Interventi psicologici e psicoterapeutici nella dipendenza affettiva


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La psicoterapia con il dipendente affettivo

Per far sì che il dipendente affettivo possa uscire dalla sua condizione e, soprattutto, evitare una futura relazione disfunzionale da dipendente, deve imparare a contraddistinguere il sano dal patologico, deve essere disposto a completare tutti i passi necessari per aiutarsi e deve rivolgere le proprie energie verso l’interno e non più verso l’esterno. Questo richiede un pieno impegno verso se stessi, tenendo a mente che esiste una soluzione (Norwood, 1990). Tuttavia, essendo il processo di guarigione molto articolato e distinto da alcuni momenti di ricaduta, per poter effettuare un lavoro che vada a fondo del problema, è consigliabile affidarsi ad un’ampia rete di supporto psicologico.

La psicoterapia in un contesto di violenza psicologica non deve servire a capire il motivo per il quale si è finiti in una relazione del genere, piuttosto come se ne deve venire immediatamente fuori (Hirigoyen, 2000). La psicoterapia individuale, per uscire dalla dipendenza affettiva, ha come obiettivo principale la presa di coscienza e l’ammissione da parte della persona di avere un problema, in quanto ci sono dei confini molto sottili tra ciò che in un rapporto è normale e ciò che, nell’abitudine cronica, diviene dipendenza. Questa difficoltà nell’identificazione del problema risiede anche nei modelli di amore che la persona conserva nella propria memoria e che fanno ritenere sacrifici ed abusi come ordinari. Il primo passo, quindi, è quello di puntare alla riscoperta di se stessi lavorando sul proprio vissuto, sui livelli affettivi e specialmente sul proprio potenziale emotivo (Guerreschi, 2011). Poiché il dipendente affettivo non si conosce, deve riscoprire le sue priorità, le proprie potenzialità, i propri limiti e i propri interessi. Conoscersi, dunque, è importante per instaurare relazioni sane, per sentirsi bene ed è un gesto di amore, empatia e rispetto verso se stessi (Barbier, 2017).

Inoltre, sarà necessario creare delle alternative ai comportamenti che tengono legati i dipendenti. Questo processo, però, potrà causare stress ed angoscia di fronte ai rischi legati alle nuove responsabilità e alla paura del cambiamento (Guerreschi, 2011).

Compito del clinico, inoltre, è quello di incorag­giare il senso di agency del soggetto e definire la perversione e la violenza psicologica subite, consentendo di iniziare a spogliarsi del senso di colpa e dalla frustrazione. Affinché ciò avvenga il terapeuta deve consentire alla persona di ritrovare la fiducia nelle risorse personali (Hirigoyen, 2000). Infatti, definire la perversione solleva la persona dalla confusione del rapporto disfunzionale e dà un volto a questo legame privo di confini. Invece, liberarsi del senso di colpa consente di rimpossessarsi del proprio vissuto e del proprio dolore e, solo quando quest’ultimo sarà stato allontanato e si sarà sperimentata la libertà, si potrà ritornare alla propria storia personale, a comprendere i vissuti e il percorso che hanno portato fino all’annientamento (Ibidem).

Un altro passo della terapia è capire come venire fuori dalla situazione di violenza psicologica, esplorando i motivi sottesi che hanno portato la persona in quella situazione ed affrontando i nodi critici della sua bio­grafia che l’hanno resa vulnerabile (Hirigoyen, 2006).

Quando le vittime, dopo la separazione dal partner o durante la terapia, acquisiscono consapevolezza dell’abuso subito, presentano abitualmente uno stato depressivo, ansioso e un senso di vuoto ed inutilità legato alla perdita delle illusioni. È necessario, quindi, focalizzare l’intervento sulla riappropriazione dell’autonomia e dell’autostima, stimolando i propri punti di forza. Ciò si propone come un ulteriore sostegno alla presa di contatto delle proprie emozioni che sono state fino a quel momento censurate (Ibidem).

Inoltre, il perverso si nutre e distrugge il narcisismo del partner per mantenere in vita il suo, dunque, ripristinare il narcisismo indebolito del dipendente è un altro elemento aggiuntivo nel percorso terapeutico (Ibidem).

Infine, è necessario lavorare sulla paura dell’abbandono tramite la realizzazione di un solido rapporto con se stessi, che permetta di avere consapevolezza di essere persone separate, con la propria individualità, capaci di prendersi cura di se stessi e di amarsi (Barbier, 2017). È necessario, quindi, vedere il lato positivo della “solitudine”, ovvero avere la consapevolezza che si può stare bene anche godendo della propria compagnia, difendendo i propri spazi personali, esigendo rispetto e trovando un senso alla propria vita (Inama, 2002).

La terapia breve strategica

Il principio sotteso alla scelta di una strategia terapeutica è quello di spezzare la catena di azioni ed emozioni che alimentano la relazione disfunzionale. Secci (2014), sulla base della propria esperienza clinica, sceglie l’approccio basato sulla terapia breve strategica, diretto all’estinzione dei sintomi e alla risoluzione del problema presentato, individuando scopi specifici e coinvolgendo attivamente la persona nella costruzione del risultato che desidera conquistare. Per farlo, la persona viene incoraggiata al cambiamento attraverso compiti volti a rompere il rigido schema che regge il funzionamento della patologia (Ibidem). Infatti, nella terapia breve strategica si agisce su due piani di azione: dentro e fuori lo spazio della seduta, ovvero all’interno del colloquio e tra una seduta e la successiva, nel lavoro che il dipendente è chiamato a svolgere con se stesso tramite le indicazioni date dallo psicologo.

Secci (2014), nella terapia breve strategica rivolta alla dipendenza affettiva, evidenzia un percorso con aree-obiettivo, chiamate le “sette grandi A”, che indicano gli ambiti in cui, spesso, il dipendente è carente (Ibidem):

  • L’autonomia implica l’acquisizione della decisione rispetto a quelli che sono i propri bisogni affettivi e coltivare un senso di indipendenza ed integrità rispetto alle scelte, giudizi ed orientamenti altrui;

  • Autostima, ovvero valorizzare se stessi rintegrando aspetti piacevoli o non, tramite un’auto-accettazione complessiva;

  • L’auto-realizzazione spinge l’in­dividuo ad utilizzare le proprie risorse per perseguire mete e obiettivi personali riscoprendo i suoi talenti e le sue attitudini;

  • Auto-consapevolezza, ossia la capacità di individuare e riconoscere il proprio fun­zionamento cognitivo, emotivo e relazio­nale ed essere consapevole delle conseguenze dei propri comportamenti e della qualità della propria comunicazione;

  • Assertività, ovvero utilizzare strumenti comunica­tivi efficaci e costruttivi senza remissività o aggressività;

  • L’apertura è la tendenza a confrontarsi autenticamente con gli altri e la fiducia verso il prossimo;

  • Affettività, ossia l’area tra presente e passa­to delle relazioni importanti per l’individuo che contiene gli schemi relazionali disfunzionali del problema portato in terapia.

Secci (2014), afferma che tuttavia c’è un limite all’efficacia della terapia, in quanto la persona deve avere la volontà di emanciparsi veramente dall’oggetto della dipendenza e realizzare un abbandono consapevole dei circoli viziosi della relazione disfunzionale.

Come si è precedentemente detto, la tipicità dell’approccio strategico ai problemi consiste nell’utilizzo di prescrizioni e compiti che appaiono tanto strani quanto efficienti. Ovviamente, ogni persona riceve compiti individualizzati sia sul problema portato che sul suo sistema di valori, attitudini ed aspettative. Alcuni di essi sono le lettere disperate, il peggio possibile e il film hollywoodiano (Ibidem).

Nelle “lettere disperate” il terapeuta chiede alla persona, quando si sentirà al culmine del dolore, di scrivere una lettera d’amore triste ed intensa. Prima di scriverla dovrà uscire di casa, mostrando in pubblico la sua sofferenza. La logica sottesa è quella di chiedere al paziente di impadronirsi del sintomo anziché subirlo. Infatti, se il dipendente esegue il compito le prime volte soffrirà, ma successivamente riscontrerà una graduale desensibilizzazione rispetto al problema consentendo di opporsi al dolore. Inoltre, lo stratagemma dello scenario esterno in cui scrivere porta il soggetto a evitare di stare chiuso in casa nel proprio dolore e conferisce ai sintomi un senso del ridicolo che modifica la prospettiva della persona. Nel caso in cui il paziente rifiuti di scrivere la prescrizione ha in ogni caso esito positivo, perché dimostra che ha controllo sul problema e che può eludere la sofferenza e le azioni compulsive (Ibidem).

Con il compito del “peggio possibile” si chiede al paziente cosa farebbe se volesse peggiorare intenzionalmente la situazione che sta vivendo e di annotarlo ogni giorno. Questo, spinge la persona a riflettere e scoprire che i comportamenti, i pensieri e le emozioni che genererebbero un aggravamento della sofferenza sono proprio quelli che ha sempre realizzato naturalmente. Si raggiunge così il duplice obiettivo di aumentare la coscienza del paziente circa la propria responsabilità nel conservare il rapporto disfunzionale e di limitare o annullare la frequenza delle abitudini individuate come fattori critici (Ibidem).

Infine, la “tecnica del film hollywoodiano” rappresenta una sorta di prescrizione del sintomo, ovvero si chiede al paziente di realizzare in modo amplificato e limitato, ciò che generalmente fa spontaneamente e di continuo. Infatti, la persona deve trovare ogni giorno ventuno minuti per pensare nel modo più intenso possibile alla sua relazione come fosse un film. In poco tempo il dipendente riporta un miglioramento della sintomatologia perché i ventuno minuti di riflessione ripetuti giornalmente diventano intollerabili al punto da ridursi significativamente. Dovendo “creare” il sintomo la persona controlla il problema e prende consapevolezza che la sua relazione amorosa è tutt’altro che una storia romantica. Il compito opera anche quando non viene eseguito, in quanto incoraggia il soggetto ad acquisire controllo sui pensieri che alimentano la dipendenza e a gestirli senza più subirli (Ibidem).

La psicoterapia con il manipolatore perverso

Come affermano molti autori (Kernberg, 1987; Beck e Freeman, 1998; Ronningstam, 2001; Stone, 2007) le personalità narcisistiche sono difficili da trattare e pochi riescono ad avere una prognosi favorevo­le. Questo perché il narcisista rifiuta l’aiuto o abbandona il trattamento dopo le prime sedute, in quanto fugge da un senso profondo di inadeguatezza e dai suoi punti critici e, quasi sempre, disprezza psicologi e psicoterapeuti. Infatti, il narcisista richiede la terapia solo quando, a causa del suo disturbo di personalità, diventano insopportabili la depressione, l’insonnia o altri disturbi collaterali. Si mobilita esclusivamente per se stesso e quando ha necessità di servirsi dell’altro, terapeuta compreso. Il soggetto, quindi, non può essere costretto o indotto a chiedere aiuto in nessun modo, tanto meno se la proposta sopraggiunge dal partner che da solo non può aiutarlo (Secci, 2014).

In merito a ciò un tipo di trattamento molto efficace per aiutare il narcisista è la Schema Thera­py. Il concetto di schema, fa riferimento a quei costrutti inerenti alla visione del proprio vissuto e di se stessi, alle influenze am­bientali e dalle strutture cognitive che si avviano già dalle esperienze in­fantili, questi costruiscono un proprio schema tramite cui conferire senso alla vita. In tale modello, un aspetto centrale è quello di mode (insieme di stati emotivi e risposte di coping), che può essere disfunzionale quando implica schemi o risposte di coping mal adattivi che vengono espressi con emozioni negative e comportamenti autodistrut­tivi (Young et al., 2007). Rispetto a questo si può vedere come il narcisista sia portato ad assumere mode specifici e ben radicati. Secondo Young (2007) il paziente narcisista presen­ta, estromettendo quello funzionale, tre mode che sono:

  • Il bambino solo, si innesca quando i bi­sogni emotivi della persona rimangono insoddisfatti portandola a sentirsi deprivata, poco apprezzata e amata dagli altri facendo scaturire la percezione di solitudine e abbandono;

  • Il presuntuoso, attua una strategia di coping compen­satoria per far fronte ai sentimenti di deprivazione emotiva, utilizzando il senso di grandiosità. Egli in modo difensivo tende a mascherare la sua fragilità mettendo in atto dominanza, auto-affermazio­ne e manipolazione;

  • Il consolatore distaccato, implica la tenden­za ad evitare il dolore, la solitudine e il senso di vuoto associato al bambino solo.

Alla luce del concetto di mode, il principale obiettivo del trattamento narcisistico è quello di incoraggiare il mode adulto funzionale tra­mite il modellamento e l’esempio dato dal terapeuta. In questa promozio­ne, quindi, si punta alla capacità di: aiutare il bambino solo a sentirsi accudito, a renderlo più cosciente dei reali bisogni senza utilizzare meccanismi di coping compensatori e ad empa­tizzare con gli altri; intralciare il mode presuntuoso per consentire al narcisista di rinunciare al suo eccessivo bisogno di ammirazione e rivolgersi agli altri mediante senso di reci­procità; aiutare il mode consolatore distac­cato a rinunciare ai comportamenti mal adattivi di evitamento e sostituirli con la capacità di provare emozioni autentiche (Young et al., 2007).Una tecnica diretta al cambiamento è il Mode work, ovvero, un lavoro di dialoghi tra i vari mode per educare la persona ad organizzare mode più validi (Ibidem).

La psicoterapia di coppia

Molti autori (Nazare-Aga, 2008; Hirigoyen, 2006) indicano la difficoltà ed una probabile inefficacia della terapia di coppia in tutti quei legami che hanno come sfondo il maltrattamento e la violenza. Anche perché sino ad ora si è discusso della distruttività di tali tipologie relazionali e dei consigli impliciti rivolti alle vittime di rompere il legame al fine di una propria tutela e riassetto psichico. Tuttavia, bisogna altrettanto considerare la scelta di chi resta insieme al partner e presentare come opportunità una presa in carico congiunta. Infatti, la terapia risulta profi­cua, solo se i due partner hanno il comune desiderio di ristrutturare insieme la loro felicità (Nazare-Aga, 2008). Alla luce del grado di patologia individuale, la com­binazione tra intervento congiunto ed indi­viduale, dove sia possibile, rappresenta la miglior solu­zione (Solomon, 2001).

Tuttavia, esistono alcune indicazioni e suggerimenti terapeutici riguardanti la terapia delle relazioni con struttura narcisistica. Anzitutto, è bene tenere in considerazione la presenza di alcuni limiti: ad esempio, la difficoltà, da parte del narcisista, di individuare i propri limiti; inoltre, l’intervento di coppia, per definizione, implica la suddivisione delle responsabilità di fronte ad una relazione disfunzionale, e questo può aumentare il senso di colpa della vittima; altro elemento importante da considerare è la diversa domanda terapeutica dei partner, ognuno con una diversa narrazione di Sé, con i propri bisogni, vissuti, e, soprattutto, ruoli; infine, sono frequenti alcuni fenomeni come l’attribuzione della colpa al partner e il tentativo di trovare un alleato nel terapeuta al fine di mettere in discussione l’altro (Hirigoyen, 2006; Solomon, 1985, 2001; Spence, 1987).

Detto ciò, alcuni obiettivi terapeutici implicano: aiutare i partner a comprendere i reciproci bisogni arcaici di dipendenza; scoprire delle strategie per chiudere le ferite che entrambi si impongono per di­fendere le proprie aree di fragilità; curare le strutture deteriorate del Sé tra­mite una relazione riparativa (Solomon, 2001).

Inizialmente la terapia si svolge attraverso la mediazione del terapeuta nel processo comunicativo che avviene tra entrambi i partner al fine di diminuire gli attacchi distruttivi, allo stesso modo of­fre un esempio di sintonizzazione em­patica con la quale accogliere e comprendere le reciproche paure e bisogni, nonché nuovi modi di difendersi da situazioni dure da gestire (Ibidem). Grazie alla centralità del modellamento del terapeuta come fattore educativo per i pazienti, la terapia diventa un luogo entro cui offrire esperienze più sane e costruttive, in cui si presentano alternative interpersonali sulle quali alimentare i legami, svincolare dalla rigidità dei propri schemi.

L’elaborazione dei propri limiti, delle esperienze, del proprio “lutto” esi­stenziale mobilitano necessariamente l’accettazio­ne che conduce, pertanto, al cambiamento in quanto attribuisce ai partner un nuovo modo di vedere la relazione e se stessi. Il lavoro terapeutico, quindi, si propone di cogliere quegli aspetti passati non tradotti che si sono scagliati nel rapporto con l’altro, nella comprensione di come la persona tende a difendersi dal contatto intimo, che porta sempre più all’isolamento psichico, nel reciproco distanziamento e difesa narcisistica (Solomon, 1985).

I gruppi di auto mutuo aiuto

L’incontro del gruppo di auto mutuo aiuto si contraddistingue per l’enfasi posta sulla partecipazione e sulla condivisione che ciascuno può offrire, difatti è considerata come una risorsa insostituibile che crea appartenenza, autostima, potenza e credo collettivo. Proprio per favorire la libertà di espressione, solitamente le dimensioni del gruppo sono contenute (Folgheraiter, 2002; Norwood, 1990).

Quindi, partecipare a un gruppo di auto mutuo aiuto con persone con problemi di dipendenza affettiva è una buona modalità per ricevere sostegno e anche molti autori (Norwood, 1990; Inama, 2002; Guerreschi, 2011) sono d’accordo nel sostenere la validità di queste terapie nel trattamento di tali tipologie di personalità. Infatti, i motivi che rendono le persone dipendenti sono numerosi ed è piuttosto difficile riconoscerli ed affrontarli, però rispecchiandosi negli altri si riesce più facilmente a fare i conti con se stessi, discutere di situazioni reali e trovare soluzioni ed informazioni pratiche ricavate dall’esperienza altrui. Difatti, il gruppo allena a scoprire i tesori che sono dentro ognuno, apportando consapevolezza, accoglienza, solidarietà e soprattutto benessere (Inama, 2002).

Nel momento in cui i componenti del gruppo raccontano le loro storie, il dipendente si identifica con loro e con le loro esperienze, questo lo aiuterà a ricordare quello che ha chiuso fuori da Sé (azioni e sentimenti) e comincerà ad accettarlo in quanto accoglierà quello dell’altro e capirà che non è sbagliato (Norwood, 1990). Questo porta a sentirsi parte di una rete di sostegno emotivo reciproco, in cui invece di essere portatrici di disagio, si diventa elementi attivi del cambiamento personale e dei compagni. Si plasmerà così una catena, per cui chi è più avanti nel corso della terapia sarà in grado di aiutare coloro che si trovano in una fase meno avanzata (Guerreschi, 2011).

Nei gruppi di auto mutuo aiuto lo scopo principale, quindi, è far cadere gli ideali costruiti intorno all’amore, al potere del partner, alla famiglia, attraverso l’incremento di capacità di confronto e di analisi personale (Ibidem).

Potenziare l’assertività del dipendente affettivo

Il dipendente affettivo vive costantemente in una negazione di sé, non ha capacità di prendere percezione della propria importanza e di assegnarsi il giusto valore, è imprigionato nelle fortezze che altri hanno innalzato attorno a lui e ha ceduto la sua vita a qualcun altro (Deetjens, 2009). Egli per imparare a difendersi dalla manipolazione affettiva può acquisire capacità empatiche ed assertive che lo aiuteranno ad entrare, con maggiore consapevolezza, in relazione con il partner.

Quando ci si esprime non sempre lo si fa nel modo più adeguato, per questo bisogna imparare a comunicare più efficacemente, un modo per farlo è quello di apprendere l’assertività. La comunicazione assertiva si basa sul diritto di essere trattati con rispetto, di essere se stessi e di credere nei propri valori; è una condizione dell’essere liberi di poter scegliere responsabilmente (Nanetti, 2002; Di Lauro, 2014).

La comunicazione assertiva è quell’abilità relazionale che permette di individuare ed esprimere le proprie emozioni, i propri bisogni e diritti nel rispetto reciproco, di ascoltare attentamente e accogliere le richieste facendo capire alle persone che le si sta ascoltando, di essere disponili ad una negoziazione senza dimenticare la propria dignità e si è in grado di chiedere e opporre rifiuti. Essa è il risultato di un equilibrio che nasce dall’armonia tra le competenze emotive, sociali e il pensiero (Formella, 2014; Fata, 2012). Essere assertivi vuol dire prendersi la responsabilità del proprio agire, guardarsi dentro senza timore; è una scelta, è un atto intenzionale e ragionato, tuttavia, non è un compito facile, poiché esige sforzo e volontà (Pedrotti, 2008).

Per iniziare ad esercitare il comportamento assertivo vi sono tre passaggi da tenere sempre in mente (Formella, 2014): il proprio pensiero sulla situazione «Io penso…»; le proprie sensazioni riguardanti la situazione «Io sento…»; i propri desideri riguardo alla situazione «Io voglio…». Infatti, è utile fare affermazioni in prima persona perché aumenta la possibilità di ricevere una risposta positiva e consente di descrivere più facilmente anche sentimenti negativi (Loriedo, Di Giusto e De Bernardis, 2011).

Per apprendere l’assertività si può intraprendere un percorso in cinque passi (Mauri e Tinti, 2002):

  • saper riconoscere le proprie emozioni e saperle cogliere;

  • essere in grado di esprimere i sentimenti sia verbalmente, sia non verbalmente;

  • avere consapevolezza dei diritti reciproci ed avere la capacità di distinguere tra comportamenti passivi, aggressivi e assertivi;

  • conseguimento della stima di sé;

  • sapersi autorealizzare ed essere consapevoli di avere potere decisionale sulla propria vita.

Si può affermare che la comunicazione efficace è uno dei pilastri su cui poggia la relazione di coppia (Giusti e Testi, 2018), infatti, la difficoltà di esprimersi è una delle principali cause di problemi di relazioni altrimenti ben funzionanti. Il narcisista non è aperto al dialogo e ricorrere ai suoi stessi metodi, ovvero all’aggressività, per contrastarlo potrebbe ritorcersi contro chi la utilizza per difendersi. Quindi, anche con questo tipo di partner, l’unico modo in grado di neutralizzare e destabilizzare la manipolazione è l’assertività (Mammoliti, 2012).

Tuttavia, nel caso della comunicazione con i manipolatori, ci si riferisce ad un’accezione leggermente diversa di assertività da quella tradizionale sopra descritta. Mentre lo scopo di quest’ultima è giungere a un accordo condiviso tra le parti, l’obiettivo della prima è quello di neutralizzare gli effetti infausti della loro comunicazione e prevenire i danni che possono derivare dal dialogo perverso, aggressivo e contraddittorio. Lo scopo è l’acquisizione, da parte dei dipendenti, della consapevolezza di essere vittime di questo tipo di comunicazione (Ibidem).

Se ci si dimostrerà sicuri e consapevoli, mantenendo sempre una buona educazione e gentilezza, il manipolatore perverso si troverà spiazzato e quando si accorgerà di avere di fronte un partner difficile da sottomettere presumibilmente cambierà preda. Questa tecnica, oltre a spostare le attenzioni dei manipolatori da se stessi, serve a preservare un continuo contatto con la realtà che impedisca di cadere nel “tango della manipolazione” (Ibidem).

Strategie per difendersi dai meccanismi manipolatori

Tenuto conto delle diverse sfaccettature circa le caratteristiche del dipendente affettivo e del manipolatore perverso, è necessario chiedersi in che modo la comunicazione può aiutare la risoluzione di una relazione affettiva con un partner narcisista. Come si è visto fino ad ora, l’utilizzo delle parole, di particolari meccanismi comunicativi da parte di un narcisista, ha le sue dure conseguenze sull’altro. Risulta opportuno, dunque, indicare e far presente alcune strategie comunicative che possono rivelarsi utili per la difesa di questi meccanismi manipolativi. L’obiettivo, oltre ad indicare le possibilità di respingere la manipolazione, sta nell’offrire degli strumenti a coloro che decidono di rimanere in una situazione del genere.

La contro-manipolazione

Isabelle Nazare-Aga (2000), sulla base delle proprie esperienze cliniche, ha rilevato una strategia molto efficace per far saltare quelle forme comunicative inadeguate del manipolatore, ovvero la contro-manipolazione o la “tecnica della nebbia”. La contro-manipolazione consiste nell’adeguarsi costantemente al manipolatore per difendersi. Essa consiste nel rispondere all’altro, durante una conversazione, come se si fosse indifferenti. Difatti, il manipolatore non può sentirsi superiore o importante agli occhi di un partner indifferente, che non risponde alle sue provocazioni.

Anche il non mostrare emozioni rappresenta un metodo per far scivolar via il manipolatore dalle sue nascoste intenzioni. Quando il manipolatore crea disagio gli si deve tenere testa quanto più possibile rispondendo in modo sicuro. Questo, però, richiede costanza e anche un impegno personale sul senso di colpa che si rischia di provare nel farsi vedere indifferenti e senza emozioni (Nazare-Aga, 2000). Il primo passo verso la capacità di reagire con indifferenza e tutelarsi nel discorso con un manipolatore è avere consapevolezza della difficoltà, se non impossibilità, di sostenere una comunicazione normale con questo tipo di partner. Vale a dire, ammettere il “luttoˮ ossia la perdita di speranza di uno scambio comunicativo rispettoso.

I principi da usare per contro-manipolare sono molto precisi e solamente da questa precisione dipendono i risultati: utilizzare frasi corte; restare nel vago; servirsi di frasi fatte e proverbi; non immettersi nella discussione se non porta a niente; usare la forma impersonale “si” (luoghi comuni); fare umorismo quando la circostanza lo permette; sorridere, specialmente alla fine della frase; attuare l’autoderisione (si deve essere umoristici nei confronti di se stessi); continuare ad essere sempre educati; evitare l’aggressività; utilizzare l’ironia solo se si è sicuri di se stessi; non giustificarsi (Ibidem).

Gli strumenti di difesa dalla manipolazione

Riuscire a contrastare una comunicazione manipolativa non è affatto facile, tuttavia, potrebbero esserci degli strumenti da utilizzare a proprio favore per analizzare la realtà che circonda la vittima. Nei rari casi di lucidità, il primo interrogativo da porsi è se si vuole veramente questo tipo di vita, infatti, solo con la cognizione che si sta vivendo una situazione rischiosa si può iniziare a prendere gli accorgimenti necessari per tornare in libertà. I passi successivi all’accettazione della manipolazione sono (Power, 2020):

  • Riconoscere la realtà, in questa fase occorre molta volontà per concentrarsi su se stessi, sulle proprie emozioni e desideri. È necessario differenziare ciò che è vero e ciò che il manipolatore vuol far credere che sia vero;

  • Ritirarsi dalle conversazioni, il manipolatore non accetta chi lo contraddice, di conseguenza una volta aperti gli occhi, è possibile che le conversazioni si trasformino in discussioni. In questo caso è opportuno lasciare la discussione in quanto il perverso non mollerà mai la presa e andare avanti procurerebbe solo danni;

  • Recuperare l’autostima, per farlo è fondamentale comprendere che le proprie azioni devono essere finalizzate al proprio appagamento e non a quello del partner;

  • Parlare con qualcuno, bisogna imparare a chiedere aiuto soprattutto per superare le situazioni più difficili.

Una volta conquistata la consapevolezza di essere stati manipolati, non si deve provare a far ragionare il manipolatore, cosa che accade spesso perché la vittima prova un sentimento di amore verso il carnefice. Invece, bisogna rinunciare ad ogni confronto e fuggire (Ibidem).

Gli strumenti che si possono utilizzare per la difesa dalla comunicazione persuasiva e manipolatoria sono molti e si differenziano per alcune dimensioni (Rizzuto e Schietroma, 2021): il coinvolgimento emotivo, l’empatia, il rispetto, la gestione del tempo, il controllo sulla persona, il controllo sulla relazione, gli obiettivi personali.

Il coinvolgimento emotivo, all’interno di una comunicazione di coppia, può essere correlato alla spontaneità della relazione oppure ad un regime di forte dipendenza e, di conseguenza, creare una deleteria confusione di ruoli. Uno degli effetti di questa confusione di ruoli è il ricatto affettivo, usato in modo manipolativo. Infatti, per scopo difensivo non si devono interiorizzare le accuse ingiustificate e i complimenti eccessivi o gratuiti effettuati dal manipolatore (Ibidem).

La gestione del tempo è un fondamentale strumento di difesa, in quanto il fermarsi a riflettere, fa rallentare anche l’altro e dà l’opportunità per capire più lucidamente una proposta, soprattutto se è stata posta in maniera aggressiva o urgente (Rizzuto, 2014; Rizzuto e Schietroma, 2021).

Il rispetto è un altro elemento chiave per la difesa, utilizzato dalla vittima per riconoscere nell’aggressore la responsabilità di tutte le azioni manipolatorie che compie. Inoltre, è fondamentale il rispetto di se stessi, ossia l’individuazione dei propri bisogni, diritti e delle proprie capacità per chiarire l‘attacco persuasivo evitandolo in modo costruttivo Molto importante è anche comprendere quando l’altro utilizza il locus of control esterno conferendo al di fuori di sé gli aspetti negativi e di controllo mentale sull’altro (Rizzuto e Schietroma, 2021).

Quando si parla di rispetto raramente questo si può separare, dal punto di vista comunicativo, da altri due concetti: l’empatia e la cordialità (Scilligo, 1991). Imparando ad usare l’empatia (altra dimensione) si può identificare la persona manipolatrice in un contesto comunicativo. Inoltre, fondamentale è il sorriso che permette di far abbassare le difese all’interno delle interazioni comunicative. Un altro elemento importante è la consapevolezza della distorsione del senso di pietà, della compassione. Infatti, la pietà può essere usata in modo empatico, comprendendo la situazione ma senza farsi imbrogliare (Rizzuto e Schietroma, 2021).

Per controllo sulla persona si intende l’importanza di mantenere l’autocontrollo e la padronanza delle situazioni di fronte ad un manipolatore. Alcuni aspetti da prendere in considerazione sono (Ibidem): rispondere in modo evasivo o parlare di altro quando le richieste o le domande del manipolatore diventano insistenti; evitare di assumere il ruolo di “salvatore” nei confronti del manipolatore; di fronte alle reali intenzioni del manipolatore, è efficace utilizzare frasi fatte o frasi corte, ciò permetterà di esercitare un po’ di potere nella relazione. L’uso di queste frasi costringe il perverso a contestualizzare il discorso e si troverà a rivelare i suoi fini (Rizzuto, 2014; Rizzuto e Schietroma, 2021).

Un’ulteriore dimensione è il controllo sulla relazione, in quanto una delle sensazioni più frequenti di chi è vittima di un attacco persuasivo è quello di non avere il controllo del rapporto. Per recuperarlo, per prima cosa, bisogna comprendere che tipo di persuasione sia in atto. È necessario fare domande per esigere spiegazioni, non importa quali perché è la domanda stessa che dà potere della situazione. Inoltre, è opportuno non rispondere alle domande poste in modo ambiguo dal manipolatore e imparare a rifiutare o farsi mettere per iscritto le richieste, quando possibile. Bisognerebbe, per di più, evitare di raccontare dettagli della propria vita, perché tutto ciò che si dice potrebbe essere utilizzato dal manipolatore per ferire (Ibidem).

Gli obiettivi personali sono l’ultima dimensione da cui trarre una difesa contro la comunicazione manipolatoria. Lo scopo è quello di orientare l’attenzione sui propri obiettivi di vita per crearsi una scala di priorità da utilizzare come strumento di verifica delle decisioni. Nel momento in cui tali obiettivi risultano chiari potranno agire come “avviamento” degli strumenti di difesa sopra citati. Infatti, dare voce ai propri obiettivi aiuta a rispettarsi e a porre le basi per richiedere agli altri di essere riconosciuti nel compimento della propria umanità (Ibidem).

Infine, Power (2020) afferma che per evitare di imbattersi in situazioni manipolative bisogna tenere conto del famoso sesto senso che è presente in ognuno. Questo vuol dire che ci si deve ascoltare attentamente, soprattutto quando si ha l’impressione di non essere a proprio agio in qualche situazione comunicativa. Bisogna, quindi, prestare attenzione alle emozioni e alle sensazioni che si provano verso la persona che si ha di fronte. Inoltre, può risultare utile anche la tecnica del vedere le cose da un’altra prospettiva, ovvero immaginare ciò che potrebbe pensare un osservatore esterno nel guardare una determinata situazione. Questa riflessione serve non tanto a capire l’atteggiamento di un possibile manipolatore ma come si risponde ai suoi stimoli.

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