La perversione affettiva del narcisista


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Il presente articolo si propone di esplorare e approfon­dire la personalità narcisistica e la relazione che la stessa sembra avere con la perversione affettiva. Ver­ranno analizzate la comunicazione perversa e la dipen­denza affettiva, sulla base dei più recenti studi, con l’intento di tracciare una linea di intervento psicologi­co efficace.

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Il termine “Narcisismo” deriva dal mito greco di un bellissimo fanciullo, Narciso, il quale, spec­chiatosi in un laghetto, era rimasto incantato e completamente rapito dalla sua stessa bellezza. Tale innamoramento era così forte da portarlo ad ignorare l’interesse e le avance della ninfa Eco, la quale, consumata dal dolore per il rifiuto subito, morì. Per antonomasia quindi con il nome dell’in­sensibile giovane si designa una persona egocen­trica, ripiegata solo su di sé ed incapace di amare e si conferisce il nome al corrente disturbo di per­sonalità con, tuttavia, una serie di confusioni ed imprecisioni circa il costrutto ed il significato del narcisismo nelle sue molteplici accezioni. In pri­mo luogo quelle che sono delle forme di autosti­ma non sono riferibili ad un quadro patologico, ma ad un narcisismo sano che esprime un’imma­gine del sé positiva che non preclude rapporti malsani con gli altri e non viene messo a repenta­glio in seguito ad un’esperienza negativa (Gab­bard, 2007, 41). Inoltre non tutte le manifestazioni narcisistiche rivelano questo senso di grandiosità o di spropositato egocentrismo cui si potrebbe pensare ma possono, invece, prendere forma tramite un’eccessiva sensibilità e chiusura in sé. A fronte di ciò si fa una distinzione tra un tipo di narcisismo più estrovertito che rivela un senso di grandiosità e fantasie di potere e di successo, tipo overt, ed un’altra tipologia (covert), invece, molto più tendente alla chiusura che indica, al contrario, un senso di inferiorità che cela sentimenti di vergogna e fragilità nel tentativo continuo di ricercare potere e gloria (Cooper, 2001, 53-60).

Per comprendere a fondo tale quadro di personali­tà e le sue modalità interpersonali, risulta opportu­no indicare i criteri diagnostici che il DSM – 5 ha riportato per orientare la diagnosi. In primis la de­scrizione che ne offre è quella di un pattern perva­sivo di grandiosità (nella fantasia o nel comporta­mento), bisogno di ammirazione ed assenza di empatia, presente in svariati contesti e con esordio nella prima età adulta, secondo i seguenti criteri (APA, 2014, 775-776):

  • senso grandioso di importanza (per es. esagera risultati e talenti, si aspetta di es­sere considerato/a superiore senza un’ade­guata motivazione);

  • è’ assorbito/a da fantasie di successo, pote­re, fascino, bellezza illimitati, o di amore ideale;

  • crede di essere “speciale” e unico/a e di poter essere capito/a solo da, o di dover frequentare, altre persone (o istituzioni) speciali o di classe sociale elevata;

  • richiede eccessiva ammirazione;

  • ha un senso di diritto (cioè l’irragionevole aspettativa di speciali trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative);

  • sfrutta i rapporti interpersonali (cioè ap­profitta delle altre persone per i propri scopi);

  • manca di empatia: è incapace di riconosce­re o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri;

  • è spesso invidioso/a degli altri o crede che gli altri lo/a invidino;

  • mostra comportamenti o atteggiamenti ar­roganti, presuntuosi.

Dunque da quanto emerge da tali criteri, tale indi­viduo all’interno dei propri rapporti interpersonali si mostra incapace di entrare in contatto affettivo ed empatico con il prossimo, in quanto l’altro e la relazione con esso, altro non sono che un modo tramite cui rispecchiare la propria grandiosità ed il proprio bisogno di riconoscimento. Infatti la scel­ta delle amicizie si basa proprio sulla possibilità di favorire i propri propositi abusando apertamen­te di tali rapporti, svalutando i bisogni e le debo­lezze altrui e mostrando una certa freddezza emo­tiva (APA, 2014, 776-777).

Tuttavia, per quanto una classificazione diagno­stica sia importante e vantaggiosa per la compren­sione di tale quadro patologico, essa non è esente da limitazioni. Il vincolo più importante è rappre­sentato dal fatto che la descrizione offertaci dal DSM sembra considerare solo gli aspetti del nar­cisista overt, decisamente più manifesti ed aggres­sivi, tralasciando altri aspetti quali ipersensibilità e fragilità dell’immagine di sé, tipici, invece, del tipo covert. Inoltre bisogna considerare il proble­ma della comorbilità con altri disturbi di persona­lità (borderline, istrionico, ecc.). Tale comorbilità non si riscontra solo in disturbi dello stesso clu­ster B ma anche in cluster differenti (Morey, in Lingiardi, 2014, 407-408). La presente questione però non è ascrivibile solo ai disturbi di personali­tà ma si riconduce anche ad altre manifestazioni patologiche, appartenenti all’ormai tramontato Asse I. Vi sono tra questi, per esempio, depressio­ne maggiore, disturbo da uso di sostanze, disturbi dell’alimentazione e così via (Ronningstam, 2001, 313-318). Nonostante la presenza di numerosi studi circa le correlazioni tra NPD e tali disturbi sono emerse comunque alcune discrepanze. In­nanzitutto la presenza di un disturbo specifico, per es. nell’alimentazione o nell’abuso di sostanze, rende più probabile la diagnosi di NPD così come, al contrario, un NPD implica automatica­mente una comorbilità specifica con tali manife­stazioni patologiche; dunque questo sottolinea maggiormente le interazioni complesse tra il nar­cisismo patologico e sindromi specifiche (Ron­ningstam, 2001, 319).

Rispetto a tali questioni e tematiche è importante e risulta doveroso, ai fini di un assessment più esaustivo e completo, comprendere non solo le espressioni manifeste del Narcisismo ma cogliere anche quelli che sono i suoi meccanismi più insiti e reconditi, abbandonando un approccio mera­mente fenomenologico per vagliare invece una di­mensione integrata e dalle molteplici sfaccettature di tale disturbo.

Narcisismo ed interpretazioni teoriche

Significativo è stato il contributo delle teorie psi­codinamiche riguardo la comprensione dell’ezio­logia, degli elementi costitutivi e di possibili dise­gni di intervento rispetto al Narcisismo. Già il pa­dre della psicanalisi, Freud (1974, 112-124), ave­va accennato a forme di Narcisismo primario e se­condario ma in linea di massima per indicare ed interpretare il ripiegamento su di sé nell’investi­mento omosessuale e descrivere alcuni aspetti dello sviluppo psico-sessuale del bambino. Chi appianò tale questione in modo più approfondito furono generalmente Kernberg (2008; 2010) e Kohut (1976) i quali si ricondussero ad osserva­zioni, esperienze cliniche con pazienti affetti da tale configurazione.

Kernberg, innanzitutto, riconosce l’esistenza del narcisismo normale, il quale consiste nell’integra­zione equilibrata tra l’immagine del Sé e quella delle relazioni oggettuali in modo maturo e adul­to. Allo stesso tempo, l’autore individua un narci­sismo patologico collocabile lungo un continuum a seconda del livello di gravità. Vi sono precisa­mente tre categorie di narcisismo patologico:

  1. Vi è una prima manifestazione in cui l’attivazione di conflitti basati sull’aggressività, con i mec­canismi della regressione o fissazione ai con­flitti infantili legati ad un Sé ben integrato, costituisce un’intensa fonte di frustrazione e minaccia al narcisismo normale (Kernberg, 2008, 328).

  2. Vi è un secondo tipo decisamente più grave che rileva la presenza di un Sé grandioso patolo­gico. Esso si riferisce a quegli individui che si identificano con un oggetto e amano un og­getto che rappresenta il loro Sé (Kernberg, 2008, 328). Dunque questo è proprio di chi ama una persona nella misura in cui vorrebbe essere amato; è chiaro il bisogno continuo di riconoscimento e di certezze da parte dell’e­sterno. Tale tipologia di paziente, inoltre, im­pronta le proprie relazioni secondo modalità parassitarie e tendenti allo sfruttamento (Kernberg, 2010, 222).

  3. Vi è poi la sindrome patologica narcisistica vera e propria. Qui fondamentalmente il rapporto si riduce tra il Sé ed il Sé, nel senso che la rela­zione narcisistica ha sostituito quella ogget­tuale (Kernberg, 2008, 330). Essa rappresenta la situazione di quei casi al limite della realtà che fanno degli impulsi le loro modalità af­fettive e relazionali. In questi pazienti la grandiosità e l’autoidealizzazione patologica sono rinforzate dal senso di trionfo sulla pau­ra e sul dolore, il tutto espresso tramite l’irro­gazione del dolore e della paura agli altri e tramite l’uso del piacere sadico, derivato dal­l’aggressività e dalle manifestazioni pulsiona­li sessuali, per accrescere il proprio livello di autostima (Kernberg, 2010, 224). Dunque i tratti patologici essenziali dei pazienti con tale disturbo si riferiscono rispettivamente al­l’amore di sé patologico, all’amore oggettuale patologico e al Super-Io patologico (Kern­berg, 2001, 39).

Diversi e disparati furono gli studi e le prospettive di Kohut. Ispiratosi agli studi di Freud, egli portò alla luce dei nuovi spunti per l’approccio al narci­sismo tramite, in modo particolare, l’osservazione e l’analisi accurata del transfert nelle relazioni terapeutiche; infatti egli notò che il modo di porsi dei pazienti, le loro forme relazionali con annesse richieste ed aspettative celassero delle concezioni dell’altro/oggetto come funzione e strumento per plasmare, invece, l’immagine del sé, concezioni radicatesi durante il percorso di crescita e tramite le prime esperienze infantili. Nello specifico egli individuò tre tipi di traslazione:

    1. traslazione speculare, che ha vita quando l’altro viene percepito come un prolungamento ed un’estensione del Sé grandioso; infatti la re­lazione diventa strumentale al mantenimen­to della propria immagine, un rispecchia­mento di essa nel tentativo costante di con­ferirle sicurezza.

    2. Traslazione idealizzante; rispetto a ciò, Kohut (1976, 45) sostiene che la perfezione narci­sistica presente nello sviluppo del bambino viene spostata sull’altro, sull’oggetto; la sua idealizzazione infatti rende la persona vuota ed impotente quando è separata da esso, spingendola a ricercare costantemente il suo contatto. Dunque l’altro in relazione viene inteso come essere perfetto ed ineguagliabi­le ed il narcisista si sente fortemente legato ad esso; se prima l’altro era lo specchio del sé, ora quest’ultimo diventa lo specchio del­l’altro in un rapporto in cui quest’ultimo in­carna quelle che sono le proprie fantasie di perfezione. Bisogna chiarire che l’idealizza­zione della relazione (in primis quella pa­rentale), è fondamentale per il nostro svi­luppo, ma se non viene superata con l’accet­tazione del reale, può creare aree di vulnerabilità.

    3. Traslazione gemellare o alteregoico; tale denomi­nazione deriva dal fatto che la persona per­cepisce l’oggetto/altro come simile a lui, un suo alter ego e che tale omogeneità, che essa pretende e sostiene, altro non è che un modo per confermare il proprio essere.

Un importante contributo di tale autore, in ultima analisi è il concetto della rabbia narcisistica: Ko­hut (2002, 142-144), infatti, sostiene che essa non solo si manifesti con collera e attacchi irruenti ma anche con chiusura e vergogna, in quanto tale rab­bia è il risultato di ferite narcisistiche che si stabi­liscono nell’individuo ogniqualvolta egli si sente attaccato.

Successivamente allo sviluppo di varie teorie ed approcci di stampo psicodinamico, ulteriori studi presero avvio rispetto al disturbo narcisistico, tra questi il modello relativo all’orientamento cogniti­vo.

Alla luce dell’approccio cognitivista contempora­neo, Semerari e Dimaggio interpretano la psicopatologia come un insieme di contenuti e processi disfunzionali e distorti circa le rappresen­tazioni degli stati mentali propri e altrui, che in­fluenzano radicalmente l’approccio all’ambiente, alla realtà, alla vita. Rispetto al disturbo narcisisti­co, gli autori, pur riconoscendo la presenza di sen­timenti di grandiosità e di pienezza di sé, eviden­ziano come esso tenda ad esprimersi tramite una vaga insoddisfazione ed insofferenza, sintomi an­siosi e distacco, il tutto metaforicamente parago­nato a un arroccamento e ritiro dell’uomo in una torre solitaria la cui chiave di accesso è stata get­tata via (Dimaggio, Semerari, 2007, 162). Il di­stacco menzionato rivela una tendenza, da parte del narcisista, di tenersi alla larga dai suoi stati emozionali, in quanto erroneamente intesi come segno di debolezzad. Nel mondo del narcisista non è permesso essere fragili e poter esprimere liberamente questo aspetto di sé e, dunque, mere spiegazioni e giustificazioni astratte, prive di un reale riferimento alla realtà, prendono il sopravvento sulla percezione della reale natura delle cose. In modo specifico quegli stati interni a cui i narcisisti hanno scarso accesso sono quelle emozioni legate all’attivazione del sistema di attaccamento e i desideri non integrati nell’immagine grandiosa di sé, desideri, scopi, obiettivi che se irrinunciabili, rendono il soggetto schiacciato, oppresso (Dimaggio, Semerari, 2007, 163). I due autori hanno individuato quattro tipologie di stati mentali associabili al NPD che sono rispettivamente:

  1. Stato grandioso: in esso i costrutti ed i con­tenuti del pensiero sono prevalentemente le­gati al senso di grandiosità, autosufficienza, dominio sul mondo e di non appartenenza ad un gruppo;

  2. Stato depresso/terrifico: qui i domini centrali riguardano il senso di fallimento, di rifiuto, minaccia, sconfitta, auto-svalutazione in cui le configurazioni emozionali rispecchiano vergogna, paura, tristezza, nostalgia del “pa­radiso perduto”;

  3. Stato di vuoto devitalizzato: in tale condizio­ne, la consapevolezza emotiva è spenta su qualsiasi fronte in cui vi è il dominio di sen­sazioni quali la freddezza, il distacco, la lon­tananza dall’altrui e dalla propria esperienza interiore; tali percezioni non si configurano come spiacevoli ma piuttosto come un modo per sottrarsi alla fluttuazione della propria autostima;

  4. Stato di transizione: esso si attiva quando la persona sente minacciati quegli obiettivi che fondano l’autostima, portandolo a provare rabbia, ad essere auto/etero-aggressivo e a ricercare negli altri la causa dei suoi falli­menti; inoltre peculiarità di tale stato è l’at­teggiamento seduttivo, l’uso di sostanze e l’i­per-lavoro per ripristinare il proprio prestigio ((Dimaggio, Semerari, 2007, 166-168).

Alla strenua di quanto detto, il narcisista, nel con­fronto ed incontro con l’altro, combatte i rischi dell’intimità tramite l’evitamento, l’annichilimento emotivo che annulla qualunque possibilità di esse­re rifiutati, in quanto ciò è considerato inaccetta­bile.

In vista di una visione più ampia ed approfondita delle teorie di personalità, risulta opportuno indi­care i modelli interpersonali, di cui A. L. Pincus costituisce un rappresentante importante; egli, in­fatti, rappresenta un promotore della teoria inter­personale integrata contemporanea (CIIT) della personalità, che interpreta la patologia ed i distur­bi come una disfunzione interpersonale cronica ri­collegabile a problemi con il sé e l’identità. Le si­tuazioni interpersonali sono lo specchio e lo spa­zio di prova della persona nell’espressione del suo modo di vivere e rapportarsi alla vita, nel conti­nuo processo di regolazione della propria parven­za e di organizzazione delle proprie esperienze con gli altri. Rispetto al Narcisismo le ricerche e le applicazioni empiriche di Pincus hanno portato al riconoscimento di una duplice manifestazione patologica, due stili di personalità narcisistica che sono rispettivamente quello grandioso e quello vulnerabile (Pincus, Lukowitski, 2009; Pincus, Dickinson, 2003). Entrambe le manifestazioni im­plicano processi intrapsichici peculiari e com­portamenti interpersonali ben definiti. I processi intrapsichici includono la repressione delle diffi­coltà di auto-regolazione e di quelle rappresenta­zioni che smentiscono la propria immagine, di­storcendo le informazioni esterne; l’espressione comportamentale implica, invece, lo sfruttamento interpersonale, la mancanza di empatia ed una forma intensa di invidia (Pincus, Lukowitsky, 2009, 426-427). Tali aspetti implicano due ele­menti centrali nella configurazione narcisistica che sono il diritto a pretendere consenso ed indi­viduazione della propria preminenza sugli altri e lo sfruttamento dell’altro, che avviene in modo del tutto camuffato e celato da un’apparente funziona­lità nei rapporti sociali; ciò comporta un depaupe­ramento nelle relazioni, che designa le proprie fantasie di potere e di prevaricazione. La configu­razione narcisistica grandiosa implica una tenden­za all’esibizionismo, la ricerca di attenzioni e le difficoltà nello sviluppo di atteggiamenti di empa­tia nei confronti degli altri; inoltre gli individui con tale manifestazione tendono ad avere delle difficoltà interpersonali vincolate a tendenze ven­dicative, prepotenti e calcolatrici (Pincus, Dickin­son, 2003, 200). Rispetto alla configurazione dei narcisisti vulnerabili, vi sono una serie di diver­genze: la prima è relativa ai rapporti interpersona­li ossia alla difficoltà consapevole che riscontrano all’interno delle loro relazioni; infatti è chiara la loro mancanza di fiducia nella capacità di avviare e mantenere relazioni sociali, nella paura di essere delusi e nella vergogna che manifestano nell’e­spressione dei loro bisogni all’interno dei rapporti con gli altri (Pincus, 2003, 201). In un certo senso questa percezione e questa diffidenza che sentono li portano a sentirsi autorizzati a basare le loro modalità relazionali sullo sfruttamento. Un’analogia con le forme grandiose di narcisismo è rintracciabile nei comportamenti vendicativi e prepotenti che implicano il tentativo continuo di far fronte alle proprie difficoltà di auto-regolazione.

Nel tentativo difensivo di tutelare la propria auto­stima, questa tipologia di narcisisti tende essen­zialmente ad attuare delle condotte di evitamento del prossimo, di eludere un contatto troppo mi­naccioso che rischia di contro-bilanciare la perce­zione già fragile del sé.

Nonostante tale distinzione, Pincus tuttavia, espri­me (2009, 423) il suo dissenso nella distinzione delle forme narcisistiche di tipo overt e covert ol­tre che di altre forme tassonomiche, in quanto tali aspetti precludono il fatto che il Narcisismo possa assumere delle connotazioni dicotomiche che non colgono la relatività di qualunque situazione, mo­dalità interpersonale e possibilità d’azione dell’in­dividuo. Il narcisismo in sé per sé comprende sia un senso occulto di grandiosità sia una vulnerabi­lità tacita o palese.

Infine può risultare utile evidenziare alcuni aspetti dei modelli integrati, citando alcuni esponenti quali T. Millon, promotore del modello bio-psico-sociale e Young, leader del modello dello Schema – Therapy. Il modello proposto da Millon (1990, 47), vede l’integrazione di tre polarità (soggetto/oggetto; piacere/dolore; attivo/passivo): la prima si riferisce a tutte quelle azioni e piani che l’individuo attua verso se stesso e/o verso l’al­tro; la seconda, invece, è legata agli scopi dei pia­ni esistenziali dell’uomo i quali vertono verso il controllo del piacere e l’evitamento del dolore; l’ultima, infine, rispecchia il ruolo che l’individuo assume nel suo contatto, interazione e scambio continuo con l’ambiente d’appartenenza. Rispetto al Narcisismo l’autore ha individuato 5 sottotipi di personalità narcisistiche:

1. Narcisista normale: tale individuo mostra una buona autostima che lo porta ad essere ambizioso, mostrando comunque sempre una certa preoccu­pazione sociale ed empatia interpersonale che lo estromettono da tendenze sfruttatrici tipiche delle personalità narcisistiche;

2. Narcisista senza scrupoli: tale configurazione è propria di quei narcisisti che presentano un senso arrogante del proprio valore, di indifferenza nei confronti degli altri sui quali tendono a voler pre­varicare per sfruttarli;

3. Narcisista amoroso: la tendenza dominante in tale sottotipo è di tipo erotico e seduttivo in cui si attira l’altro per rinforzare il proprio valore in un gioco di tentazione sessuale;

4. Narcisista compensatorio. A differenza degli altri, tale sottotipo presenta dei comportamenti narcisistici per celare un senso di insicurezza e debolezza; dunque tali tendenze risultano com­pensatorie in quanto sono orientate a riparare le proprie ferite e le proprie mancanze;

5. Narcisista elitario. Tale configurazione risulta molto più tendente all’ideazione rispetto a quella compensatoria: il sé ideale ed il sé reale si mesco­lano e allontanano il soggetto dalla consapevolez­za degli inganni auto-inflitti in cui l’apparenza del mondo diventa realtà concreta e oggettiva (Mil­lon, 1996, 408 – 412).

Dunque, anche nelle teorizzazioni di Millon, vi sono delle analogie con le forme prototipiche di narcisismo analizzate dai precedenti approcci. In ogni caso è chiaro che lo sguardo clinico deve ab­bandonare quella che è l’idea circoscritta di criteri, manifestazioni sindromiche omogenee nei vari pattern di personalità patologiche e non, in quanto essi possono rivelare differenze significative da persona a persona ed avere espressioni diversificate e dalle molteplici entità.

Infine lo Schema Therapy nasce dall’esigenza di ampliare la terapia cognitivo-comportamentale nel trattamento dei disturbi di personalità, pre­stando attenzione all’analisi delle diverse fasi del­lo sviluppo della patologia, alla sfera emotiva, alla relazione terapeutica e alle modalità di coping di­sfunzionali (Young et al., 2007, 3-5). Il concetto di schema, già riscontrato nelle teorie cognitive, si ricollega a quei costrutti inerenti alla visione di se stessi e della realtà circostante, strutture cognitive che prendono avvio già dalle nostre esperienze in­fantili; ognuno di noi, infatti, a seconda del pro­prio vissuto, delle esperienze, delle influenze am­bientali o peculiarità tende a costruire un proprio schema tramite cui conferisce senso alla propria vita. Tale schema, inoltre, si configura in una serie di meccanismi e processi, ossia modalità di co­ping che sono quelle strategie specifiche e com­portamenti attuati da ognuno di noi in situazioni percepite come pericolose (Young et al., 2007, 36). Un aspetto centrale in tale modello è quello di mode, il quale corrisponde all’insieme di stati emotivi e risposte di coping. Esso si può rivelare disfunzionale quando coinvolge schemi o risposte di coping maladattivi e si esprimono sotto forma di emozioni negative, comportamenti autodistrut­tivi i quali, influenzando la risposta dell’individuo, agiscono sul suo funzionamento emotivo e com­portamentale (Young et al., 2007, 40). Essi sono delle modalità tramite cui il soggetto attiva una serie di schemi, processi o meccanismi, affronta determinate circostanze e che assumono moltepli­ci denotazioni a seconda della situazione. Rispetto ad esso vediamo come il narcisista sia portato ad assumere dei mode specifici e ben radicati. Essi sono essenzialmente di 10 tipologie appartenenti a 4 categorie principali (Young et al., 2007, 43-47):

1. il Bambino;

2. mode di Coping disfunzionale;

3. mode di Genitore disfunzionale;

4. mode di Adulto funzionale.

Secondo l’autore tale tipologia di paziente presen­ta, escludendo quello funzionale, 3 mode che sono rispettivamente (Young et al., 2007, 415-421):

1. Il bambino solo, che si attiva quando i suoi bi­sogni emotivi rimangono insoddisfatti;

2. il Presuntuoso, che indica in tentativo compen­satorio di far fronte alla sua inadeguatezza tramite la deprivazione emotiva;

3. il Consolatore distaccato che implica la tenden­za ad evitare il dolore associato al bambino solo.

Il primo implica la tendenza, da parte di tali per­sonalità, di sentirsi deprivato, distante dagli altri. In questo senso predomina la convinzione di sen­tirsi poco apprezzati e amati dagli altri; tale aspet­to si riconduce al fatto che le proprie capacità, il proprio valore, non vengono adeguatamente rico­nosciuti, facendo inevitabilmente scaturire nel soggetto la percezione di umiliazione, solitudine e abbandono.

Il secondo implica quelle strategie di coping orientate alla compensazione, nel senso che, di fronte ai sentimenti e alle conseguenze della de­privazione emotiva, inadeguatezza, criticismo, umiliazione e fallimento, il soggetto tende ad uti­lizzare il suo senso di grandiosità rispetto agli al­tri. Egli in modo del tutto difensivo tende a ma­scherare la sua fragilità e sensibilità alle insolven­ze. Quando i narcisisti si trovano in questo mode adottano generalmente tali stili di coping (Young et al., 2007, 419):

  • aggressività e ostilità;

  • dominanza ed eccessiva auto-affermazio­ne;

  • ricerca di ammirazione e status;

  • manipolazione e sfruttamento.

Il terzo mode, invece, dal momento che è legato al bambino solo, assolve allo scopo di rimunerare quel senso di vuoto, di solitudine che emerge quando la persona percepisce la distanza tra sé e gli altri. Inoltre in tale modello i vari autori hanno individuato (2007, 423-426) quattro fattori che possono generalmente caratterizzare l’ambiente familiare entro il quale crescono gli individui che presentano tale configurazione patologica, che sono principalmente:

1. solitudine ed isolamento: esperienze pre­gresse di deprivazione emotiva in cui le fi­gure genitoriali sono state poco affettuose ed empatiche;

2. limiti insufficienti: infanzia dominata da po­che regole ed eccessiva permissività da parte dei genitori non, però, nei bisogni emotivi;

3. sfruttamento e manipolazione: ambiente abusante in cui sono stati sfruttati per far fronte ai bisogni genitoriali;

4. approvazione condizionata al posto di amore e affetto disinteressato ed autentico.

In un certo senso ciò che viene avvertito è lo stato di inadeguatezza e di imperfezione determinato dal fallimento delle richieste di ammirazione ed è proprio questo che avvia nel narcisista il continuo pensiero dicotomico e disfunzionale secondo cui l’approvazione si traduce in valore e la disappro­vazione, invece, in un totale ed insostenibile smacco.

Il perverso narcisista o aggressore

Nella delineazione delle peculiarità che sottendo­no la perversione relazionale e la configurazione narcisistica si sono già analizzati alcuni aspetti. Tuttavia risulta importante approfondire ulterior­mente i suoi molteplici aspetti, in vista della pos­sibilità di riconoscerli nella propria quotidianità.

CARATTERISTICHE

Riprendendo l’analisi mossa da Hirigoyen (2000, 136-144), vi sono varie forme tramite cui si espri­me la perversione del narcisista; esse sono la me­galomania, la vampirizzazione, l’irresponsabilità e la paranoia.

I perversi narcisisti sono degli esseri me­galomani,. Sono poco interessati ed empatici nei confronti degli altri, ma, allo stesso tempo, pre­tendono attenzioni, credendo che tutto gli sia do­vuto (Hirigoyen, 2000, 136). Il perverso narcisista è ben inserito nella società, è brillante e rispettabi­le, dimostra apparentemente di possedere valori morali ed autostima. La sua prima forma di mani­polazione consiste nel mostrare quello che non è (Morelli, Couderc, 2014, 84-86). E’ chiaro, dun­que, come egli costruisca un falso sé. Ciò che at­tua è un processo di seduzione verso il prossimo. Tale processo solitamente interviene nello svilup­po di alcune relazioni. In esso, infatti, si mettono in atto una serie di codici sociali e culturali che implicano il tentativo di farsi piacere dall’altro mostrando quello che è il proprio lato migliore, come è normale e legittimo che sia all’inizio di un rapporto (Nazare-Aga, 2008, 22). Ma la seduzione del perverso si distingue sia per il suo fine, il quale è quello di subordinare, sia per quello che mostra, in quanto non si tratta di enfatizzare le proprie qualità ma di mostrare una falsa identità.

Vi è poi la vampirizzazione. Con tale termine si vuole evidenziare come il perverso si serve del narcisismo dell’altro (si parla in questo caso del narcisismo sano), della sua energia, della sua au­tostima per alimentarsi, per mantenere integra la propria identità. Dunque il partner esiste non in quanto essere umano ma come sussidio. La per­versione di tale meccanismo sta nel tentativo di evitare, rinnegare la propria sensazione di vuoto tramite la relazione con l’altro (Hirigoyen, 2000, 138). Ciò che muove il perverso nello scalfire l’autostima e la fiducia in sé del partner è l’invidia che esso nutre per il suo senso di integrità e quali­tà. Infatti nella maggior parte dei casi i perversi scelgono le loro vittime tra individui pieni di energia, che hanno gioia di vivere, come se voles­sero accaparrarsi un po’ della loro forza, appro­priandosi delle loro qualità morali (Hirigoyen, 2000, 140-141). Quindi l’unico motivo che spinge il perverso a costruire un legame si innesta nella misura in cui l’altro, oltre a rispecchiare la propria grandiosità, possa soddisfare i tentativi di risanare la propria vulnerabilità, le proprie manchevolezze.

Un altro aspetto è l’irresponsabilità che è ricon­ducibile alla colpevolizzazione che si attua nelle varie espressioni della violenza psicologica. Nella formazione della propria personalità, la responsa­bilità corrisponde ad un processo di progressiva interiorizzazione delle esperienze, che porta con sé un vincolo più circoscritto ed esigente sotto forma di coscienza morale, ma, allo stesso tempo, una maggiore autonomia della personalità rispetto alle credenze, usi, costumi della propria cultura o gruppo d’appartenenza (Filippini, 2006, 338). La colpevolizzazione che opera il narcisista altro non è che lo svuotamento del significato intrinseco di tale costrutto e la rivelazione della propria vacuità. Tramite meccanismi di proiezione i narcisisti addossano al prossimo ogni loro difficoltà e ogni loro fallimento eludendo il dolore psichico e trasformandolo in negatività (Hirigoyen, 2000, 142). Il narcisista, essendo molto sensibile alle critiche, ai fallimenti, non potrà mai accettare di essere agente indiscusso e diretto di essi; di conseguenza l’attribuzione causale è esterna poiché rappresenta una minaccia incombente alla propria integrità. Si rende, insomma, la relazione perversa un luogo sicuro entro cui poter controllare e dirigere affetti e dinamiche relazionali. Tendono a sollecitare negli altri il rifiuto perché ciò li rassicura circa il corso degli eventi e della vita secondo i loro piani e previsioni, ma nel momento in cui un legame si conclude, vanno alla ricerca di un altro rapporto che possa fornire loro il sostegno di cui necessitano (Hirigoyen, 2000, 142).

Vi è poi la paranoia. Ciò che, però, distingue un narcisista da un paranoico vero e proprio è il fatto che il perverso narcisista tende a raggirare gli altri utilizzando la seduzione a differenza del paranoi­co che, invece, utilizza la forza; l’obiettivo intrin­seco è la distruzione dell’altro in quanto potenzia­le minaccia; infatti, proiettare tutto il male su qualcun altro consente loro di essere migliori nel susseguirsi della loro esistenza garantendo quindi una relativa stabilità (Hirigoyen, 2000, 144).

Un altro aspetto che bisogna prendere in conside­razione nel focus sulla dinamica di coppia ricade nella sfera della sessualità, in quanto componente importante e profondamente intima nella costru­zione di un rapporto. Dal momento che il perverso mira a rispecchiarsi completamente nel­l’altro, nella vita sessuale il suo primo obiettivo è quello di essere considerato un bravo amante; è chiaro che ciò dimostra come il perseguimento del piacere sessuale dell’altro sia finalizzato ad una sorta di soddisfazione personale, una conferma delle proprie “doti” (Morelli, Couderc, 2014, 107). Dunque anche tale momento di condivisio­ne diventa per il narcisista un’esperienza di isola­mento, un’estraniazione psico-fisica proiettata verso il pensiero continuo e quasi ossessivo di do­ver piacere, di essere e dimostrare la propria per­fezione. Altre connotazioni della vita sessuale di un perverso narcisista riguardano la tendenza ed il desiderio di spingersi oltre i limiti possibili di una sessualità “tradizionale”, chiedendo al partner di fare nuove esperienze. Da qui la strada può essere spianata verso una sessualità che comincia a di­ventare sempre più distorta, meno irrispettosa e più improntata sull’ egoismo. Nella sessualità il modello dominatore-dominato è molto frequente nelle coppie (Nazare-Aga, 2008, 75). Date le de­scrizioni precedenti, risulta facile comprendere come il perverso tenda, quindi, ad assumere il ruolo di dominante, ma egli, attuando modalità re­lazionali sovversive, può anche rivestire il ruolo di dominato, aspetto che sottolinea ulteriormente come sia lui stesso a stabilire il ruolo, lo stile e il corso dei rapporti sessuali.

Come già accennato prima non esiste solo un nar­cisismo al maschile. I meccanismi di dominio e di controllo, la violenza delle donne nei confronti degli uomini, però, è meno denunciata; questo po­trebbe essere associato ad alcune motivazioni: una è riferibile al fatto che il maltrattamento subito dall’uomo è vissuto con più vergogna, mentre un’altra è essenzialmente che gli uomini vittime riescono a sbarazzarsi più facilmente della relazione e a trovare maggiori risorse esterne (per esempio materiali) (Hirigoyen, 2006, 114-118). Nonostante i meccanismi perversi e sovversivi possano essere adoperati sia da uomini che donne narcisiste esistono alcune differenze. Nel narcisismo femminile patologico vi è una tendenza all’ideazione persecutoria che porta con sé continui conflitti e rotture motivate dall’ingratitudine e cattiveria degli altri; ella si impegna in un incessante invischiamento con il compagno nella pretesa di cambiarlo completamente, evidenziando il suo senso di inadeguatezza ed innescando, così la sua dipendenza affettiva (Secci, 2014, 58-59).

LA COMUNICAZIONE PERVERSA

Oltre allo sfruttamento affettivo che opera il per­verso nel monopolio della relazione, altro stru­mento d’impatto è senza dubbio la comunicazio­ne. Essa rivela ulteriormente la distorsione della realtà che il perverso ha, opera ed infligge. Innan­zitutto è fondamentale cogliere e far presente un elemento centrale: il perverso relazionale non co­munica, si limita ad alludere e rifiuta ogni scam­bio autentico in quanto esso costituisce un veicolo che racchiude in sé contenuti emotivi potenzial­mente pericolosi e disorganizzanti (Guerrini del­l’Innocenti, 2011, 7). Lo sviamento di un argo­mento o di una questione, la negazione del rim­provero o del conflitto, l’aggressione verbale, sono tutti aspetti rappresentativi di tale rifiuto che, implicitamente, esprime la negazione dell’altro, del suo diritto di esprimersi nonché della sua esi­stenza (Hirigoyen, 2000, 104). In maniera analoga Nazare Aga riporta (2008, 112) alcuni esempi che indicano la tendenza dei manipolatori narcisisti ad evitare le discussioni:

  • evita qualsiasi confronto;

  • non si presenta ad un appuntamento anche se ha promesso di venire;

  • interrompe bruscamente una conversazio­ne;

  • mette il broncio prima che il discorso sia terminato e, per colpevolizzare, dice all’altro che ne conosce il motivo.

Di fronte ad una discussione autentica invece:

  • cambia argomento;

  • quando l’interlocutore si innervosisce dice frasi inaspettate come “sei bella quanto ti arrabbi”;

  • interpreta;

  • proietta ossia accusa l’altro di avere un comportamento o un’intenzione che in realtà corrisponde ai suoi comportamenti e alle sue intenzioni (per es. accusa l’altro di avere un amante quando desidera una rela­zione extraconiugale).

Gli esempi continuano e sono svariati. Tutti impli­cano l’assenza totale di qualsiasi forma di rispetto nei confronti della relazione e del partner.

Il perverso, quando comunica con la sua vittima. ha una voce fredda, incolore e piatta, utilizza mes­saggi vaghi ed imprecisi, non termina le frasi co­sicché possa aprire la strada ad una serie di inter­pretazioni e malintesi (Hirigoyen, 2000, 105-107).

L’utilizzo di un tono neutro anche durante le di­scussioni può creare ulteriori forme di confusione in quanto, in modo manipolativo e sotteso, sottoli­nea e crea un’ulteriore distanza tra sé e l’al­tro, implica la negazione di un’effettiva questione. Un altro espediente verbale del perverso è l’uso di un linguaggio tecnico, astratto, dogmatico che coinvolga l’altro in ragionamenti ambigui, poco comprensivi (ibidem). Tali manovre, oltre a raggi­rare i conflitti, sono un tentativo indiretto ed estremamente sottile di insinuare il dubbio nell’al­tro circa le proprie facoltà di comprendere il con­fronto e le sue parole e, dunque, di affermare la propria superiorità. La comunicazione perversa si basa sulle menzogne. Esse non sono dirette in modo tale da renderle difficilmente imputabili. Tali mezzi indiretti destabilizzano la persona e la portano a dubitare che quanto è appena successo sia accaduto davvero (Hirigoyen, 2000, 109). Un aspetto analogo è l’utilizzo della menzogna per sa­pere, invece, la verità. Essa consiste nel trasfor­mare una supposizione in affermazione o di fare una domanda che prevede un elemento sbagliato (Nazare-Aga, 2008, 115). Questa tecnica indica la sistematicità con cui il narcisista manipola il rap­porto, le parole e la realtà. Altro elemento predo­minante è l’uso del sarcasmo, della derisione e del disprezzo. Il narcisista, disprezzandosi profonda­mente, proietta anche verbalmente e direttamente sull’altro tale suo svilimento in modo tale da ri­durre il suo disagio e conflitto interiore. Il con­fronto verbale con un perverso deve considerare un altro punto cruciale: l’uso del paradosso, quali, per esempio, l’espressione di un contenuto a livel­lo verbale ed uno completamente opposto ed av­verso a livello non verbale. Già con le teorie di Bateson circa l’impiego di tale distorsione si sono analizzati gli effetti devastanti di tale misura co­municativa nel contesto familiare in grado di por­tare, addirittura allo scompenso psicotico. Si im­magini quanto questo, all’interno di una relazione possa essere altamente destabilizzante e avvilente.

La vittima

Quando si parla di violenze e abusi di qualunque tipo e quando si viene a conoscenza di certe real­tà, l’opinione pubblica fa presto a pensare che chi si trova in certe situazioni è perché se l’è andata a cercare (Ponzio, 2004, 23). Tale preconcetto ri­manda e si confonde con la questione del maso­chismo. Già Freud aveva parlato (1974, 110) di masochismo in senso morale che consiste nella ri­cerca intenzionale della sofferenza per rispondere al proprio desiderio di espiazione; il masochista non solo gode dei suoi dolori e sofferenza ma se ne lamenta continuamente. Tuttavia ci sono alcuni motivi che escludono tale intepretazione dall’ana­lisi del profilo della vittima che si intende offrire in tale trattazione. Nazare – Aga ha evidenziato (2008, 109-110) alcuni aspetti che escludono il meccanismo masochistico:

  • la maggior parte delle vittime lascia il pro­prio carnefice anche se ciò non significa che chi resta è un masochista;

  • vi è un senso di liberazione da parte di chi si è svincolato da questa relazione;

  • alcuni intraprendono un legame più co­struttivo e riacquistano fiducia in se stessi;

  • la fase di seduzione offre pochi indici circa l’excursus futuro della relazione ed è pro­prio in questo momento che il perverso pone i cardini del dominio sull’altro;

  • le vittime dei perversi sono in uno stato di forte disperazione.

Il fatto che alcune donne restino non im­plica necessariamente la presenza di forme di masochismo. Per quanto possano esistere quelle coppie perverse in cui masochismo e narcisismo si intersecano perfettamente non si può estendere tale concetto a individui che sono divorati da tale legame patologico e lo vivono in uno stato di con­fusione e angoscia per cui né trovano giovamento né se ne lamentano, ma anzi lo seppelliscono.

Un’altra questione che merita un’ulteriore rifles­sione è l’utilizzo del termine “vittima”; infatti tale designazione fa pensare ad un qualcuno che subi­sce passivamente un qualcosa, come suggerisce anche il dizionario italiano che la definisce come “chi soccombe all’inganno, alla prepotenza, alla violenza” (De Mauro, 2007, 2911). In tal modo emerge una certa passività e de-responsabilizza­zione della persona di fronte a tale dinamica, escludendo la sua agentività e valorizzando la di­storsione che il perverso attua. Ed è qui il para­dosso. La vittima è attiva, segue le sue prospetti­ve, le sue emozioni, i suoi affetti ma tutto ciò vie­ne posto in uno spazio artefatto, simulato dalla se­duzione narcisistica, dalla perversione. Dunque, in realtà, la vittima sta esaurendo un rapporto de­vastante in modo inconsapevole, con l’unica colpa di “amare troppo”. Rispetto a questo concetto, ri­facendosi al prototipo femminile di donna, Robin Norwood argomenta i motivi per cui le donne amano troppo, riportando la favola della Bella e la Bestia: essa infatti è esemplificativa di come vi sia una tendenza da parte delle donne di candidar­si come salvatrici e protettrici di uomini inetti, de­boli, ma anche crudeli, instabili, offensivi.

In un certo senso questo concetto è riconducibile al triangolo drammatico di Karpmann in cui, iden­tificando i tre principali ruoli del carnefice, della vittima e del salvatore, quest’ultimo viene assunto da chi intraprende queste relazioni, ritrovando l’incastro perfetto in tali relazioni malsane. Ma, data la dinamicità di tali ruoli, si fa presto ad assistere ad uno stravolgimento effettivo di tali dinamiche relazionali e perciò, quel partner salvifico si trasforma in un oppresso, vittima dei suoi stessi propositi.

LA DIPENDENZA AFFETTIVA

Un ulteriore aspetto che può essere considerato un tassello perfettamente combaciante con quello della dinamica narcisistico-perversa è quello rela­tivo alla dipendenza affettiva. La dipendenza af­fettiva è un disturbo della sfera emotiva e relazio­nale determinato dalla centralità di un “oggetto d’amore” (l’altro, il partner) verso il quale il sog­getto nutre sentimenti disfunzionali di centralità; essa si manifesta a livello cognitivo, emotivo e comportamentale e porta ad un peggioramento graduale nei vari ambiti dell’esistenza quotidiana della persona (Secci, 2014, 72-74).

A livello cognitivo le caratteristiche sono:

  • pensiero costantemente concentrato sul­l’oggetto d’amore;

  • tendenza a riportare a sé e/o alla relazione ogni comportamento dell’altro;

  • tendenza a sovrastimare i segnali di con­ferma e a sottostimare quelli di disconfer­ma;

  • difficoltà di concentrazione;

  • idealizzazione della persona amata (Secci, 2014, 73-74).

Da un punto di vista emotivo, invece, vi sono ul­teriori stati instabili. Alcune caratteristiche delle emozioni sono (Secci, 2014, 74-75):

  • ansietà e sensazione di allarme o pericolo imminente;

  • umore tendenzialmente depresso con pic­chi di eccitazione;

  • tendenza, in modo proiettivo, ad attribuire le proprie emozioni all’oggetto d’amore;

  • vissuto di abbandono e solitudine;

  • sentimenti di vuoto e di mancanza di sen­so;

  • graduale disinvestimento emotivo dal mondo circostante con ritiro sociale;

  • emozione costantemente rivolta sull’ogget­to d’amore.

Appare chiaro che l’emozionalità si fonda su versanti negativi che si discostano dalla costru­zione di un rapporto sano ed equilibrato. Vi è infi­ne la dimensione comportamentale la quale verte sull’impulsività. La persona, infatti, è travolta da­gli impulsi e dal bisogno di trasformarli in azioni; alcuni aspetti comportamentali sono (Secci, 2014, 75-76):

  • comportamenti compulsivi come ad esem­pio chiamate, sms, email;

    • atteggiamento accondiscendente verso l’oggetto di dipendenza pur di catturare la sua attenzione;

  • incapacità di prendere decisioni;

  • tendenza a delegare proprie responsabilità;

  • tendenza a rinunciare a impegni o attività importanti pur di incontrare l’altro.

I pensieri, le emozioni, i comportamenti a lungo andare e nella loro perpetrazione disfunzio­nale si innestano nel vissuto della persona e ren­dono il rapporto con l’altro un circolo vizioso. Come lo stesso autore sostiene (2014, 70) la di­pendenza nei confronti della relazione, oltre ad essere ricollegata ad esperienze peculiari negli scambi con il caregiver, può esplodere in situazioni affettive apparentemente normali ed equilibrate. In questo senso il narcisista, tramite i suoi meccanismi manipolativi, induce la dipendenza nell’altro, gli fa credere di essere indispensabile. La dipendenza della persona può essere coltivata in molti modi: spingerlo verso obiettivi che non può raggiungere da solo, persuaderlo di non disporre di risorse adeguate o convincerlo di non avere alternative (Lingiardi, 2014, 421).

LE CONSEGUENZE…

La relazione con un narcisista può portare a con­seguenze devastanti che non si limitano al solo ed unico annichilimento della persona ma si riper­cuotono su altri molteplici aspetti. Uno fra questi, senza dubbio è la possibilità di ribellarsi (Ponzio, 2004, 76). La vittima sembra cercare un compro­messo all’interno del legame, con l’aspettativa di mantenere un certo equilibrio relazionale. Tutta­via, l’evitamento di un’esplosione, di un confron­to, di una decisione, della realtà circa la natura del rapporto e dei propri pensieri porta, ineluttabil­mente, all’implosione, alla somatizzazione dei propri contenuti mentali ed emotivi. Tutto ciò ha delle conseguenze sia a breve termine che a lungo termine.

a breve termine

Durante il rapporto e la fase di condizionamento molteplici sono i segnali che indicano il deteriora­mento psico-fisico della vittima. In primis vi è lo stato di confusione: la vittima si sente vuota, av­verte il suo impoverimento, le ingiustizie del part­ner alle quali non riesce a dare un senso, non comprende a pieno la presenza o meno di proprie responsabilità (Hirigoyen, 2000, 164). Come ha rilevato Amati – Saas (1992, 329-330) in uno studio condotto su vittime di esperienze traumatiche, la confusione, l’ambiguità sono strumenti per sopravvivere, un modo per non definire la situazione ed eludere il conflitto interiore. L’incapacità di trovare nell’altro delle risposte concrete porta la persona a ricercare dentro sé delle risposte, dei gesti o dei comportamenti sbagliati che possano rappresentare il motivo dei comportanti del proprio partner, innescando, in alcuni casi, colpevolizzazioni.

Campbell, nell’analisi delle conseguenze fisiche della violenza di qualunque tipo, evidenzia (2002, 1333-1334) una serie di sintomatologie, quali per esempio:

  • diarrea, stitichezza, nausea, sindrome del colon irritabile;

  • mancanza di appetito, vomito auto-indotto, bulimia;

  • dolori addominali, ulcere;

  • rapporti dolorosi, mancanza di desiderio sessuale;

  • cefalee, emicranie;

  • svenimenti, convulsioni;

  • mal di schiena, dolori cronici alle spalle, al collo;

  • influenza e raffreddori;

  • ipertensione.

Insomma il corpo riflette quello che sen­tiamo e viviamo.

Un altro aspetto che viene a sommarsi a tutto ciò è l’ansia, in quanto la vittima è in perenne stato di allerta, spia i gesti e lo sguardo dell’altro, vive nel timore di eventuali sue reazioni nel caso non ri­spondesse alle sue richieste (Hirigoyen, 2000, 168).

Ponzio inoltre sottolinea (2004, 87) come le ri­chieste di aiuto delle vittime nei confronti di pa­renti o amici siano sottovalutate e affrancate a semplici litigi coniugali che possono essere risa­nate in quanto normalizzate e relative alla quoti­dianità di coppia. Questo aspetto rappresenta un tassello aggiuntivo verso la propria emargina­zione psichica.

a lungo termine

Tra i retroscena e gli esiti a lungo termine del maltrattamento vi è il trauma prolungato.

Nel DSM-5 nella descrizione delle caratteristiche del DSPT, si fa riferimento (2014, 318) ad eventi traumatici estremi quali disastri naturali, aggres­sioni fisiche, malattie, torture e così via, ma, allo stesso modo, viene evidenziato il fatto che l’entità del disturbo risulta particolarmente grave e pro­lungata quando l’evento in questione è generato e dipeso dall’uomo, è interpersonale ed intenziona­le. A tal proposito Herman (in Williams, 2009, 269-270), facendo presente l’associazione del trauma prolungato ad uno stato di prigionia o di controllo da parte di un persecutore, evidenzia come il controllo coercitivo trovi i suoi luoghi non solo nella violenza fisica ma anche al cospet­to di una combinazione di coercizioni di diversa natura (sociale, psicologica o economica). Dun­que risulta opportuno analizzare quelle che sono alcune aree del disturbo del trauma prolungato che si riferiscono alla sintomatologia, la quale ri­sulta molto più complessa rispetto al DSPT, alla riorganizzazione del carattere delle vittime e la loro vulnerabilità a violenze ripetute (ibidem). Ri­spetto alla sintomatologia, già nella descrizione delle conseguenze a breve termine si era accenna­to a dei malesseri prettamente fisici che si riper­cuotono nella vittima che fanno pensare a delle vere e proprie somatizzazioni. Oltre a ciò vi è un’altra conseguenza sintomatica ossia la disso­ciazione, la quale è una funzione normale della mente, in quanto esclude da essa forme di soffe­renza intollerabili al fine di proteggere l’Io; ma quando si protende verso una reiterazione eccessi­va essa può portare ad una distorsione del senso di sé fino alla perdita del contatto vitale e reale, fino alla dipendenza patologica (Bromberg, 2007, IX). Attraverso la pratica della dissociazione, del­la minimizzazione, della soppressione volontaria del pensiero e a volte anche della negazione asso­luta, l’individuo impara a modificare l’insostenibi­le realtà (Williams, 2009, 272). Altra conseguenza è determinata dalle modificazioni emozionali; il trauma prolungato arreca con sé una depressione persistente, che si mescola all’apatia, al senso di impotenza e alla compromissione dei legami af­fettivi la quale rinforza il ritiro e l’isolamento (Williams, 2009, 274). Si frantuma l’integrità emotiva portando l’individuo ad un tracollo sem­pre più solitario e lontano dal contatto psichico con il mondo. Dunque la persona proietta il senso di rabbia inespresso sugli altri ed il controllo che esercita su tale stato psichico lo conduce sempre più al ritiro sociale; l’interiorizzazione della rabbia infine può scatenare un odio perverso verso se stessi ed una persistente ideazione suicidaria (ibi­dem). Non a caso la letteratura (Nazare-Aga, 2008, Hirigoyen, 2006, Filippini, 2005) riporta come alcune esperienze cliniche si siano concluse con l’atto estremo del suicidio.

Le tecniche di controllo, oltre a ledere l’autonomia dell’altro, suscitano terrore, senso di impotenza e, soprattutto, un attaccamento patologico verso il persecutore (Williams, 2009, 274-275). In tal sen­so la persona non si preoccupa di liberarsi di un legame di tale tipo, ma di trovare espedienti per accettarlo ed adattarsi.

Inoltre la distorsione della realtà circostante, la tendenza a ricercare in sé le risposte a tali situa­zioni di abuso e maltrattamento, le innumerevoli colpevolizzazioni inflitte ed auto-inflitte ledono il senso di integrità e l’immagine reale ed autentica che l’individuo ha di se stesso.

Altra potenziale conseguenza di una vittimizza­zione prolungata è la ripetizione del trauma, che si esplica nella ricerca di situazioni analoghe. Alcuni studi epidemiologici hanno dimostrato come i so­pravvissuti ad un abuso nell’infanzia hanno un ri­schio maggiore di subire violenze nell’età adulta (Williams, 2009, 279). Insomma, esperienze pre­gresse di maltrattamento e trascuratezza inducono la persona a ricercare legami, contesti e scenari che ripropongano e confermino la propria imma­gine ed il proprio copione di vita.

La presa in carico

Moltissimi autori (Beck e Freeman, 1998; Stone, 2007; Clarkin et al., 2004; Kernberg, 1987; Ron­ningstam, 2001) sono d’accordo nel considerare le personalità narcisistiche difficili da trattare e lon­tane dalla pretesa di avere una prognosi favorevo­le. D’altro canto Kohut sostiene (1980, 245-247) che tramite l’empatia si possa aspirare a risultati concreti nel trattamento di tali pazienti. . In merito a ciò un tipo di trattamento preso in considerazio­ne è quello di tipo integrato dello Schema-Thera­py.

Alla luce del concetto di mode, obiettivo principa­le del trattamento è quello di favorire il mode Adulto funzionale di tali tipologie di pazienti tra­mite il modellamento e l’esempio offerto dal tera­peuta; quest’ultimo infatti nel lavoro di accudi­mento del Bambino solo del narcisista, ha come scopo quello di renderlo più consapevole dei reali bisogni e di dissuaderlo nell’utilizzo di meccani­smi di coping di ipercompensazione e di evita­mento (Young et al., 2007, 438). Nella promozio­ne di un mode Adulto funzionale, dunque, si mira alla capacità di esso di:

  • aiutare il Bambino solo a sentirsi accudito e capito e ad occuparsi ed empa­tizzare con gli altri;

  • ostacolare il mode Presuntuoso per permettere al narcisista di rinunciare al suo eccessivo bisogno di ammirazione ma di rivolgersi agli altri tramite senso di reci­procità;

  • aiutare il mode Consolatore distac­cato a rinunciare ai comportamenti mala­dattivi di evitamento e a sostituirli con la capacità di provare sentimenti autentici (Young et al., 2007, 438).

Insomma è evidente il ruolo attivo e centrale della relazione con il terapeuta.

Ma il Narcisismo non cela solo bisogni di cura e di accettazione incondizionata ma evidenzia an­che atteggiamenti arroganti, provocatori e scredi­tanti nei confronti dell’altro.

Quando ciò succede un aspetto utile è l’afferma­zione assertiva, da parte del terapeuta, dei propri diritti tutte le volte che sembra che essi siano vio­lati dal paziente. Alcune linee guida rispetto a tale assunto sono:

  1. il terapeuta empatizza con la prospettiva del paziente su alcune condotte egoiste considerate da esso normali e ne contrasta, con il dovuto tatto, l’atteggiamento preten­zioso, sottolineandone gli effetti negativi;

  1. il terapeuta non si difende dalle critiche del paziente né lo attacca a sua volta in quanto, facendo ciò si rischia di stare al suo gioco e di dare il controllo della sedu­ta al narcisista;

  2. il terapeuta afferma i propri diritti senza essere punitivo;

  3. il terapeuta non cede alle pressioni del pa­ziente;

  4. il terapeuta spiega al paziente che la rela­zione terapeutica deve essere paritaria e che deve basarsi sul principio di reciproci­tà e non uno spazio di competizione e pre­dominio;

  5. il terapeuta individua e sottolinea ogni se­gnale di vulnerabilità del bambino solo af­finché il paziente si concentri su di esso;

  6. il terapeuta sminuisce l’episodio in se stes­so ed incoraggia il paziente ad analizzare le ragioni che si nascondono dietro le sue affermazioni sfrontate, presuntuose e sva­lutanti,

  7. il terapeuta identifica gli aspetti tipici del disturbo portandoli all’attenzione del clien­te;

  8. il terapeuta trova il nome più adatto a rap­presentare i mode Presuntuoso e Consola­tore distaccato del singolo paziente per renderlo più consapevole di se stesso (Young et al., 2007, 444-446).

Nel passo terapeutico dell’introduzione del con­cetto di Bambino solo al paziente narcisista, il te­rapeuta deve adoperare procedure immaginative per analizzare le origini infantili dei mode (Young et al., 2007, 447-450).

Tale passaggio può facilitare ulteriormente il nar­cisista a comprendere se stesso, le origini trauma­tiche dell’isolamento ed evitamento psichico che adotta nelle relazioni, nel tentativo di abbandona­re i propri schemi.

Una tecnica orientata al cambiamento è il Mode work, ossia, un lavoro fatto di dialoghi tra i vari mode individuati nelle precedenti fasi di com­prensione in modo tale da poter avviare anche la funzione di educare la persona ad organizzare mode più validi; qui prende spazio e voce il ruolo dell’Adulto funzionale il quale oltre a gestire la comunicazione tra i diversi mode, deve riuscire a sostituirsi a quei mode che proteggono il Bambi­no solo (il Presuntuoso, il Consolatore distaccato) al fine di aiutare quest’ultimo a cogliere i suoi bi­sogni emotivi.

(Young et al., 2007, 453-458). Questo spinge ulte­riormente il paziente ad una responsabilizzazione del proprio vissuto. Ed è proprio tramite tale gra­duale processo che si concretizza una tecnica ag­giuntiva che si propone di mettere in contatto il Bambino con le persone significative. Il terapeuta in tal caso, invita il paziente a far emergere il Bambino che è in lui nei rapporti con gli altri si­gnificativi per la propria vita in modo tale che rie­sca a dare e ricevere amore (Young et al., 2007, 460-461). Tutto ciò innesca anche il pensiero che, richiedere amore, saperlo anche custodire per gli altri, è un aspetto fondamentale per la propria esi­stenza e fa parte di quell’intimità, quell’autenticità interiore e condivisa cui si allude nella costruzio­ne del rapporto terapeutico. Il narcisista deve ab­battere le sue convinzioni radicate di essere auto-sufficiente e provvisto di quei riconoscimenti di­sfunzionali che lo hanno portato, con il tempo, a ritirarsi nella prigionia del suo narcisismo.

LIMITI E DIFFICOLTA’

Come accennato prima, il trattamento del disturbo narcisistico di personalità presenta i suoi nodi cru­ciali e le sue non poche difficoltà. I pazienti narci­sisti sono tra quelli più propensi ad abbandonare il trattamento, soprattutto dopo le prime sedute, al­l’interno delle quali emergono i punti cruciali e le problematiche derivate dalle sue modalità relazio­nali. . Altra questione su cui è bene riflettere sta nella manipolazione e nelle tendenze del narcisi­sta a pervertire, tutti aspetti che possono abbatter­si brutalmente nella relazione terapeutica. Ma fon­damentalmente se quest’ultima pone le basi per un rapporto autentico e se verte verso quell’intimità psichica cui si è accennato in precedenza, il narci­sista comprenderà e farà esperienza di dimensioni emotive mai padroneggiate oppure negate nei pro­pri processi di deprivazione.

La presa in carico della vittima

Una massima riportata dagli autori Morelli e Cou­derc dice (2014, 142) che “non si ruba una cassa vuota”; e il perverso narcisista ha scelto proprio quella persona perché essa non è vuota ma, anzi ricca di risorse. Viste le diverse sfaccettature circa le caratteristiche della vittima, si indicheranno sia alcuni aspetti della terapia con personalità dipen­denti sia degli strumenti e delle strategie che pos­sono risultare utili nel dissenso dei meccanismi perversi e manipolativi. In linea generale, però lo psicologo deve porre anche significativa attenzio­ne alle condizioni della domanda e della presa in carico della vittima. Infatti quando una vittima di maltrattamento chiede spontaneamente un intervento e, allo stesso tempo, dichiara di non essersi ancora separata dal partner, che non è sicura, che ci sa riflettendo, risulta opportuno ipotizzare un elemento manipolatorio nella domanda, ossia un tentativo di ricercare nel contratto terapeutico una giustificazione al suo permanere nella relazione (Velotti, 2012, 199-200).

Per il dipendente affettivo nei rapporti conflittuali, la presenza del partner costituisce una difesa illu­soria contro la sofferenza; la richiesta di un sup­porto psicologico avviene quando la loro relazio­ne volge al termine portando con sé un profondo stato di disperazione e l’idea che un aiuto terapeu­tico possa aiutarli a riconquistare il partner perdu­to (Sophia et al., 2007, 59-60).

Compito del clinico, dunque, è quello di incorag­giare il funzionamento ed il senso di agency del soggetto dipendente, evitando di colludere con le sue richieste implicite e non di subordinazione.

Secci, sulla base della propria esperienza clinica e del proprio approccio basato sulla terapia breve focale evidenzia (2014, 91-92) quelle che sono delle aree-obiettivo verso le quali orientare le fi­nalità a breve e medio termine della psicoterapia, da lui stesso indicate come le “grandi sette A”. Esse sono:

  • Autonomia: implica l’acquisizione del de­cision making rispetto a quelli che sono i propri bisogni affettivi e di maturare un senso di autonomia ed integrità rispetto alle scelte ed orientamenti altrui;

  • Autostima che si tramuta nella riconquista di un proprio valore nell’integrazione di aspetti piacevoli o no di se stessi tramite auto-accettazione;

  • Auto-realizzazione che possa spingere l’in­dividuo ad utilizzare le proprie risorse per perseguire mete e obiettivi personali;

  • Auto-consapevolezza ossia la capacità di individuare e riconoscere il proprio fun­zionamento emotivo, cognitivo e relazio­nale ed essere consapevole delle conse­guenze delle proprie condotte;

  • Assertività: utilizzare strumenti comunica­tivi costruttivi ed efficaci;

  • Apertura ossia confrontarsi autenticamente con gli altri;

  • Affettività ossia cogliere il ponte tra passa­to e presente del significato delle relazioni importanti per l’individuo, il quale spesso soggiace degli schemi relazionali disfun­zionali.

Alcuni autori (Sophia, 2007; Lingiardi, 2014; Norwood, 2007, Sperry, 2000) sono d’accordo nel sostenere l’efficacia delle terapie di gruppo nel trattamento di tali tipologie di personalità.

Rispetto a ciò, infatti, gli elementi indicati come considerevolmente terapeutici in una terapia di gruppo sono ( Yalom, 2009, 25-40):

  • la speranza;

  • l’universalità;

  • l’informazione;

  • l’altruismo;

  • ricapitolazione correttiva del gruppo pri­mario familiare;

  • forme di socializzazione;

  • comportamenti imitativi.

Il sostegno percepito dagli altri porta la persona a fare esperienza di un riconoscimento, della possi­bilità di auto-determinarsi nelle scelte di vita e nei cambiamenti.

Visto nello specifico gli interventi orientati alla dipendenza affettiva, è importante affrontare alcu­ni punti inerenti ad una eventuale terapia rivolta, più in senso generale, alle vittime di perversi nar­cisisti. . La presa in carico di chi ha subito la dina­mica perversa ci spinge a ridimensionare le nostre conoscenze e metodi di riferimento nel bisogno di accostarci ad esso, senza assumere una posizione di potere (Hirigoyen, 2000, 201).

Definire la perversione risolleva la persona dal­l’ambiguità in cui è inevitabilmente caduta nel rapporto disfunzionale, dà un volto a quel legame confuso, indefinito, privo di confini; tuttavia ciò non deve implicare lo spostamento delle rispettive responsabilità sul partner perverso. Un ulteriore passo fondamentale nella terapia è capire come venire fuori dalla situazione violenza e maltratta­mento. Il rinforzo delle parti psichiche intatte, l’at­tenzione centrale che si pone sulla sua sofferenza, consente alla vittima di trovare quel senso di fidu­cia perduto e respingere ciò che più viene vissuto in modo angoscioso (Hirigoyen, 2000, 203).

Come già affrontato prima il perverso mette in dubbio le riflessioni e l’obiettività della persona nella distorsione della realtà concreta; dunque un aspetto centrale nel lavoro con la vittima è de­strutturare quel condizionamento subìto che si manifesta tramite il senso di colpa. Liberarsi del senso di colpa consente di rimpossessarsi del pro­prio vissuto e solo quando esso sarà respinto, quando si sarà fatta esperienza di libertà, si potrà ritornare alla propria storia personale e compren­dere il percorso che ha condotto fino alla propria distruzione (Hirigoyen, 2000, 204). Come già ac­cennato prima, il perverso si nutre del narcisismo dell’altra persona, la quale, al culmine della rela­zione, ne esce devastata, afflitta dal senso di vuoto. E’ necessario, dunque, ripristinare la sua autonomia ed autostima facendo luce e rinforzan­do le sue risorse.

Nel percorso terapeutico, in seguito al lavoro sulla propria situazione di maltrattamento, è importante cogliere la propria storia individuale, per com­prendere vissuti e meccanismi che hanno portato la persona a cadere in una relazione perversa. Si affrontano, dunque, i nodi critici della propria bio­grafia che hanno reso la persona vulnerabile nel­l’individuazione di quella crepa in cui l’altro si è preso il suo spazio (Hirigoyen, 2006, 185). Un ri­schio che si può correre nella presa di contatto con la propria situazione è lo spostamento del senso di colpa verso la propria relazione al senso di colpa verso se stessi (Ponzio, 2004, 47). In tal senso la persona si accusa per aver permesso a qualcun altro di violare la propria ricchezza inte­riore. Guarire significa riallacciare le proprie parti sparse, riconoscere la sofferenza come una parte di sé degna di stima, guardare in faccia la propria ferita e sulla base di ciò costruire il proprio avve­nire (Hirigoyen, 2000, 207). E’ importante, dun­que, accettare ogni vissuto che investe le proprie esperienze, maturare un’intelligenza emotiva che permetta di gestirle in modo adeguato.

L’uso delle parole, di peculiari meccanismi comu­nicativi da parte di un narcisista, ha le sue gravose conseguenze sull’altro; risulta opportuno, dunque, indicare e far presente alcune strategie comunica­tive che possono rivelarsi utili per la gestione di questi scontri verbali. L’obiettivo di tale delucida­zione, oltre all’indicare le possibilità di respingere la manipolazione, sta nell’offrire degli strumenti a coloro che decidono di permanere in una situazio­ne di tal genere.

Alla luce di ciò è bene indicare alcuni strumenti di difesa da quei meccanismi alla base del controllo mentale; essi sono (Rizzuto, 2014):

  • il coinvolgimento emotivo;

  • il rispetto;

  • l’empatia;

  • la gestione del tempo;

  • il controllo sulla persona;

  • il controllo sulla relazione;

  • gli obiettivi personali.

Rispetto al coinvolgimento emotivo, vi sono ulte­riori aspetti da tenere a mente. Tra questi vi sono (Rizzuto, 2014):

  • Non interiorizzare le accuse immotivate così come i complimenti eccessivi o gra­tuiti;

  • adoperare il principio di simpatia nella ri­cerca di sostegno in chi ha vissuto la stes­sa esperienza ma anche nell’indicare cos’è che ci interessa dell’altra persona;

  • mostrare prudenza quando l’altro si propo­ne e si descrive come vittima (offre l’im­pressione di avere potere o il senso di col­pa);

  • identificare il principio dell’amicizia ossia paura di rompere il rapporto o di dare di­spiacere (se l’altro è vero capirà le nostre ragioni).

Altro elemento chiave è il rispetto ossia il credere nel valore e nelle capacità sia proprie che dell’al­tro; esso, dunque, implica:

la verifica di quanto il manipolatore ci consideri validi ed indipendenti da un punto di vi­sta affettivo;

riconoscere capacità ed azioni del manipo­latore;

rispetto per sé stessi e di propri bisogni/di­ritti;

comprendere quando l’altro utilizza il lo­cus of control esterno conferendo al di fuori gli aspetti negativi (ibidem).

Un altro punto fondamentale è l’empatia. Essa consiste nella comprensione del contenuto e dei sentimenti espressi nel messaggio dell’altro e im­plica:

l’individuazione del manipolatore;

l’utilizzo dello strumento del sorriso in quanto la gentilezza può abbassare le difese del­l’altro o può destabilizzarlo in quanto non è questa la reazione che si aspetta;

liberarsi dal senso di pietà che maschera la paura, in quanto non riconoscendo i sentimenti dell’altro si prova ciò che si spera che l’altro provi nei nostri confronti.

Per quanto riguarda la gestione del tempo, essa consiste nel:

– darsi tempo per riflettere sulle richieste; nel caso l’altro mostri fretta:

– cogliere la natura di tale urgenza

– frenare i propri meccanismi decisionali a secon­da del senso di urgenza percepita (Rizzuto, 2014).

Il controllo sulla persona e sulla relazione impli­cano esplicitamente l’importanza del mantenere l’autocontrollo e la padronanza di sé e delle situa­zioni di fronte ad un manipolatore che adopera le parole per provocare, per ledere il rispetto dell’al­tro in interazione. Alcuni aspetti da considerare sono:

  • rispondere elusivamente quando le richie­ste del manipolatore diventano compulsi­ve;

  • evitare di assumere il ruolo di “salvatore” nei confronti di chi vuole esercitare il con­trollo mentale;

  • sapere che il manipolatore è tendenzial­mente una persona rigida che in ogni scambio comunicativo cerca di esercitare un controllo sull’altro;

  • di fronte alla nostra incertezza circa le rea­li intenzioni del manipolatore, è bene uti­lizzare frasi corte o frasi fatte in quanto ciò ci permetterà di esercitare un po’ il po­tere nella relazione;

  • porre chiarezza sul contesto comunicativo;

  • assumere controllo nella relazione facendo domande insistenti che solitamente stanca­no ed in seguito ad esse non offrire rispo­ste ma prendersi del tempo per i propri dubbi;

  • evitare di raccontare dettagli della propria vita se prima non si è considerati adegua­tamente contesto e uditorio coinvolti nella comunicazione;

  • porre al centro della propria attenzione gli scambi comunicativi e la relazione per co­gliere eventuali aspetti persuasivi;

  • in caso di transazioni con un manipolatore fare appello a possibili testimoni;

  • non rispondere alle domande che non sono elaborate in modo chiaro;

  • imparare a rifiutare con cautela in quanto le condizioni del rifiuto possono essere utilizzate dall’altro a proprio vantaggio;

  • farsi porre per iscritto le richieste, ove pos­sibile;

  • nelle situazioni in cui non è chiara l’auto­nomia affettiva, evitare di fare da interme­diari.

Ultimo aspetto ma non per questo meno rilevante è quello relativo agli obiettivi personali. Dunque bisogna (Rizzuto, 2014):

  • tenere presente che temere il giudizio del­l’altro solo perché non si risponde alle sue richieste sostituisce gli obiettivi personali con altri obiettivi esterni;

  • impostare il processo comunicativo sulla discussione in situazioni confuse e ambi­gue in quanto ciò destabilizza il manipola­tore;

  • avere sempre presente i propri obiettivi, interessi e bisogni in quanto se tutto ciò è chiaro ed implica il benessere della perso­na, funge da rinforzo per gli altri strumenti di difesa.

Dare voce ai propri obiettivi e propri bisogni ci aiuta non solo a rispettarci ma a porre le basi per richiedere ed aspettarsi dagli altri di essere ricono­sciuti nell’adempimento della propria umanità.

La terapia di coppia

Nonostante molti autori (Nazare-Aga, 2008; Sper­ry, 2000; Hirigoyen, 2006) indichino la difficoltà ed una possibile inefficacia della terapia di coppia in quei legami che hanno come sfondo la violenza ed il maltrattamento, vi sono tuttavia dei suggeri­menti e delle indicazioni terapeutiche circa il trat­tamento di quelle relazioni in cui abbiamo una configurazione narcisistica. In linea generale una problematica legata a tale considerazione sta nella difficoltà che il narcisista possiede nel riconosci­mento dei propri limiti. Inoltre solitamente è sem­pre l’altro partner a spingere il narcisista ad intra­prendere una terapia. Altro limite di tale tipologia di terapia sta nel fatto che quella di coppia preclu­de la divisione delle reciproche responsabilità di fronte ad una relazione disfunzionale e complessa, meccanismo e condizione che può ulteriormente gettare la vittima in un percorso di colpevolizzazione (Hirigoyen, 2006, 186).

Tuttavia è bene considerare e valutare un inter­vento di questo tipo nel momento in cui il presun­to narcisista si trovi d’accordo nell’intraprendere un percorso terapeutico. La terapia risulta profi­cua, infatti solo se i due partner hanno il desiderio comune di ricostruire insieme la loro felicità (Na­zare-Aga, 2008, 131). Alla luce della configura­zione e il grado di patologia individuale, la com­binazione tra trattamento congiunto e quello indi­viduale, lì dove sia possibile, costituisce la solu­zione migliore (Solomon, 2001, 221). Detto ciò, gli obiettivi terapeutici includono (ibidem):

  1. aiutare i partner a comprendere i reciproci bisogni arcaici di dipendenza;

  2. trovare delle strategie per riassetta­re quelle ferite che entrambi si impongono per di­fendere le proprie aree di vulnerabilità;

  3. risanare le strutture danneggiate del Sé tra­mite una relazione riparativa.

La traduzione delle difese narcisistiche

Ognuno presenta una diversa “narrazione” che contiene in sé il volto del passato e del presente della relazione (Spence, 1987, 85-87). L’attribu­zione della colpa al partner e il tentativo di trovare un alleato nel terapeuta sono fenomeni tipici in tale trattamento; per questo, compito del terapeuta è porre attenzione al pattern delle interazioni e scambi tra i partner ed esso, identificare chi inizia, chi segue, come si reagisce alle emozioni negative (rabbia, tristezza, paura) ma anche a quelle positi­ve (Solomon, 2001, 234-235).

A fronte di ciò è importante osservare e cogliere le modalità interattive dei partner quando emergo­no emozioni negative, per poter comprendere come le relazioni passate vengano poi tradotte nella loro relazione e in quella con il terapeuta. E’chiaro come tale tipo di lavoro terapeutico non sia finalizzato all’analisi dei trascorsi e dei vissuti arcaici, ma si propone di cogliere gli aspetti pas­sati non tradotti che si sono gettati nel rapporto con l’altro e che conducono sempre più ad un iso­lamento psichico.

Il terapeuta, dunque, nell’assistere al processo di comprensione dei rispettivi sentimenti, traduce i contenuti delle interazioni per riflettere i bisogni e le emozioni sottostanti (Solomon, 1985, 145).

Dalla decodifica terapeutica alla comunicazione diretta tra i partner

Come già detto precedentemente, all’inizio si ri­cerca nel terapeuta un alleato per mettere in di­scussione l’altro. È di fondamentale importanza, quindi, mantenere e tutelare il contatto con ognu­no dei partner, rimanendo coerentemente empatici con entrambi in quanto qualunque prova o segno di preferenza nei confronti di uno dei due, verrà vissuto dall’altro come una forma di tradimento (ibidem). L’importanza dell’imparzialità nello sta­bilire una relazione di fiducia ed empatica è una prerogativa centrale nel rifiuto di qualunque tenta­tivo collusivo da parte di entrambi di trovare con­ferme ed agganci alle loro modalità relazionali di­sfunzionali. Inizialmente la terapia si svolge tra­mite la mediazione del terapeuta nel processo co­municativo che avviene tra entrambi al fine di ri­durre gli attacchi distruttivi; allo stesso tempo of­fre un esempio e modello di sintonizzazione em­patica con la quale comprendere ed accogliere i reciproci bisogni e paure nonché nuovi modi di proteggersi in situazioni di particolare stress (Solomon, 2001, 237-238). Nella centralità del modellamento del terapeuta come elemento formativo educativo per l’utente, la terapia diventa quello spazio entro cui offrire all’altro esperienze più costruttive, di condivisione, di comprensione reciproca, in cui si mostrano la pluralità delle alternative interpersonali sulle quali nutrire i propri legami significativi. I partner sono educati alla comunicazione chiara, intima e rispettosa, una comunicazione in grado di portare alla luce reciproche esigenze ma anche le rispettive necessità di condivisione, di partecipazione e di comunione emotiva ed affettiva.

Rinforzare la trasformazione

Il proporre nuovi modelli personali e relazionali svincolati dalla rigidità dei propri schemi mentali indirizzano la persona verso traiettorie più sane e funzionali. Le pretese e le richieste narcisistiche possono tramutarsi in normale assertività, la timi­dezza ed il ritiro, che si precostituiscono come strumenti per preservarsi dalle fantasie grandiose infantili, possono essere sostituite dal desiderio di nutrire elevate aspirazioni ed ideali, oppure da una equilibrata accettazione di una grandiosità sana (ibidem). L’elaborazione dei propri limiti, delle proprie esperienze, del proprio “lutto” esi­stenziale richiamano inevitabilmente l’accettazio­ne. Essa conduce, dunque, al cambiamento in quanto conferisce ad entrambi i partner nuovi oc­chi con cui guardare se stessi e la relazione. In quest’ottica le stesse problematicità riportate da entrambi rappresentano paradossalmente l’oppor­tunità per cogliere quelle aree di vulnerabilità in­dividuali che entrano nella dimensione di coppia e che si configurano in modo reattivo di fronte agli epiteti narcisistici; tutto ciò è alla luce dell’obiettivo di ridimensionare il vissuto delle emozioni, contenerle, approfondirle piuttosto che agirle o difendersi da esse (ibidem). Scopo del trattamento è proprio quello di poter dare un nome ed identità a quelle emozioni che sottostanno le nostre azioni, che contornano i nostri affetti e che spesso celano e seppelliscono altre emozioni, più autentiche e più complesse da accettare e da esprimere. Dunque la terapia di successo è quella che si configura come una “esperienza riparativa interpersonale” in cui si offre all’altro un sostegno di risonanza empatica, un supporto che è stata carente nelle precedenti relazioni e scenari di vita; quando vi è un dare e ricevere, il ciclo delle ferite e fantasie narcisistiche, le convinzioni legate alle pretese innumerevoli può essere interrotto (Solomon, 2001, 240).

Le forme della prevenzione

Il protrarsi di situazioni frustranti, di scelte mala­dattive, di legami sofferti si configurano, nella prospettiva evolutiva dell’esistenza, come il risul­tato di rotture interne ed esterne avvenute durante la propria crescita.

La prevenzione preclude la promozione del be­nessere individuale ed interpersonale tramite l’e­ducazione della persona a rispettare se stesso e gli altri.

Possibili interventi

Alla luce di un intervento terapeutico che vada a prevenire il protrarsi di relazioni disfunzionali e meccanismi perversi la riflessione si pone sul rin­forzo e sul lavoro sulle proprie risorse. Un possi­bile programma che orienta all’acquisizione di alcune abilità può essere quello della promozione delle abilità sociali di Becciu e Colasanti. Per abilità sociali si intende quei comportamenti situazionali specifici, di carattere verbale e non, che ognuno di noi manifesta nel proprio contesto interpersonale e che rappresentano quel pre­requisito per un’adeguata competenza sociale, la quale implica abilità cognitive, emozionali e com­portamentali (Becciu, Colasanti, 2000, 2-4).

Dunque l’acquisizione di tali strumenti assume una valenza sia da un punto di vista personale che relazionale; infatti sempre che l’incompetenza so­ciale sia correlato a molteplici comportamenti ma­ladattivi. Alla luce dell’analisi della violenza fami­liare, Bagnara propone (1999, 89) alcuni suggeri­menti di natura preventiva circa le forme di mal­trattamento; essi sono:

  • costituire un comitato etico composto da esperti (psichiatri, psicologi, sociologi) e giornalisti che siano in grado di fornire in­formazioni corrette ai mass-media circa tali fenomeni al fine di sfruttare l’impatto sociale dell’informazione;

  • avvio di campagne pubblicitarie per incre­mentare l’informazione;

  • potenziare centri di consulenza convenzio­nati ed intervento precoce per favorire il libero accesso a quelle risorse che mettono tali realtà in condizioni di poter operare ef­ficacemente.

Ampliando il focus sui vari tipi di violenza, sareb­be più corretto e più funzionale, oltre che favorire un intervento di questo tipo, affiancare anche una preparazione ed una formazione all’affettività, un’educazione rivolta non solo agli adulti, ma an­che agli stessi giovani e bambini. Come abbiamo già precedentemente accennato, la violenza ed il maltrattamento hanno probabilità di trovare radici in esperienze traumatiche e di deprivazione già nell’infanzia, lacune che vengono riproposte nell’età adulta. A fronte di ciò è importante proporre degli interventi che possano spezzare la continuità della violenza e favorire rapporti autentici. Interessante è il manuale proposto da Ellerani e Pavan (2006) in cui vengono date importanti indicazioni ad operatori ed educatori scolastici per la progettazione di training di apprendimento ai ragazzi circa alcune competenze personali e sociali. Alcuni di essi sono orientati, per esempio alla comprensione dell’identità di genere e all’alfabetizzazione emozionale: la prima si orienta verso la scoperta dell’iter culturale e storico nel rapporto uomo/donna e della definizione delle pari opportunità e quindi dell’importanza e valore di un rapporto paritetico e rispettoso; la seconda, invece, orienta all’importanza dell’esplicitare e comprendere i propri dialoghi interni, saperli orientare ed essere al timone della propria vita (Ellerani, Pavan, 2006, 167-184). Questi due aspetti conferiscono la possibilità di educare i ragazzi di oggi alla scoperta del significato intrinseco di se stessi e dei rapporti umani, dei valori, della definizione di ciò che è umano e ciò che non lo è. In una società dove i ruoli di genere stanno diventando sempre più vacui e confusi, in cui i reciproci compiti stanno venendo meno e si mescolano nella poliedricità delle situazioni e della quotidianità, è necessario che un principio sia sempre valido e fatto proprio: il rispetto dell’umana dignità. Il lavoro di prevenzione e di educazione non trova slancio solo nei contesti scolastici ma anche nel micro-sistema familiare. A tal proposito Martorelli, alla luce di una prevenzione primaria contro gli abusi nell’infanzia e nell’adolescenza, sottolinea l’importanza della preparazione della coppia al ruolo genitoriale, alle sfide che questo compito arreca con sé nel dialogo continuo tra figli e genitori (107, 1997). Dunque è chiaro come il lavoro preventivo tenda a coinvolgere più realtà e, soprattutto interessi molteplici tappe evolutive della persona che vanno dall’infanzia al mondo adulto.

Il Decreto italiano contro la violenza di genere

Per quanto il maltrattamento in questione abbia delle manifestazioni peculiari rispetto allo stal­king o alla violenza fisica, è importante fare luce sui provvedimenti del territorio italiano contro qualsiasi forma di violenza.

In seguito alla Convenzione del Consiglio d’Euro­pa tenutosi a Istanbul nel 2011 per la prevenzione nei confronti della violenza sulle donne e della violenza domestica, in Italia è stato adottato Il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (articolo 5 del decreto legge n. 93 del 14 agosto 2103, convertito nella legge n. 119/2013) con Decreto del Presidente del Consi­glio dei Ministri del 7 luglio 2015.

Il quadro normativo entro cui si muove il Piano ha l’obiettivo di stabilire le azioni a favore delle donne vittime di violenza maschile, secondo un approccio olistico e multilivello, al fine di supera­re la logica emergenziale che ancora connota la gestione del fenomeno (DIP. PARI OPPORTUNI­TA’, 5, 2015).

Le azioni specifiche proposte da tale Piano sono volte a:

  • prevenire il fenomeno della violenza sulle donne tramite gli strumenti primari del­l’informazione e sensibilizzazione della collettività;

  • promuovere nell’ambito scolastico l’edu­cazione alle diversità;

  • potenziare le forme di assistenza e soste­gno alle donne e ai loro figli;

  • garantire un’adeguata formazione per tutte le figure professionali coinvolte con la violenza di genere;

  • accrescere la protezione delle vittime tra­mite una forte collaborazione tra istituzio­ni ed associazioni;

  • prevedere un’adeguata raccolta dei dati del fenomeno;

  • prevedere specifiche azioni che valorizzi­no le competenze delle amministrazioni impegnate nella prevenzione, nel contrasto e sostegno delle vittime della violenza di genere;

  • definire un sistema strutturato di gover­nance tra tutti i livelli di governo (DIP. PARI OPPORTUNITA’, 6-7, 2015).

Secondo i dati del Ministero degli Interni i maltrattamenti familiari e le forme di violenza sessuale dal 2013/14 al 2015 sono diminuiti rispettivamente del 22, 31% e del 14, 79% (www.interno.gov.it).

Dunque ciò può essere considerato un dato si­gnificativo alla strenua di un graduale proces­so di consapevolezza, in cui il disagio legato ai maltrattamenti, agli abusi e violenze si fa sempre più percepibile all’interno di una so­cietà che cambia rapidamente e che si ridefini­sce continuamente, sottolineando l’urgenza di definire anche altre forme di violenza meno manifeste come quelle affettive e psicologi­che.

A riflessione e conclusione delle questioni analiz­zate è importante spostare il focus dal singolo alla civiltà. Nella società moderna è sempre più radi­cato quel “narcisismo culturale” all’interno del quale si incoraggia e si orienta le persone ad esse­re sempre più concentrate su se stesse nell’affievo­limento progressivo dei legami con la comunità (Lasch, 1988, 209-210). Il successo, l’auto-realiz­zazione e i desideri di affermazione spingono ver­so la costruzione di una società sempre più sola nella pluralità di scambi e di mezzi di comunica­zione. La modernità produce immagini del Sé fra­gili che si associano alla paura nei confronti dei rapporti duraturi e dell’impegno (Paris, 2013, 110). Si assiste ad una estremizzazione dello spa­zio privato winnicottiano che eclissa la valenza della relazione e valorizza bisogni emotivi ed af­fettivi sempre più auto-referenziati ed auto-centra­ti. Ciò che sembra accomunare il perverso narcisi­sta e la vittima è la capacità di amarsi. La capacità di amarsi coinvolge inevitabilmente la capacità di amare in quanto la strada per vivere e ricercare il proprio valore esistenziale non è un percorso soli­tario ma condiviso, in quanto, come afferma Paris (2013, 113) nessuno è un’isola. Nelle problemati­cità legate al pensiero dicotomico, valorizzare l’altro in relazione non significa perdere la propria autonomia, così come apprezzare se stessi non ri­chiede l’isolamento.

La manipolazione affettiva del perverso genera nell’altro la convinzione di non poter fare a meno di tale rapporto, di essere inutile senza di esso, privo di valore, rendendo sempre più labili il si­gnificato intrinseco dell’amore. Riconoscersi come persona degna di stima, affetto e amorevo­lezza è il primo passo verso il perseguimento di un amore libero, rispettoso ed autentico, che non completa ma arricchisce.

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