di allarme, provoca all’organismo uno stato di allerta con conseguente attivazione di processi psicofisiologici, come il battito cardiaco. Questa fase è sostenuta da attivazioni neurovegetativo, di tipo adrenergico, in cui le secrezioni di adrenalina e noradrenalina permette una reazione del sistema nervoso autonomo. La conduzione nervosa viene facilitata da questi due ormoni, i quali permettono la rapidità di risposta dell’organismo all’ambiente. È grazie al midollo surrenale che immette tali ormoni in circolo nel flusso sanguigno, comporta l’immediata risposta del nostro organismo ad uno stimolo stressorio. In questa fase si distinguono due momenti opposti chiamati rispettivamente shock e contro shock, in cui una iniziale caduta al di sotto del livello fisiologico di funzionamento dell’organismo, corrisponde un secondo momento reattivo, contro shock (Favretto, 1994).

  2. La fase successiva è chiamata resistenza che vede l’organismo tentare di adattarsi alla situazione. Questa condizione ha un andamento di maggiore durata in quanto gli ormoni vengono sostenuti da fenomeni endocrini. Un’accentuazione della sindrome generale di adattamento può indurre le potenzialità di risposta dell’individuo attivando in questo modo la terza e ultima fase (Favretto, 1994).

  3. La terza fase, quella di esaurimento, l’individuo non riesce più a difendersi e di conseguenza viene a mancare la sua naturale fase di adattamento. La fase di esaurimento può portare i valori di un individuo al di sotto della norma fino alla vera e propria morte (Favretto, 1994). In ogni caso, la reazione di stress è una reazione fisiologicamente utile in quanto adattiva, ma può diventare patogena se lo stressor agisce con particolare intensità e per periodi protratti (Pancheri, 1980).

  • Anche Lazarus e Folkman contribuirono al concetto di stress psicosociale. Ad introdurre il concetto di coping e di valutazione cognitiva spostando il focus alla relazione ambiente –individuo fu Lazarus, il quale enfatizzò anche le relazioni affettive nella risposta di stress. Infatti, secondo lo studioso in corrispondenza di uno stimolo ambientale si verificano dei processi psicologici che associano lo stimolo ad un significato personale. In sintesi, la mente umana effettua un costante controllo dell’ambiente circostante che comprende, oltre la percezione degli stimoli attraverso i processi sensoriali, anche una loro valutazione cognitiva. Quest’ultima si suddivide in due tipi, la prima riguarda la minacciosità dello stimolo ambientale (valutazione primaria), se lo stimolo non viene considerato pericoloso, il processo valutativo si ferma e non si verifica nessun tipo di risposta. Al contrario, se lo stimolo verrà considerato pericoloso il processo seguirà in quella che viene denominata valutazione secondaria. Nel momento in cui quest’ultima avrà esito negativo o incerto, si attiva allora la risposta di allarme e le reazioni psicofisiche relative. La valutazione cognitiva viene effettuata attraverso i valori propri della persona e di come quest’ultima percepisce sé e il mondo a cui appartiene. Tuttavia, non tutti gli individui rispondono allo stesso modo al medesimo stimolo ambientale, è per questo motivo che si dà ampio spazio alle differenze individuali. Il modello transazionale di Lazarus e Folkman (1984) che definiscono lo stress come una condizione data da un’interazione (transazione) in quanto una persona è un agente attivo in grado d’influenzare gli eventi mediante strategie cognitive, emotive e comportamentali. Questa teoria ha un duplice effetto sia sul effetto che ha sul benessere della persona che sulla valutazione dell’evento (Fraccaroli, Balducci, 2011). È in questa teoria che compare per la prima volta il concetto di stress psicologico e vengono distinte le strategie di “coping emotion-focused”, che riguardano la regolazione della risposta emotiva e le strategie di “coping problem-focus” centrate sul problema (Compare, Grossi, 2012). La prima forma di coping riguarda i tentativi fatti da attività cognitive, le quali mirano a regolare le relazioni affettive quali l’ansia e la tensione alla risposta da stress. Il coping focalizzato sul problema, riguarda il modo per gestire la minaccia e le azioni per cercare di ridimensionarla (Fraccaroli, Balducci, 2011). In sintesi il modello dei due autori prevede una serie di fasi che sintetizzeremo n questo modo (Toneguzzi, 2006):

  1. Una valutazione primaria: il soggetto valuta lo stressor, il suo senso e il grado di pericolosità;

  2. Una valutazione secondaria: il soggetto valuta come e quanto può fare fronte allo stressor;

  3. Coping: il soggetto agisce per fronteggiare lo stressor;

  4. Rivalutazione: il soggetto valuta gli effetti della sua risposta allo stressor.

  • La teoria che chiarificò, invece, il ruolo sull’attivazione emozionale fu Jason Mason (1975) che attraverso una serie di ricerche sulle scimmie e successivamente sull’uomo, egli dimostrò come la produzione di ormoni da parte della ghiandola surrenale a seguito della stimolazione dell’ipofisi, fosse non solo dall’ esposizione dell’evento stressante, ma fosse innescato dalla reazione emozionale indotta dagli stimoli stessi. La sequenza è quindi la seguente: stimolo – reazione emozionale – produzione ormonale. Infine, Mason dimostrò come a livello fisiologico lo stress è una risposta multi-ormonale che permettono un miglior adattamento dell’organismo in condizioni particolari (Pancheri, 1980). In questa prospettiva, sia l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene che l’attivazione della midollare del surrene che seguono all’esposizione a stimoli fisici di varia natura sarebbero una diretta conseguenza dell’eccitamento emozionale che accompagna o precede immediatamente la stimolazione fisica (Toneguzzi, 2006).

Un particolare tipo di stress: lo stress lavoro correlato

Lo stress lavoro correlato è una particolare tipologia di stress che alcuni lavoratori possono subire durante il loro consueto orario lavorativo riportando delle conseguenze anche al di fuori della sfera prettamente professionale.

L’Accordo Europeo sullo stress dell’8 ottobre del 2004 afferma che “Potenzialmente lo stress può riguardare ogni luogo di lavoro ed ogni lavoratore, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda, dal settore di attività o dalla tipologia del contratto o del rapporto di lavoro. Ciò non significa che tutti i luoghi di lavoro e tutti i lavoratori ne sono necessariamente interessati” (Gottardi, 2008, 20-21).

L’obiettivo dell’accordo è quello di offrire ai datori di lavoro e ai lavoratori stessi un quadro di riferimento per gestire e prevenire eventuali problemi di stress lavoro correlato, non è invece quello di attribuire le responsabilità all’individuo. Nell’accordo, lo stress viene considerato come: “una condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro” (Deitinger et al., 2009). La finalità dell’accordo è quello di far accrescere la consapevolezza e la comprensione dello stress lavoro correlato da parte dei lavoratori, dei datori di lavoro e dei rappresentanti (Gottardi, 2008).

Lo stress lavorativo può nuocere a chiunque e a qualsiasi inquadramento professionale in ogni settore e in qualsiasi dimensione di un’organizzazione, incide non solo sul benessere dell’individuo, ma rappresenta una minaccia per la stessa azienda. Lo stress rappresenta un “killer emergente” difficile da identificare e gestire, correlato alle mutazioni del mondo del lavoro e alla crescente globalizzazione (Pellegrino, 2009). Una definizione di stress sul lavoro è quella del NIOSH (1999) che definisce il fenomeno come insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono adeguate alle esigenze del lavoratore (De Falco et al., 2008). Lo stress lavorativo si presenta in una dimensione trasversale che coinvolge tutte le professioni e tutti i livelli professionali. Nell’Unione Europea lo stress è al secondo posto tra i problemi di salute connessi all’impiego lavorativo ed interessa il 28% dei lavoratori. Secondo i dati ufficiali dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, il costo finanziario dei problemi correlati allo stress lavorativo ammonta a circa 20 miliardi di euro l’anno. Questi dati dimostrano che il 50%-60% dei giorni lavorativi persi sono collegati allo stress (Pellegrino, 2005). Inoltre lo stress lavorativo oltre s ridurre la qualità della vita dell’individuo peggiora anche la sua efficacia professionale; infatti in questo caso l’individuo stressato può commettere maggiori errori professionali, è più vulnerabile allo sviluppo delle patologie somatiche e così via (Pellegrino, 2009).

Sono stati emessi vari decreti legislativi, inerenti in particolare alla valutazione del rischio da stress lavoro correlato. Tra le novità introdotte dal decreto legislativo 81/2008 un ruolo in primo piano assume la definizione, mutuata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, del concetto di “salute” intesa quale “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in assenza di malattia o d’infermità” che rappresenta la premessa per la garanzia di una tutela dei lavoratori anche attraverso un’adeguata valutazione del rischio stress lavoro correlato. Anche in tale decreto viene ribadito l’importanza rivestita dalla formazione che deve essere sufficientemente adeguata. Oltre a ciò, di fondamentale importanza è la valutazione dei rischi, elemento centrale per un’adeguata attività di prevenzione (Deitinger et al., 2009). Di seguito riportiamo i vari fattori di rischio per la sicurezza e la salute dei lavorator:

  • I fattori di rischio psicosociale

Da alcuni anni in Europa, gli studi relativi alle problematiche connesse alla salute e sicurezza dei lavoratori che tradizionalmente ponevano l’attenzione sulla salute fisica dell’individuo, hanno ampliato il loro interesse verso le dimensioni psicologiche, sottolineando come la centralità della persona sia uno dei presupposti necessari per il benessere non solo dell’individuo, ma anche dell’organizzazione (Nardella et al., 2007). Entrando nello specifico andiamo a vedere quali sono i vari rischi psicosociali e cosa intendiamo con quest’ultimi. In generale vi è la tendenza di differenziare tra quelli di tipo tradizionale, ossia rischio fisico, biologico o chimico, e i nuovi rischi, ossia quelli psicosociali. Quest’ultimi vengono definiti come quegli aspetti di progettazione del lavoro, di organizzazione e di gestione del lavoro, nonché i rispettivi contesti ambientali e sociali, che potenzialmente possono arrecare danni fisici o psicologici. La caratteristica principale dei rischi psicosociali è la loro trasversalità, infatti possiamo trovarli in ogni settore lavorativo. Ci sono molti rischi relativi alla natura e alle caratteristiche del lavoro e possono emergere varie problematiche sia in condizioni di sovraccarico o sotto carico di lavoro. In particolar modo questi rischi rientrano nella categoria del contenuto del lavoro (Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002). Ovviamente non riusciremo a trattare tutti i tipi di rischi psicosociali, ma ne evidenzieremo solo alcuni per dare una panoramica generale di ciò che stiamo trattando. Riallacciandoci in particolar modo alle caratteristiche del contenuto del lavoro analizziamo il sovraccarico e il sotto carico lavorativo. Nel primo caso si tratta di un sovradimensionamento del carico lavorativo rispetto alle competenze possedute, ad esempio non si riesce a svolgere a sufficienza a tutti i compiti. Anche in situazioni di sotto carico di lavoro possono avere effetti negativi sulla salute, come ad esempio l’assenza di richieste esterne (Fraccaroli, Balducci, 2011). I lavoratori che denunciavano livelli elevati di stress e malattie ad esse correlate avevano una probabilità 4,5 maggiore di denunciare problemi quali “lavorare in base a scadenze” e “avere troppo lavoro.” I dirigenti spesso fanno fronte al carico eccessivo di lavoro estendendo il proprio orario lavorativo ad orari di lavoro lunghi, se protratti nel tempo possono risultare dannosi. Infatti, si è dimostrato un aumento della fatica provocato da lavori con orari lunghi, come ad esempio prolungare la giornata lavorativa a 12 ore con una notevole perdita di sonno (Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Altri aspetti sono causati dall’orario di lavoro a turni, in particolare quello comprendente le turnazioni notturne (Fraccaroli, Balducci, 2011).

Infatti, è proprio questo che condiziona il numero di ore lavorate. Livelli molto elevati di soddisfazione per l’equilibrio tra lavoro e vita privata è segnalato da coloro che lavorano meno di 30 ore alla settimana (Piron, 2014).

Le turnazioni notturne, hanno effetti sui ritmi circadiani del sonno. In uno studio condotto da Kobayashi et al. (1999) sugli infermieri del turno di notte, hanno riscontrato bassi livelli di attività di cellule killer e di cortisolo durante il turno di notte, stabilendo quindi che il turno di notte fosse in particolar modo stressante e potesse essere dannoso per la biodifesa. Altri fattori che possono incidere il benessere dei lavoratori sono la rigidità intesa come mancanza di flessibilità, come il turno di lavoro e l’imprevedibilità dell’orario di lavoro, ad esempio il lavoro a chiamata (Kobayashi et al., cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011).

Sono presenti anche rischi psicosociali inerenti al “contesto di lavoro.” Il fatto stesso di lavorare nell’ambito di un’organizzazione, può essere avvertito come una minaccia. Gli studi condotti sulle percezioni e sulle descrizioni dei lavoratori dipendenti in merito alle loro organizzazioni indicano la presenza di tre diversi ambiti di cultura e funzione organizzativa: l’organizzazione come ambiente di mansioni, di soluzione dei problemi e di sviluppo. Le prove raccolte indicano che nei casi in cui si ritiene che l’organizzazione sia carente in relazione a questi ambienti, allora è probabile che venga associata ad aumentati livelli di stress (Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Anche il ruolo nell’organizzazione viene visto come un rischio psicosociale che può ricollegarsi al conflitto o all’ambiguità di ruolo. Quest’ultimo è quando un lavoratore non dispone di informazioni sufficienti in relazione al proprio ruolo di lavoro. L’ambiguità di ruolo si manifesta attraverso uno stato generale di confusione in relazione agli obiettivi adeguati, una mancanza di chiarezza in ordine alle aspettative ed uno stato generale di incertezza sull’ambito e sulle responsabilità di impiego.

Kahn et al. (1964) hanno rilevato che i lavoratori che avevano sofferto di ambiguità di ruolo avevano più probabilità di provare una minore soddisfazione nei confronti del lavoro, un livello maggiore di tensione e un basso livello di autostima (Kahn et al., cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Secondo French & Caplan (1970) l’ambiguità di ruolo era da ricollegare a sintomi simili. Hanno dimostrato che l’ambiguità di ruolo era connessa ad un aumento della pressione sanguigna e a frequenze del polso più elevate. Mentre il conflitto di ruolo, avviene quando all’individuo viene richiesto di svolgere un ruolo in conflitto con i propri valori, oppure quando i vari ruoli svolti sono incompatibili tra loro. Per French e Caplan (1970) la frequenza media del battito cardiaco era strettamente connessa al livello di conflitto di ruolo percepito. Tuttavia, sono stati individuati altri aspetti potenzialmente pericolosi come il sovraccarico di ruolo, l’insufficienza di ruolo e la responsabilità verso gli altri. Ad esempio, l’insufficienza di ruolo si riferisce all’incapacità da parte dell’organizzazione di utilizzare appieno le capacità e la formazione acquisita dai singoli lavoratori (French, Caplan cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro,2002)

La responsabilità per altre persone è stata identificata come fonte potenziale di stress associata alle questioni di ruolo. Wardell et al. (1964) hanno dimostrato che la responsabilità di altre persone rispetto alla responsabilità per cose, ha una probabilità di determinare rischi di cardiopatie coronariche decisamente maggior (Wardell et al., cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

French e Caplan (1970) hanno evidenziato che la responsabilità per altre persone era connessa al fumo eccessivo e ad un aumento della pressione sanguigna diastolica e dei livelli di colesterolo nel sangue. Interessante sono state alcune ricerche condotte da French e Caplan (1970) che evidenziano come maggiori opportunità di partecipare al processo decisionale produca livelli di soddisfazione e sentimenti di autostima più elevati (French, Caplan cit. Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Secondo autori come Margolis e Kroes (1974) la mancata partecipazione risulta essere legata allo stress correlato al lavoro e a cattive condizioni di salute fisica (Margolis, Kroes cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Anche i buoni rapporti tra lavoratori e componenti dei gruppi di lavoro (Cooper 1981) sono fondamentali per la salute individuale e dell’organizzazione (Cooper cit. Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Un’indagine realizzata dal Ministero del Lavoro giapponese (1987) ha evidenziato che il 52% delle donne intervistate aveva provato ansia o stress, a causa di rapporti interpersonali insoddisfacenti sul lavoro (61%) (Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Karasek e colleghi (1982) in uno studio condotto su oltre 1.000 lavoratori svedesi, hanno dimostrato che l’appoggio offerto dai superiori e dai colleghi attenuava gli effetti esercitati dalle richieste di lavoro sulla depressione e accresceva la soddisfazione per il proprio impiego. Anche la mancanza di una progressione di carriera secondo le proprie previsioni potrebbe essere fonte di stress, in special modo in quelle organizzazioni che attribuiscono una grande importanza al rapporto tra progressione di carriera e competenza o valore. (Karasek et al., cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Marshall (1977) ha individuato due gruppi principali che possono arrecare stress: la mancanza di sicurezza del lavoro e l’obsolescenza (paura di esubero e di pensionamento anticipato forzato); secondo l’incongruenza di posizione (promozione insufficiente o frustrazione per aver raggiunto il limite massimo di carriera) (Marshall cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Roberston e Cooper (1983) sono dell’idea che queste paure possano produrre stress nel caso in cui i lavoratori non siano in grado di adattare le proprie aspettative alla realtà della situazione in cui si trovano (Roberston, Cooper cit. in Agenzia per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, 2002).

Queste sono solo alcune delle dimensioni fondamentali dei rischi psicosociali che sono alla base della percezione che una persona ha del livello di stress che le situazioni di lavoro comportano.

  • I fattori di rischio individuali e ambientali

Oltre ai rischi psicosociali svolgono un ruolo principale anche i fattori individuali, che si suddividono in caratteristiche demografiche e caratteristiche disposizionali. Nelle prime ricordiamo l’età, il genere e le caratteristiche etniche culturali. In alcune ricerche condotte nelle comunità hanno evidenziato differenze di genere sostanziali per alcuni esiti emotivi, come ansia e depressione (American Psychiatric Association cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011). Il genere ha un ruolo determinante nel caratterizzare gli aspetti fisici del corpo, la struttura del cervello, le tendenze comportamentali, nonché la sensibilità e la reazioni agli stati di malattia (Piron, 2014). I dati epidemiologici suggeriscono che le donne vivono più a lungo, ma in peggiori condizioni di salute. La categoria più a rischio di incorrere in patologie legate allo stress pare essere quella delle donne lavoratrici sulle quali grava anche la maggior parte del lavoro domestico (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro cit. in Piron, 2014). È stato documentato che le malattie lavoro-correlato sono diverse tra uomini e donne, questo è dovuto soprattutto alle differenze del lavoro dei due generi. I problemi prevalenti tra lavoratori maschi sono gli infortuni, i danni uditivi da rumore, i tumori professionali, le sindromi osteoarticolari da lavoro muscolare pesante. Tra le donne, invece, sono più comuni le sindromi osteoarticolari da lavoro ripetitivo (ad esempio, tunnel carpale), malattie della cute oppure malattie infettive. Per il genere femminile, lo stress è spesso doppio, perché a quello da lavoro si aggiunge, come detto in precedenza la cura familiare. Secondo i dati Istat chiamati le statistiche di Genere (2007), mentre i lavoratori maschi dedicano in media 2 ore al giorno per assistere ai familiari, le donne ne dedicano 5 e mezza (Figà, Talamanca cit. in Inail, 2009).

A livello europeo, durante il corso degli anni vi è stata una crescente attenzione alla relazione tra età e condizioni di salute e sicurezza lavorativa, questa attenzione è stata diretta in particolare ai giovani lavoratori e a quelli anziani. I primi risultano maggiormente esposti ai lavori a turni, a un orario di lavoro irregolare e maggiormente esposti a fattori di rischio di tipo fisico, come le vibrazioni, rumore, temperature estreme o lavoro in posizioni scomode. Le persone più anziane, invece tendono soprattutto dopo i 45 anni un calo piuttosto marcato ai turni, inoltre dopo i 55 anni i lavoratori più anziani, riportano meno spesso di accedere a iniziative formative, di avere la possibilità

di imparare nuove cose (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul lavoro cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011, 55).

È il range dei 40–50 anni, che presenta le condizioni peggiori, praticamente i lavoratori di mezza età sono quelli che hanno indicatori di stress molto elevati, rispetto ai giovani e ai più anziani (Warr cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011, 55).

Anche le caratteristiche etniche e culturali incidono sulla forza lavoro e sullo stress lavoro correlato, in una recente rassegna in cui sono stati condotti studi in vari paesi europei (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011, 56).

Anche l’Italia, suggerisce che i lavoratori immigrati sono esposti a condizioni di lavoro più sfavorevoli rispetto agli italiani; effettuano più spesso lavori a turni, svolgono compiti monotoni e fisicamente più impegnativi, l’orario è più lungo e la remunerazione è la più bassa. Inoltre, le relazioni sono peggiori, con un rischio elevato di riportare mobbing e discriminazione. Altro fattore importante da considerare, è che la maggior parte delle conoscenze sui fattori di rischio per lo stress, è derivata da indagini condotte su lavoratori che si trovano all’interno di una cultura occidentale, quindi non è chiaro se gli stessi fattori siano salienti per i lavoratori di altre culture (Warr cit. in Fraccaroli, Balducci, 2011, 58).

Gli stressor extra organizzativi si sforzano di mettere in evidenza le interazioni tra i vari tipi di stressor allo scopo di riconoscere le loro numerose combinazioni, tra queste rientrano i fattori ambientali sia fisici che sociali. La semplice esposizione a tali stimoli ambientali non determina necessariamente reazioni negative di stress. Fra gli stimoli ambientali più spesso considerati, ricordiamo il rumore. Esso, oltre a procurare eventuali danni uditivi, può determinare numerosi effetti extra uditivi, influenzando negativamente la prestazione, agendo sul livello di attivazione psicofisiologica sui processi cognitivi e attivando reazioni negative sul piano emozionale e comportamentale. Tutto ciò dipende dall’ampiezza dello stimolo rumoroso ma anche dalla modalità di comparsa. Nei rischi psicosociali ambientali rientrano anche la densità soggettiva (numero di persone per unità di spazio) e l’esperienza soggettiva di affollamento risultano associate a effetti di stress. Si considerano stressor ambientali anche la temperatura (caldo, freddo, umidità), numerosi agenti tossici o inquinanti di natura chimica. Interessante aggiungere la qualità dell’ambiente fisico e sociale, considerate fonti di tensione, che si accumulano nel tempo, dovute alla presenza della propria comunità di evidenti segnali di degrado urbano e sociale. Recentemente l’attenzione si è focalizzata sui tipi di “life events”, come ad esempio la separazione di una persona cara, un lutto o un divorzio. Uno specifico interesse è stato posto sui grandi eventi della vita, come un grave evento di perdita, come un lutto, che assume una connotazione stressante in maniera diretta e indiretta, stimolando sentimenti di ansia, depressione, sensi di colpa oppure aggressività. Tra i grandi eventi critici potrebbe essere inserita anche la disoccupazione, soprattutto quando si presenta in maniera imprevista e improvvisa. (Sarchielli, Fraccaroli, 2010).

Per quanto riguarda i fattori disposizionali, sono i cosiddetti fattori di vulnerabilità individuale, i quali si caratterizzano in comportamento di tipo A, il quale è stato descritto per la prima volta da due cardiologici sulla base di osservazioni condotte su una serie di pazienti coronarici, verso la fine degli anni ’50. I due medici definirono tale caratteristica come un insieme di comportamenti e stati affettivi, osservabili in quelle persone impegnate a raggiungere sempre nuovi obiettivi nel minor tempo possibile. Il comportamento di tipo A ha le seguenti caratteristiche: impazienza, competitività, aggressività oppure rabbia. Al polo opposto del comportamento di tipo A si colloca invece il comportamento di tipo B, caratteristico di quelle persone che affrontano la vita e gli impegni in maniera più rilassata. Tale comportamento ha diverse caratteristiche, le quali sono associate con esiti desiderati dalle organizzazioni, quali ad esempio il lavorare più a lungo, d’altra parte le stesse caratteristiche possono avere anche carattere egoistico o incapacità di ascoltare gli altri (Friedman, Ulmer, 1984). Altre due caratteristiche che presentano una sovrapposizione con il comportamento di tipo A sono l’overcommitment (iper coinvolgimento da lavoro) e il workaholism (la dipendenza da lavoro). Il primo fa parte di uno specifico modello dello stress quello dello squilibrio tra sforzo e ricompensa (reward). Siegrist (1996) parla di un individuo che fornisce una prestazione lavorativa che richiede un certo sforzo individuale (dispendio di energie psicofisiche, ecc) in cambio di soddisfazione. Quest’ultima si articola in tre tipi: 1) il denaro; 2) la stima personale; 3) le opportunità di avanzamento e carriera. Secondo lo studioso i lavoratori esposti a condizioni di squilibrio tra sforzo e ricompensa potrebbero cercare di modificare a loro favore la situazione, ad esempio riducendo lo sforzo oppure battendosi per una maggiore ricompensa. Secondo l’autore nessuna di queste opzioni può essere scelta, e così portano il lavoratore ad uno stress cronico notevolmente deleterio per la salute. La prima circostanza difficile per le persone in grado di modificare il loro squilibrio è la dipendenza (in questa circostanza le persone accettano condizioni di lavoro spiacevoli, pur di non lasciare il loro lavoro), altra circostanza in cui si verifica squilibrio tra sforzo e ricompensa è quella della scelta strategica, in questo caso i lavoratori scelgono condizioni svantaggiose per un certo periodo di tempo, in quanto mirano ad incrementare le loro opportunità di carriera. L’ultima circostanza in cui si verifica questo squilibrio è l’iper coinvolgimento. Vi sono delle ragioni individuali alla base dello squilibrio riconducibili a un pattern cognitivo motivazionale particolare, come il bisogno di controllo e di approvazione dagli altri. Il workaholism, invece, può essere definito come una spinta interna irresistibile a lavorare in maniera eccessivamente intensa. Tale fenomeno è considerato come una dipendenza patologica, pur non essendo presente nei manuali diagnostici. Una delle due componenti del workaholism è il lavorare eccessivamente, costituita da condotte quali continuare sistematicamente a lavorare dopo che i colleghi hanno smesso, essere sempre di fretta. Mentre il lavorare compulsivamente è l’altra componente, quella cognitiva-emotiva; essa è fatta da cognizioni e sentimenti quali ritenere di essere obbligato a lavorare intensamente. Tutto questo può condurre a problematiche psicosomatiche e la vita familiare di queste persone ne risente in maniera negativa, così anche la vita sociale (Sigriest, cit in. Fraccaroli, Balducci, 2011, 61-62).

I principali modelli di studio

Ora cerchiamo assieme di delineare i modelli principali che trattano il rischio psicosociale all’interno di un’ottica stressogena. Tra questi ricordiamo:

  • Il modello transazionale di Cox e Mackay (1976) poggia sull’idea che lo stress si sviluppi da un particolare tipo di relazione complessa e dinamica tra il lavoratore ed il suo ambiente. Per questi due studiosi, lo stress è un fenomeno percettivo individuale presente nei processi psicologici e considerano con attenzione anche i feedback del sistema. Nel sistema convivono diversi elementi: 1) le domande rivolte alla persona da parte del suo ambiente; 2) le reali capacità e abilità possedute dal soggetto; 3) la capacità percepita dalla persona nei confronti delle sue capacità (Gabassi, 2006). Cox assieme a Mackay abbraccia molte idee di Lazaus (1966) che fu uno dei primi studiosi ad enfatizzare il fenomeno dello stress. Secondo quest’ultimo infatti, lo stress si verifica quando ci sono richieste sulla persona che mettono alla prova o superano le sue risorse di adattamento. Lo studioso mette l’accento sul fatto che lo stress non si trovi solo nell’ambiente o dalle condizioni esterne, ma anche dalla vulnerabilità individuale della persona. Lazarus concentra la sua attenzione sulla valutazione che la persona deve avere sulla sua situazione che può procurare un eventuale stress e sul conflitto che ne può derivare. Cox e colleghi suggeriscono che lo stress deve essere spiegato attraverso una serie di transazioni. Nel sistema ci sono diversi elementi: un primo è rappresentato dalle domande rivolte alla persona da parte del suo ambiente. I due autori sottolineano una distinzione tra richieste esterne ed interne, infatti oltre alla domanda esterna, la persona avverte anche esigenze psicologiche e fisiologiche. Un secondo elemento è costituito dalle reali capacità e abilità possedute dall’individuo e ad esse corrisponderà un ulteriore elemento che prenderà il nome di “perceived capability” cioè la percezione della persona delle proprie capacità. Lo stress può insorgere quando c’è uno squilibrio tra domanda percepita e percezione delle proprie capacità. L’individuo dispone di strategie cognitive e comportamentali per far fronte alle situazioni stressanti; l’utilizzo inadeguato di esse può prolungare l’esperienza disfunzionale a cui è sottoposto l’individuo. Anche per questi autori, è importante la valutazione cognitiva della situazione stressogena; quando l’individuo ravviserà uno squilibrio tra richieste e abilità personali, realizzando le sue limitazioni allora sperimenterà stress (Favretto, 1994). L’atto di consapevolezza che ne deriva può non essere compiutamente riconosciuto. Gli autori esaminano le reazioni allo stress come un processo di valutazione che progressivamente giunge a consapevolezza al quale possono associarsi esperienze emozionali (sensazioni di disagio, insonnia) oppure vere e proprie risposte da stress come il commettere errori. Le risposte psicofisiologiche attuate dal soggetto, se protratte nel tempo, possono costituire una minaccia per la salute. In questo processo, la percezione diviene un fattore importante per un esame reale della situazione stressogena e per effettuare una forma di controllo sulla stessa (De Falco et al., 2008 ).

  • Il modello di Cooper si basa sull’idea che sono i fattori fisici ambientali che possono incidere sulla concentrazione, sul rendimento e sull’efficienza dei lavoratori; ma per tutto ciò bisognerebbe tener conto dell’importanza della “reattività soggettiva.” Tra i principali fattori descritti nel modello troviamo (Favretto, 1994):

  • L’esposizione al rumore può infastidire il lavoratore riducendo la sua tolleranza ad altri stressor e agendo negativamente sulla motivazione;

  • Le vibrazioni sono fonte di stress, in quanto sono capaci di provocare alterazioni delle funzioni psicologiche e neurologiche;

  • Le variazioni di temperatura, ventilazione e umidità;

  • Una scarsa illuminazione o una luce abbagliante producono problemi alla vista, mal di testa e affaticamento;

  • Se le condizioni igieniche sono scarse e il lavoratore è esposto a rischi di infortunio e malattia aumentano le minacce per la salute.

Il modello di Cooper sottolinea l’importanza delle caratteristiche del compito, denominate “task demands.” Queste sono rappresentate dalle responsabilità e dal carico di lavoro in “work load quantitativo” (avere troppe cose da fare) e “work load qualitativo” (avere compiti troppi complessi da seguire).

Inoltre il modello di Cooper distingue tre cause di stress connesse al ruolo dell’individuo nell’organizzazione: 1) l’ambiguità di ruolo, riguarda mancanza di chiarezza cieca gli obiettivi e le aspettative dei colleghi di lavoro rispetto al ruolo lavorativo; 2) il conflitto di ruolo, interessa a quei lavoratori ai quali vengono richieste delle mansioni o delle competenze incompatibili con il ruolo nell’organizzazione.

Inoltre nel conflitto di ruolo può essere individuata un ulteriore distinzione 1) il conflitto ruolo/persona, dove il lavoratore preferirebbe svolgere un incarico in maniera differente da quanto viene proposto; 2) il conflitto intramandatario, al lavoratore viene assegnato un compito, ma non il personale sufficiente per portarlo al termine; 3) il conflitto intermandatario, si chiede al lavoratore di comportarsi in modo tale da risultare gradito da alcuni colleghi e sgradevole ad altri; 4) il sovraccarico di ruolo, al lavoratore viene assegnato un carico di lavoro eccessivo; 5) la responsabilità nei confronti delle cose e delle persone (quando il soggetto ricopre una posizione di rilievo nell’organizzazione), e in particolare quest’ultimo tipo di responsabilità a essere distressogena, capace cioè di provocare l’insorgenza di disturbi (Gabassi, 2006).

Il modello di Cooper indica l’esistenza di cinque tipi di stressor potenziali (Rossati, Magro, 1999):

  • L’incongruenza di posizione, subentrano relazioni difficili con il contesto sociale di appartenenza;

  • La densità sociale, un spazio insufficiente del ciclo vitale e non adeguato può contribuire a diminuire prestazioni lavorative;

  • Le personalità abrasive, esistono individui, che all’interno delle organizzazioni, costituiscono motivo di stress per i colleghi;

  • Lo stile di leadership, se la leadership è di tipo autoritario, i lavoratori sono privati di fornire suggerimenti e di esprimere opinioni, e quindi non si sentono coinvolti e provano frustrazione e disagio;

  • Le pressioni del gruppo, si può verificare una condizione di distress quando l’individuo viene condizionato dalle regole impostate dal gruppo di lavoro che necessariamente non condivide.

Infine, nel modello di Cooper relativa importanza si danno ad altri fattori che comprendono il benessere del lavoratore, la struttura organizzativa e il clima. La percezione da parte dell’individuo di un clima aziendale rassicurante porta a una valutazione positiva da parte del lavoratore. Il ruolo nell’organizzazione, lo sviluppo di carriera, il clima organizzativo sono tutte fonti oggettive, tuttavia, le persone sono portatrici di singolarità; caratteristiche di personalità e comportamentali (Gabassi, 2006).

  • Il modello di karasek e Theorell, quest’ultimi sostengono che la condizione di disquilibrio sul posto di lavoro dipendono dal rapporto tra domanda/controllo. Per questi autori, con il termine “domanda” intendono il carico di lavoro e, quindi, l’impegno in termini psicologici e fisici richiesti dal compito svolto; il “controllo” rappresenta la capacità dell’individuo, il livello discrezionale che esercita nello svolgere il suo lavoro (De Falco et al., 2008). In un ambiente, che gli autori definiscono di tensione (strain), in cui siano presenti un alto grado di richieste ma con un basso livello di controllo, problemi di salute e di stress sembrano essere più frequenti rispetto agli ambienti, denominati attivi (active), con un alto livello di domande e un altrettanto alto livello di controllo. In un ambiente dove prevale la tensione, le persone tendono ad essere più rigide, meno flessibili e più inclini alla malattia (Avallone, Pamplomatas, 2005).

In sintesi, tale modello prevede due fattori fondamentali: 1) la domanda, cioè il carico di lavoro, le richieste che provengono dalle caratteristiche psicologiche, fisiche, ambientali che circondano alla mansione. La domanda può essere letta in impegno psicologico e fisico; 2) il controllo, include in ambito lavorativo la capacità dell’individuo di svolgere il proprio compito. L’alta o bassa domanda, o il basso o l’alto controllo danno origine a (Favretto, 1994):

  1. Lavori ad alto strain: sono quei lavori che creano un’alta “tensione” psicologica negli individui, dovuta ad un alto carico lavorativo; tale tensione si può manifestare in sintomi di depressione e ansietà, esaurimento e vari disturbi psicosomatici. Questo tipo è caratteristico di quei lavori dove ad un alto livello di domanda corrisponde un basso grado di controllo;

  2. Lavori attivi: questi lavori hanno un elevato livello di controllo accompagnati da un elevato livello di domanda psicologica. In questo tipo di situazione il lavoratore ha piena possibilità di esprimere le proprie capacità;

  3. Lavori a bassa domanda e ad alto controllo: sono quei lavori che non danno nessun problema di tensione psicologica agli individui. In questi lavori la domanda è poco pressante e di un alto controllo. Questi lavori piuttosto rilassanti tengono l’individuo al riparo dalle tensioni e al rischio di malattie psicosomatiche;

  4. Lavori passivi: questi lavori sono accompagnati da una bassa domanda e da un basso controllo. In tali lavori non si creano stresso tensione psicologica, ma determinano una minor capacità di apprendimento.

Infine, citiamo una coppia di autori che hanno contribuito ai principali modelli di cui abbiamo parlato fino ad ora si tratta di Harrison e Caplan, i quali hanno seguito le orme di Lewin, il quale ha esplicitato nel suo modello della teoria del campo che l’importanza non è data soltanto dalla persona con le sue caratteristiche, ma anche delle caratteristiche dell’ambiente lavorativo (Favretto, 1994). Il modello dei due autori ha il merito di equilibrare la valutazione personale e soggettiva degli eventi stressanti con le dimensioni organizzative. Caplan sostiene che dapprima sia possibile misurare oggettivamente sia la persona che l’ambiente e in un secondo momento la percezione che il soggetto ha di sé e dell’ambiente che lo circonda. Caplan nomina la corrispondenza tra la definizione oggettiva e soggettiva della persona “capacità di autovalutazione” o “coscienza delle proprie caratteristiche” e la corrispondenza tra ambiente soggettivo ed oggettivo o “contatto con la realtà” o “coscienza delle caratteristiche dell’ambiente. Il modello prende in considerazione quattro punti (Favretto, 1994):

  • le caratteristiche dell’ambiente lavorativo;

  • le caratteristiche della risorsa (competenza e professionalità, attitudini);

  • la valutazione soggettiva delle richieste oggettive dell’ambiente;

  • la valutazione soggettiva delle doti personali.

Lo stress e il mobbing

Tra il fenomeno del mobbing e quello dello stress intercorre un rapporto di causa-effetto: il mobbing provoca lo stress, che una volta sviluppatosi amplifica ed incide sul mobbing. Quest’ultimo è indipendente dallo stress lavorativo quando è determinato in maniera intenzionale da un soggetto nei confronti di un altro che lo subisce. Invece, è dipendente dallo stress quando la persona accumula molta tensione e senza saperla controllare la dirige verso un’altra persona. Lo stress è determinante per il mobbing e può essere indipendente da esso quando si manifesta per motivi quotidiani slegati dal lavoro, invece, è dipendente quando una persona si trova a causa del mobbing sempre in continua tensione. In questo modo si annullano i momenti di tranquillità e spesso le vittime non sono consapevoli della loro condizione di malessere (Ege, Lancioni, 1998). Lo stress causato dal mobbing ha delle caratteristiche molto particolari in quanto crea un forte stato confusionale che disorienta la percezione degli attori, particolarmente della vittima. Lo stress da mobbing ha effetti molto gravi soprattutto se le vittime sono ignare di esserlo; esse si trovano spiazzate di fronte ad eventi imprevisti e si attribuiscono responsabilità che non gli competono. Ma nel momento in cui la vittima individua e comprende la vera causa del suo stato, lo stress permette di trovare le forze e le idee necessarie per affrontare e sconfiggere il mobber (Bartalucci, 2010). In termini generali, per mobbing si intende un fenomeno complesso che riguarda le relazioni nel mondo del lavoro e che si esprime in una clima di violenza psicologica e morale esercitata da una o più persone verso un singolo individuo. È possibile affermare che il mobbing ha acquisito una certa valenza, guadagnando l’attenzione dei mass-media, trovando la dovuta considerazione sul piano sociale (Pastore, 2006). Il primo a parlare di mobbing fu Leymann negli anni ’80, il quale lo applicò a un nuovo disturbo che aveva osservato in alcuni operai e impiegati svedesi sottoposti a intensi traumi psicologici (Cassilli, 2000). Ege ricercatore tedesco specialista in relazioni industriali e del lavoro, è fondatore di un’associazione PRIMA “Associazione Italiana contro Mobbing e Stress Psicosociale”, che si prefigge di divulgare, assistere, formare ed intervenire sul mobbing. Per questo studioso il mobbing è “un’ azione (o una serie di azioni) che si ripetono per un lungo periodo di tempo, compiuta da uno o più mobber per danneggiare qualcuno (che chiameremo mobbizzato), quasi sempre in modo sistematico e con uno scopo preciso. Il mobbizzato viene letteralmente accerchiato e aggredito intenzionalmente dai mobber che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale” (Ege, 1996).

La situazione italiana

Il mobbing in Italia assume delle connotazioni e caratteristiche molto profonde. È per questo motivo che Ege (1997) parla di un “mobbing culturale,” che attraverso aspettative e valori propri di una società influenzano questo fenomeno. Questo significa che il mobbing risulta strettamente legato all’ambiente culturale in cui ha luogo (Bartalucci, 2010). A differenza dei paesi nordici, in Italia non c’è ancora una cultura capace di identificare questo fenomeno (Ascenzi, Bergagio, 2000).

In Italia, spesso il mobbing non viene riconosciuto come problema a sé, ma viene identificato come una routine. Il lavoratore mobbizzato non percepisce il problema e pensa che le azioni vessatorie facciano parte della normalità e della routine quotidiana. Il lavoratore italiano si rende conto di tale situazione solo dopo la fase del conflitto, quando iniziano a subentrare sintomi psicosomatici. In pratica, nel mobbizzato italiano l’allarme che dovrebbe scattare alla fase del conflitto risulta, invece, sfociare in quella della malattia (Ege, 1997).

Il mobber italiano, mette in atto alcune azioni tipiche, quali l’isolamento, il sabotaggio e il pettegolezzo. Inoltre, il mobber italiano utilizza strumenti esterni in maniera da sembrare estraneo alla vicenda. La vittima del mobber inizialmente pensa che il problema sia del tutto casuale e quindi scarica la sua rabbia sul mezzo esterno, in questo modo il mobber acquista tempo. In Italia, il mobbing viene vissuto come un problema scomodo per il personale e non per l’azienda (Ege, 1997). È nel 2003 che in Italia, l’Inail riconosce il mobbing come causa di infortunio o di malattia professionale. Tuttavia, l’Italia non ha una specifica legislazione sul mobbing, anche se sono state apportate delle leggi a difesa del lavoratore, come l’art. 32 della Costituzione Italiana, che tutela la salute come diritto fondamentale (Scanni, 2004). Il mobbing interessa in Italia circa 1,5 milioni di lavoratori e tenendo conto delle persone in ogni caso coinvolte, come i familiari delle vittime, si può infatti parlare di oltre 4 milioni di persone interessate. Queste stime sono state curate da Harald Ege, che ha condotto un’indagine conoscitiva su 301 casi di persone mobbizzate in tutta Italia, nel 1998. Le più recenti ricerche fatte in Italia sugli atti di terrorismo nei luoghi di lavoro, consentono anche di vedere più in dettaglio l’andamento del fenomeno in rapporto ai vari settori produttivi ed alle aree geografiche. Oltre ai vari settori produttivi, si può notare che il pubblico impiego sembra essere il più esposto visto che registra il 42% dei casi di mobbing. A seguire troviamo il settore industriale e quello dei servizi con il 18% e per ultimo il settore dell’agricoltura con appena il 2% (Ascenzi, Bergagio, 2000). In Italia, lo studio della violenza psicologica è iniziata con notevole ritardo rispetto ad altre nazioni. In Italia si è cominciato a parlare di mobbing solo dal 1999, anno dei primi due convegni nazionali sul tema: uno a Milano organizzato dalla Clinica del Lavoro e uno a Roma organizzato dall’ ISPEL, istituto superiore per la prevenzione e sicurezza (Bartalucci, 2010). Ad esempio il CDL è un centro interdisciplinare costituito da medici del lavoro, psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e tecnici di psicodiagnostica. Gli accertamenti consistono in una serie di valutazioni di medicina del lavoro, psicologiche e psichiatriche, secondo un protocollo valutativo appositamente sviluppato. Al CDL si rivolgono persone provenienti da tutta Italia che subiscono molestie morali, inoltre i richiedenti vengono ricoverati in day hospital su richiesta del medico di base; il paziente viene sottoposto a una serie di colloqui approfonditi e test psicologici che aiutano i medici a fare una diagnosi e di valutare se effettivamente sussiste una situazione di disagio provocata da mobbing. Dopodiché al paziente viene data una valutazione psicologica e viene proposto un trattamento farmacologico o psicoterapeutico. In alcuni casi l’intervento della struttura finisce qui e in altri prosegue. In quel caso la struttura può segnalare tale situazione di persecuzione al medico competente che le aziende devono avere quando esiste un qualche rischio per la salute dei dipendenti. Il CDL suggerisce anche provvedimenti preventivi e può richiedere all’unità sanitaria locale un’ispezione all’interno dell’azienda, usato solo nei casi estremi, solo quando non c’è alcuna possibilità di mediazione. Infine, il lavoratore quando si rivolge all’attività giudiziaria per ottenere un risarcimento può utilizzare le valutazioni psicodiagnostiche e le diagnosi formulate dal CDL durante il ricovero in day hospital come documentazione di una malattia connessa al mobbing. Al CDL di Milano lavorano un neuropsichiatra, uno psicologo e un medico del lavoro, oltre ad una caposala che cura l’organizzazione, una testista (cioè esperta di test) che ha studiato psicometria, un’infermiera professionale e diversi tirocinanti che collaborano part-time. L’assistenza di questa struttura è interamente gratuita, trattandosi di un centro del sistema sanitario nazionale. Si avvale di programmi di formazione, specie per i medici e dirigenti d’azienda (Gilioli, 2000). In Italia, i centri operanti sono circa una quindicina, ma non tutti svolgono le stesse finalità, alcuni offrono servizi di counseling alla persona, altri invece preferiscono stilare una diagnosi tra la salute del soggetto e la situazione lavorativa riferita. Bisogna anche precisare che dal 1999 a Roma è stato istituito presso il laboratorio di psicologia in Roma, il centro di ascolto per il mobbing (Fattorini, Gilioli, 2000). Da ricordare che dal 1999 è presente presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Roma uno sportello unico contro gli abusi sui posti di lavoro, con l’intento di offrire consulenza a coloro che ne hanno bisogno, grazie all’aiuto di un avvocato e di uno psicologo (Ascenzi, Bergagio, 2000). Insomma, ci furono varie iniziative italiane indette anche dalle varie regioni del paese, ognuno con un obiettivo.

La situazione nel resto del mondo

Si parlerà qui di seguito delle varie iniziative introdotte nei paesi europei e di come quest’ultimi hanno reagito di fronte a tale fenomeno.

Nel lontano 1989 la Commissione Europea aveva introdotto alcune misure per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori. La direttiva CEE n.391 del 12 giugno 1989 conteneva alcune direttive sulla salute dei lavoratori e attribuiva ai datori di lavoro la responsabilità di garantire che i lavoratori non soffrissero di danni per colpa del lavoro, anche come conseguenza del mobbing. Si delinearono in quegli anni alcune azioni e iniziative degli Stati europei atte a prevenire e contrastare il mobbing. Altre organizzazioni europee hanno studiato questo tipo di fenomeno. Nel 2001, il Parlamento Europeo ha ritenuto che il mobbing costituisse un grave problema per la vita lavorativa delle persone e quindi rafforzare le misure per fare fronte a tal fenomeno. Il Parlamento europeo esorta gli stati membri a rivedere la propria legislazione vigente in relazione alla tematica mobbing e le molestie sessuali sul posto del lavoro, raccomandando che :

  • Le organizzazioni private e pubbliche, nonché le parti sociali debbono attuare dei mezzi di prevenzione;

  • Individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le vittime;

  • L’importanza dell’informazione e della formazione dei vari dipendenti, del personale e del medico del lavoro sia nel settore pubblico che privato;

  • L’importanza di introdurre un sistema per scambiare esperienze.

Potremmo inserire anche un esempio relativo ad alcuni dati riportati dalla ricerca condotta nel 2000 dall’ European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, ha mostrato come il 9% dei lavoratori europei (circa 12 milioni di persone) avrebbero sofferto di mobbing sia nel settore pubblico che privato negli ultimi 12 mesi. Ovviamente il risultato viene considerato con cautela visto che ancora oggi si presentano difficoltà nel definire il costrutto di mobbing e della conoscenza che si ha su tale fenomeno da parte dei rispondenti dell’indagine stessa (Giorgi, Majer, 2009).

In tale contesto abbiamo parlato di paesi europei, ma anche negli altri paesi del mondo ci sono state altre iniziative come in Canada, negli Stati Uniti, in Giappone, il mobbing e la violenza sul lavoro sono temi molto dibattuti e questo ha portato allo sviluppo di una certa consapevolezza negli individui. Nel 1993, in Australia è stata fondata un’organizzazione no profit e volontaria la Beyond Bullying Association, l’associazione aveva tra i vari scopi quelli di incrementare la consapevolezza del fenomeno e delle conseguenze che quest’ultimo può comportare; la promozione di ricerche per migliorare la qualità della vita; supporto alle vittime di mobbing e una notevole sensibilizzazione rivolta ala comunità e al governo. Iniziative di questo genere sono state messe in atto anche da Canada, nella zona del Quebec, dopo vari episodi spiacevoli di violenza lavorativa, e nel 2004 è stata promulgata una legge il cui intento è quello di rendere consapevoli i datori di lavoro e i dipendenti dalle molestie morali sul luogo di lavoro. Importante contributo è stato dato dal Giappone, che già dagli ’80 quando si iniziò ad usare la parola “Karoshi” tradotto sarebbe “morte da superlavoro” il quale viene visto lo stadio finale di una malattia di tipo sociale che porta alla distruzione dell’equilibrio psichico umano portando l’individuo ad uno sforzo esagerato spingendo il cuore a cedere oppure provocando un’emorragia cerebrale (Giorgi, Majer, 2009). La Svezia è stato il primo paese europeo a dotarsi di una legge nazionale sul mobbing nel 1993 e nel 1997 ci furono altre modifiche specifiche. Dal 2002 in Belgio viene varata una legge specifica per regolamentare il problema. Il datore di lavoro ha l’obbligo di eleggere con i rappresentanti dei lavoratori un consigliere per la prevenzione. Presso i servizi pubblici viene istituita una commissione d’avviso composta dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro. In Francia, nel 2000 è stata varata la prima legge sul mobbing, la quale prevede sanzioni sia a discapito del mobber e sia coloro che falsamente dichiarano di essere stati mobbizzati. Nel 1998 è stato istituito in Germania, grazie al sindacato un telefono verde per aiutare le vittime esposte ad azioni mobbizzanti, queste solo alcune delle iniziative avvenute in Europa (Scanni, 2004). Ed è in questo paese che esistono in alcune aziende tedesche delle stanze chiamate del conflitto, Konfliktzimmer,” in cui i dipendenti possono riunirsi per discutere e chiarire i problemi. Può anche essere interpellato un “Konfliktmanager,” ossia uno specialista del conflitto, un mediatore, interno o esterno all’azienda (Ege, 2001).

Le varie forme di mobbing

In natura esistono varie tipologie di mobbing, e chi si occupa di tale fenomeno deve saperle riconoscere, tra queste ricordiamo:

  • Mobbing verticale, consiste in violenze psicologiche messe in atto da un superiore ai danni della vittima. Tali azioni possono essere dirette o indirette, con l’obiettivo di escludere il lavoratore dall’azienda in cui opera (Bartalucci, 2010). Il mobbing verticale può essere ascendente e discendente, nel primo caso quando le azioni mobbizzanti vengono esercitate dai colleghi subordinati, mentre nel secondo caso la violenza viene esercitata da un superiore della vittima. Un esempio di mobbing verticale è l’abuso del potere, vale a dire tutte quelle situazioni in cui viene attuato un uso non etico del potere da parte di un superiore, che utilizza, a tal fine, la posizione che occupa nella gerarchia aziendale (Giorgi, Majer, 2009);

  • Mobbing orizzontale, consiste in violenze messe in atto da colleghi di paro grado alla vittima. Anche qui le motivazioni che portano a tali azioni mobbizzanti possono essere molteplici, come l’invidia, la competizione e altro (Bartalucci, 2010);

  • Mobbing collettivo/organizzativo, si riferisce alle situazioni in cui le procedure organizzative vengono percepite sistematicamente come oppressive ed umilianti al punto che i lavoratori si sentono mobbizzati da esse. Anche in questa forma di mobbing i comportamenti negativi sono frequenti, persistenti e tormentano, creano frustrazione nei dipendenti (Giorgi, Majer, 2009);

  • Il doppio mobbing, il primo studioso che trattò per la prima volta il fenomeno fu Ege (1997). Tale fenomeno riguarda il coinvolgimento della famiglia della vittima. La famiglia è certamente la prima istituzione sociale alla quale l’individuo appartiene e verso la quale sviluppa l’attaccamento, ma il tipo di legame esistente nelle varie famiglie può essere diverso. E il ruolo diverso assunto dalla famiglia nei confronti dei propri membri può ripercuotersi anche in una situazione di mobbing. Un coinvolgimento emotivo forte, può portare tutta la famiglia a vivere in maniera personale, le situazioni che riguardano un singolo membro. È naturale che un mobbizzato cercherà conforto all’interno del proprio nucleo familiare, in questo modo troverà sostegno e appoggio, che risulterà indispensabile per ricaricarsi dalle proprie insoddisfazioni interne. Il mobbizzato sopporta a lungo le vessazioni e le violenze psicologiche inflitte a lavoro, ma essendo il mobbing un fenomeno lungo si ripercuoterà anche nella famiglia della vittima (Favretto, 2005);

  • Il bossing, è una forma di terrorismo psicologico che viene programmato dall’azienda stessa ai danni dei dipendenti divenuti in qualche modo scomodi. Una strategia molto diffusa da bossing è quella di far circolare una lista nera, su cui sarebbero scritti i nomi delle persone non indispensabili. La lista non deve mai sembrare “ufficiale” ma sempre “segreta.” Le liste nere dovrebbero essere più di una, ed in ognuna comparire nomi e combinazioni di nomi diversi. Lo scopo è quello di affiancare alla tensione, anche l’insicurezza e la paura, in modo che nessuno sappia più con esattezza come vanno le cose e se possa o no ritenersi al sicuro (Ege, 1997). In questi tempi di crisi, molte aziende sono costrette a ridurre il personale, o a ringiovanirlo. Il bossing si configura in questi casi proprio come una precisa strategia aziendale con delle vere e proprie caratteristiche. Le azioni più tipiche di questa forma di mobbing riguarderanno più specificamente l’attività lavorativa, si manifesteranno sotto forma di trappole, diffusione di informazioni false o incomplete e sabotaggi, affinché gli errori commessi dal lavoratore possano essere fatti ricadere su di lui e costituiscano una prova costruita da esibire in giudizio (Giorgi, Majer, 2009);

  • Mobbing leggero o pesante, nel primo caso le azioni mobbizzanti risultano sottili, ma non per questo meno pericolose. Nel secondo caso, invece, molto più pericolose e palesi (Bartalucci, 2010);

  • Mobbing involontario, può derivare da uno stato di stress, viene definito come mobbing passeggero, che si concluderà con la fine del periodo stressogeno (Bartalucci, 2010);

  • Mobbing del cliente, in questo caso i lavoratori diventano le vittime dei clienti per cui prestano servizio (Bartalucci, 2010);

  • Serial mobbing, è quello che avviene più frequentemente, è quando un impiegato cerca di mobbizzare i suoi impiegati uno dopo l’altro (Bartalucci, 2010).

Gli attori del mobbing

Anche se, siamo in presenza di varie tipologie di forme, in questi contesti a recitare sono sempre le stesse figure: l’aggressore (il mobber) e la vittima. Tuttavia, bisogna specificare che sia il mobber che il mobbizzato non si trovano quasi mai soli ma li circondano altre persone che chiameremo spettatori e altre con nomi più specifici (Giorgi, Majer, 2009). L’aggressore è stato definito da Ege (1996) con 14 profili diversi tra di loro: l’istigatore, il casuale, il conformista, il collerico, il megalomene, il frustrato, il criticone, il sadico, il leccapiedi, il pusillanime, il tiranno, il terrorizzato, l’invidioso e il carrierista (D’angio, Antigiovanni, 2002). Il mobber, è colui che agisce in maniera sistematica violenze psicologiche su un subordinato mediante critiche, aggressioni verbali e altro ancora, soltanto con l’obiettivo di far si che il mobbizzato si licenzi (Giorgi, Majer, 2009). Le azioni mobbizzanti possono essere molteplici ed è difficile riconoscerle poiché bisognerebbe avere informazioni più dettagliate sull’ambiente lavorativo in genere comunque le violenze possono essere (Menelao et al., cit. in Bartalucci, 2010) :

  • Palesi e violente se subentrano aggressioni verbali o fisiche;

  • Sottili e silenziose;

  • Disciplinari se consideriamo le lettere di richiamo;

  • Logistiche se pensiamo alle persone trasferite in sedi periferiche;

  • Mansionali, se la vittima si occupa di compiti al di sotto delle sue capacità;

  • Paradosssali, se la vittima si occupa di funzioni superiori alle proprie capacità professionali.

Ogni lavoratore, indipendentemente dalle caratteristiche della propria personalità e del proprio carattere può essere soggetto a molestie morali. Tuttavia, possiamo evidenziare potenziali bersagli, ad esempio lavoratori con un elevato coinvolgimento lavorativo, soggetti con ridotte capacità lavorative o problematiche personali (Gilioli et al., 2001). Tuttavia, il mobbizzato è colui che sistematicamente è oggetto di molestia, al fine di essere isolato e umiliato anche per quello che concerne la vita privata. Questo processo viene considerato una discriminazione e può avere conseguenze sulla salute dell’individuo e sulla sfera sociale (Giorgi, Majer, 2009). Nonostante ciò, lo stesso Ege (1996) individua 18 tipologie di possibili mobbizzati; la vittima può essere permalosa, ambiziosa, sicura di sé, molto severa, ma può interessare anche soggetti troppo sensibili o sinceri, eccessivamente paurosi oppure persone che si lamentano spesso. Sullo sfondo esercitano una consistente importanza anche altre figure altrettanto importanti, gli spettatori neutrali chiamati “bystander” oppure quelli che vengono chiamati “side-mobber” oppure “whistleblower” che si schierano dalla parte del mobber. I bystander sono colleghi, superiori consapevoli del fenomeno mobbing, ma incapaci di aiutare e di esprimere solidarietà verso la vittima, sentendosi a volte impotenti di fronte la situazione e riportando conseguenze negative anche sulla loro salute (Giorgi, Majer, 2009). I side-mobber sono coloro che invece affiancano attivamente il mobber nell’azione vessatoria influenzandone la strategia mobbizzante. I whistleblower sono coloro che aiutano la vittima e di solito sono gli stessi colleghi che lavorano nel medesimo luogo lavorativo e che mettono a repentaglio la loro stessa posizione lavorativa, oltre a questa figura esiste anche quella del mandante, che pianifica le azioni mobbizzanti che verranno in seguito eseguite dal mobber che si identifica con il mandatario. In questo caso il mobbizzato può percepirsi vittima di due forme di mobbing parallele: la prima esercitata dal mobber vero e proprio, mentre la seconda dai vertici aziendali (Giorgi, Majer, 2009).

Conseguenze sulla salute.. e non solo..

Il fenomeno mobbing provoca molti danni quando si presenta in un posto di lavoro, chi li subisce è la vittima, l’azienda e in minima parte il mobber. Le conseguenze per la vittima sono molteplici, a volte irreversibili, si trattano di somatizzazioni, disturbi e malattie varie (Ege, Lancioni, 1998). Il benessere della vittima si riduce notevolmente anche a causa delle preoccupazioni; la paura di incontrare il mobber il quale provoca nelle vittime stati di ansia e allerta. La vittima perde la capacità di concentrazione, accusa mal di testa, giramenti continui e si concentra totalmente alle problematiche lavorative. Spesso in questi stati la vittima per dimenticare si lascia sopraffare da sostanze esterne come droghe, alcool, caffè, in maniera da ridurre il senso di malessere diffuso nella vittima (Bartalucci, 2010). La maggior parte delle malattie che colpiscono le vittime da mobbing sono malattie per lo più psicosomatiche. Con quest’ultime intendiamo quelle condizioni patologiche che si situano tra la psiche e il soma. La “somatizzazione” è un processo che è alla base del disturbo psicosomatico, può essere definita come l’espressione di contenuti psichici in sintomi fisici, coinvolgendo il sistema endocrino e immunitario. Numerosi studi hanno evidenziato la correlazione del mobbing con la diminuzione dello stato di benessere, l’aumento dell’ansia, la depressione, l’uso di psicofarmaci, la diagnosi di patologie psichiatriche e, in definitiva, con l’aumentato numero di assenze dal lavoro per malattia. Anche la sfera del sonno è ampiamente influenzata nel lavoratore sottoposto a mobbing. Nei disturbi psicosomatici si attua un espressione diretta del disagio psichico attraverso il corpo, quindi tutte le emozioni troppo dolorose per la vittima trovano sfogo nel soma (Compare, Grossi, 2002). Per la vittima quindi, il mobbing significa prima di tutto problemi di salute legati alla somatizzazione della tensione nervosa, dopo un certo periodo più o meno lungo, presenta una serie di caratteristiche comuni, per cui appare plausibile parlare di sindrome da mobbing. La patologia psicosomatica domina il quadro di esordio clinico, spesso accompagnata da disturbi d’ansia ed agitazione. Dai 6 ai 24 mesi la patologia si altera verso disturbi d’ansia con deflessione del tono dell’umore, o verso veri e propri disturbi depressivi (Ege, Lancioni, 1998). Anche il ruolo del sonno ha una notevole influenza nelle prestazioni e nella vita lavorativa della vittima di mobbing e possono essere interpretati come segni eccessivi di stress legati a condizioni fisiche e psichiche negative, per lo più associate a stati d’ansia o depressione. Essi si possono manifestare inizialmente, e nelle forme transitorie o più lievi, in una o più delle tre forme più comuni di insonnia ovvero in sindromi più marcate, gravi e persistenti, come incubi o ipersonnie (Costa cit. in SIMLII, 2005). Le conseguenze sociali possono essere notevoli se si pensa che la persistenza dei disturbi psicofisici porta ad assenze di lavoro protratte nel tempo con “sindrome da rientro al lavoro” finché non si arriva alle dimissioni o al licenziamento. Oltre a ciò, il soggetto trasmette il suo stato d’animo e le sue sofferenze all’interno dell’ambito familiare a volte provocando separazioni e divorzi, problemi con i figli e nelle relazioni sociali. Le aree maggiormente colpite sono (Gilioli et al., 2001):

  • Difficile recupero dell’inserimento occupazionale;

  • Coinvolgimento del nucleo familiare;

  • Coinvolgimento del tessuto della vita di relazione coadiuvata dalla caduta del ruolo lavorativo e dello stato sociale.

Gli effetti del mobbing non producono danni solo ai lavoratori, ma anche alle aziende stesse. Infatti, l’abbassamento dei livelli di produttività e la necessità di aiutare i dipendenti demotivati dal loro lavoro provoca per le aziende un innalzamento di costi aggiuntivi (Bodini, 2001). Tuttavia, le aziende rischiano di pagare dai 10 mila ai 50 mila euro a coloro che hanno subito azioni mobbizzanti, ma le perdite dell’azienda non si esauriscono al solo risarcimento dopo che la vittima ha esposto denuncia legale, ma bisogna considerare anche i danni che il mobber compie nei confronti della vittima e dell’azienda stessa, come azioni di sabotaggio soprattutto su quest’ultima inducendo in questo modo la vittima a compiere degli errori e poi perché il tempo che il mobber impiega a dar fastidio alla vittima viene tolto alle sue mansioni lavorative (Gorret, Anche gli stessi mobber posso riscontrare alcune difficoltà, la più grave potrebbe essere quando la grave situazione creata dal mobbing costringe l’azienda a chiudere un reparto o a diminuire il personale e di conseguenza anche lo stesso mobber ne sarà coinvolto (Ege, Lancioni, 1998).

Prevenzione e interventi al mobbing

In questi casi l’importanza è data molto alla parola “formazione” a tutti i livelli. In questo caso con ciò intendiamo una corretta informazione, prevenzione e strategie risolutive. Si può operare a vari livelli, sia aziendale che prevede una formazione e gestione dei conflitti e poi a livello professionale rivolgendosi a quei professionisti, come psicologi, medici, avvocati che possono risultare punti di riferimento a quelle persone vittime di mobbing. Anche la formazione individuale è importante ed è rivolta ai singoli soggetti (Ege, 2001). L’importanza è data all’informazione, in maniera che tutti possano essere informati sul problema (Ascenzi, Bergagio, 2000). Qualora si sospetti di essere vittime di mobbing sono presenti in Italia alcuni centri specializzati, i quali forniscono (Lazzari, 1996):

  • Consulenze;

  • La possibilità di intermediare con l’azienda presso la quale la persona lavora;

  • Colloquio preventivo gratuito con esperti in materia;

  • La richiesta di una pensione d’ invalidità nei casi in cui sia riconosciuta il nesso tra la condizione lavorativa e la malattia conseguita.

Il rimedio contro il mobbing deve essere come il mobbing, e deve possedere le tre caratteristiche principali (Casilli, 2000):

  • Deve essere somministrato sul luogo del lavoro:

  • La difesa del mobbizzato deve protrarsi nel tempo;

  • Deve basarsi su una strategia pianificata.

L’importanza è data dall’auto-formazione che si basa su principi cardini quali non chiudersi mai in se stessi; prendere coscienza che non si è in difetto; porsi delle domande; cercare appoggio negli affetti vicini e per ultimo affrontare il mobber (Ascenzi, Bergagio, 2000). Bisogna considerare che ci sono varie strategie che possono risultare benevole per fronteggiare tale fenomeno, sia strategie aziendali che individuali. La formazione e l’informazione sono la chiave essenziale per poter prevenire, curare e intervenire sul mobbing, infatti si è constatato che le aziende che aiutano a far conoscere tale fenomeno ha ottenuto enormi vantaggi sia per se stesse che per coloro che lavorano (Ege, 1996). Per aiutare le aziende l’associazione PRIMA ideata dal Dott. Harald Ege, organizza dei corsi rivolti ai consulenti del personale e degli addetti alle risorse umane su come gestire i conflitti da mobbing, offrendo anche servizi di monitoraggio (Gorret, 2003). In un intervento mirato bisognerebbe creare quella che comunemente viene considerata “la cultura del litigio,” in maniera da intervenire e gestire le situazioni critiche. Per attuare la cultura del litigio è de-emozionare il conflitto, ossia togliervi ogni elemento emozionale che può risultare scomodo e fuori luogo in determinate circostanze. Nelle aziende dove manca la cultura del litigio, il conflitto tradizionale logora e distrugge le energie dei contendenti, le quali sono rivolte le une contro le altre. Nella cultura del litigio, invece, le risorse dei contendenti lavorano insieme ed in sinergia, venendo impiegate per la creazione di nuove e creative soluzioni. Il punto di vista dell’altro non è più una minaccia, ma diviene una opportunità di crescita e di arricchimento personale. Se si collabora con i colleghi (team feeling) i problemi possono essere risolti e i conflitti possono essere addirittura evitati, per questo motivo secondo il Dott. Ege bisognerebbe instaurare in ogni azienda una cultura del conflitto (Ege, 2001). Vi siete mai chiesti che cosa fa la vittima mobbizzata per prima cosa? Coloro che subiscono mobbing si recono dal medico di famiglia speranzosi di raccontargli il loro stato psicofisico. Lo stesso lavoratore non sempre mette la sua sofferenza in rapporto con i problemi occupazionali ed è quindi il primo a voler indagare le possibili cause organiche del suo star male. Oppure, non ritiene di doverne parlare. Parla quindi di disturbi del sonno, di tensione, di ansia, di paura o di depressione. Se il paziente spontaneamente racconta al proprio medico di base anche le sue vicende occupazionali, aspetta al medico stesso di offrire uno spazio di accoglimento che consenta alla persona di poter manifestare il proprio disagio. In questo caso l’aiuto del medico è fondamentale in maniera da suggerirgli soluzioni alternative (Fattorini, Gilioli, 2000). Da dieci anni circa sono nate anche delle associazioni di autoaiuto e auto ascolto per le vittime di mobbing, molte di queste associazioni hanno creato anche delle help lines sulla base del modello del telefono amico, anche se in Italia non siamo ancora a conoscenza di servizi telefonici per lavoratori mobbizzati (Casilli, 2000). In associazioni come PRIMA ci sono vari corsi individuali per allenare la persona al conflitto, come (Ege, 2001):

  • L’Autodifesa Verbale insegna le strategie per difendersi dagli attacchi verbali;

  • L’M-Group è una sorta di “campo di battaglia” dove si mettono in pratica le strategie, le tecniche e i modelli difensivi appresi, osservandone il funzionamento e gli effetti. In ogni caso e utile per gestire al meglio le proprie risorse personali;

  • L’Egoismo Sano è un corso che permette di imparare a gestire autonomamente ed in prima persona la propria vita, divenendo padroni di se stessi, incoraggiando a riconquistare se stesso e la padronanza dei propri pensieri ed atteggiamenti, rendendosi indipendente dalle limitazioni;

  • Pigrizia Positiva è un corso che insegna, in modo costruttivamente provocatorio, a diventare “pigroni ad hoc”, ad essere volutamente pigri per difendersi dallo stress e godersi la vita. Bisogna risparmiare la nostra energia vitale nelle piccole e grandi cose di ogni giorno in maniera da riconoscere gli sprechi della vita moderna.

CONCLUSIONI

Il presente articolo ha voluto delineare il nesso che unisce il fenomeno dello stress con quello del mobbing. Abbiamo cercato di introdurre un nuovo tipo di stress psicosociale delineandone le caratteristiche principali, gli effetti sulla salute e quelli sociali, i protagonisti che operano in tali contesti e per finire i vari interventi a livello aziendale e individuale che possono aiutare le vittime di mobbing a vedere la realtà che li circonda con occhi diversi e a sviluppare le loro risorse individuali al fine di aiutarle ad arginare e contrastare i vari problemi inerenti al fenomeno.

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