La Psicologia Positiva


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La Psicologia Positiva (PP) è un approccio che si sviluppa a partire dal 2000 (Seligman, Csikszetmihalyi, 2000) e si inserisce all’interno di un panorama psicologico dominato dall’interesse per lo studio del disagio e dei problemi mentali, allo scopo di invitare i professionisti della salute mentale a porre maggiore attenzione al benessere e alla felicità delle persone (Dambrun, Dubuy, 2014). Il suo principale intento è quello di rivendicare il ruolo che le emozioni positive (felicità, gratitudine, realizzazione), i tratti positivi (ottimismo, resilienza, i punti di forza del carattere) e le istituzioni positive hanno nel rafforzare il benessere dell’individuo e della comunità, senza ignorare gli aspetti angoscianti della vita (Kobau et al., 2011). Tale spostamento di focus dalla patologia al funzionamento ottimale, è stato favorito da una nuova visione del concetto di salute: la salute non è più considerata come assenza di malattia, e questo rende necessario comprendere e promuovere tutti i fattori che permettono ai singoli individui, alle comunità e alle società di prosperare (ibidem).

Infatti, la PP, aderisce al paradigma biopsicosociale che considera la persona come il frutto dell’integrazione reciproca tra tre diverse componenti: biologica, psicologica e sociale (Engel, 1977). In particolar modo, a differenza del precedente modello biomedico, evidenzia l’impatto che le componenti psichiche e sociali esercitano nello stato di salute e rivendica il ruolo attivo dell’individuo nel determinare la propria condizione (Delle Fave, Bassi, 2007).

Le attività realizzate dalla PP si sono sviluppate a partire da due prospettive. La prima, definita edonica, caratterizzata da studi volti prevalentemente ad analizzare la dimensione del piacere, inteso come benessere prettamente personale e legato a sensazioni ed emozioni positive (Boniwell, 2015). La seconda, detta eudaimonica (riprende il concetto aristotelico di eudaimonia), si occupa di analizzare i fattori che favoriscono lo sviluppo e la realizzazione delle potenzialità individuali e dell’autentica natura umana (Seligman, Peterson, Park, 2005). L’eudaimonia, spesso confusa con il concetto di felicità, rappresenta uno stato di benessere che comprende non solamente la soddisfazione individuale, ma anche un percorso di sviluppo verso l’integrazione con il mondo circostante (Zambianchi, 2015). Infatti comprende un campo semantico molto più ampio rispetto alla felicità, in quanto implica un processo di integrazione e mutua influenza tra benessere individuale e collettivo, tale per cui la felicità individuale si realizza nell’ambito dello spazio sociale (ibidem).

Lo scopo principale della PP è quello di dare basi empiriche a temi come: il benessere, il flusso (flow), i punti di forza personali, la saggezza, la creatività, la salute psicologica, e le caratteristiche dei gruppi e delle istituzioni positive (Boniwell, 2015).

A questo proposito, il fine comune di tutti gli interventi realizzati dalla PP, è permettere alle persone di “fiorire”, di esercitare al meglio le proprie potenzialità, di raggiungere la massima espressione di sé e dei propri talenti (Laudadio, Mancuso, 2015).

L’articolo, è strutturato in quattro parti. La prima ha l’intento di offrire una descrizione degli avvenimenti che hanno contribuito alla nascita della PP. La seconda ha lo scopo di presentare i principi fondanti e gli elementi caratterizzanti la PP. La terza parte contiene una breve rassegna sul tema della felicità che parte dal benessere soggettivo fino a giungere al benessere psicologico e sociale. Infine, la quarta ed ultima parte, vuole chiarire lo stato attuale in cui si trova la PP e le sfide che è chiamata a superare.

Le origini della Psicologia Positiva

Sebbene la PP si sia sviluppata in tempi recenti presenta delle radici storiche molto antiche, persino riconducibili ai filosofi dell’antica Grecia (Zambianchi, 2015).

A questo proposito, non si contraddistingue per aver dato origine ad un approccio innovativo quanto, piuttosto, per aver recuperato e racchiuso attorno ad una cornice teorica, singoli temi come: il benessere, il flusso, i punti di forza personali, la saggezza, la creatività, l’ottimismo, la salute psicologica e le caratteristiche dei gruppi e delle istituzioni positive (Boniwell, 2015).

Come suggerito dallo stesso termine “positiva” nasce con il proposito di correggere lo squilibrio della psicologia verso la patologia, attraverso l’integrazione delle sue conoscenze sulle malattie mentali, con un più ampio interesse verso le emozioni positive, le potenzialità e le virtù (Seligman, 2005).

Infatti, la PP, si caratterizza per lo spostamento di focus dalla malattia alle risorse degli individui, dal dolore alla felicità, dai limiti alle opportunità (Laudadio, Mancuso, 2015). Tuttavia, se in precedenza, il principale obiettivo era quello di ridurre i sintomi, ora, diventa quello di favorire lo sviluppo dell’individuo (o del gruppo) attraverso la scoperta e il potenziamento delle sue risorse, allo scopo di promuovere la salute e la felicità (ibidem).

A questo proposito, la PP, si inserisce all’interno del paradigma biopsicosociale e adotta un modello di intervento di tipo preventivo-promozionale (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Nel seguente paragrafo sono riportati gli antecedenti storici che hanno contribuito alla nascita della PP e il paradigma teorico-applicativo al quale aderisce.

Le radici storiche

La PP non si vuole affermare come una disciplina innovativa bensì come una evoluzione delle prospettive precedenti (Laudadio, Mancuso, 2015).

A questo proposito, le sue radici possono essere già identificate nei filosofi dell’antica Grecia come Aristotele, il quale sosteneva che in ogni individuo fosse presente un dàimon, uno spirito personale, capace di indirizzarlo verso la propria felicità (Boniwell, 2015).

Pertanto, molti temi trattati dalla PP sono stati ripresi da illustri psicologi che se ne sono occupati in passato. Tra i più noti troviamo, C. V. Jung (1933) con il concetto di individualismo; M. Jahoda (1958) con la nozione di salute mentale; G. Allport (1955) con l’assunto di maturità individuale (Zambianchi,2015).

Infine, in tempi più recenti, il più importante antecedente della PP viene considerata la Psicologia Umanistica. Quest’ultima, nata intorno agli anni Cinquanta e sviluppatasi negli anni Sessanta e Settanta, si è da sempre interessata ad approfondire temi come la crescita personale e l’identificazione del sé autentico dell’individuo. Non a caso, Carl Rogers, introdusse il concetto di “funzionamento ottimale” della persona, e Abram Maslow, mise in evidenza l’importanza dell’autorealizzazione. Ma ciò che più di tutti accomuna la PP alla Psicologia Umanistica è la nota di criticità rivolta verso gli approcci alla persona focalizzati sulla patologia. Maslow è persino considerato il primo psicologo ad aver utilizzato il termine “psicologia positiva” (Boniwell, 2015). Tuttavia, occorre precisare che, nonostante le molteplici similitudini esistenti tra i due approcci psicologici, ciò che li contraddistingue è la metodologia utilizzata: mentre la Psicologia Umanistica rivendica l’utilizzo di un metodo qualitativo capace di comprendere l’individuo nella sua complessità; la PP, si avvale dell’utilizzo di metodologie scientifiche per garantire una solida base empirica ai contenuti trattati (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

A questo proposito, così come è possibile scorgere un legame tra la PP e Psicologia Umanistica determinato dagli argomenti d’interesse, è altrettanto possibile coglierlo con la Psicologia Cognitiva per quanto concerne la metodologia e le tecniche di studio e, infine, con la Psicologia della Salute e la Psicologia di Comunità, per quanto riguarda gli ambiti d’intervento (Laudadio, Mancuso, 2015).

Da quanto detto sin ora traspare come la PP non rappresenti una vera e propria innovazione, tuttavia, è necessario riconoscere il suo grande merito: quello di offrire una visione sistemica e olistica ai diversi contenuti presenti in letteratura riguardanti tutto ciò che rende la vita migliore e soddisfacente, con il proposito di favorire il loro sviluppo (ibidem). Infatti, grazie alla PP temi come la creatività, l’ottimismo e la saggezza hanno finalmente trovato posto all’interno di una grande teoria unificatrice o altrimenti definita come un ampio e complesso quadro di riferimento (Boniwell, 2015).

Cornice storica

Per comprendere a pieno l’essenza della PP è opportuno chiarire il contesto storico in cui si inserisce. Proprio per questo, è bene precisare che la necessità di operare una distinzione tra Psicologia e Psicologia Positiva nasce nel panorama occidentale. Infatti, in altri contesti culturali, non si è mai rilevata tale esigenza proprio perché non è stata in nessun modo coltivata una visione negativa e patologica dell’uomo e della sua realtà sociale. Al contrario, la psicologia occidentale, non si è mai esplicitamente occupata di studiare le caratteristiche degli individui soddisfatti e delle comunità fiorenti (Goldwurm, Colombo, 2010).

Per comprendere meglio, è necessario andare a ritroso, più precisamente, prima della Seconda Guerra Mondiale, in cui la psicologia aveva tre obiettivi fondamentali: curare le malattie mentali, migliorare la vita delle persone normali, individuare e coltivare i talenti (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

A seguito della guerra, due importanti eventi cambiarono l’identità della psicologia: la fondazione nel 1946 della Veteran’s Administration Act, che a livello pratico era intenta ad occuparsi dei veterani emotivamente scossi; e la nascita nel 1947 del National Institute of Mental Health in cui si ritrovavano gli psicologi accademici dediti allo studio di soggetti psichicamente disturbati. Tuttavia, entrambi gli avvenimenti spinsero notevolmente gli psicologi nel realizzare studi e ricerche sulla psicopatologia, perdendo completamente di vista l’obiettivo di migliorare la vita delle persone normali e quello di individuare e coltivare i migliori talenti (Fata, 2004).

Nonostante i suoi numerosi limiti, l’attenzione verso la patologia ha permesso di apportare enormi progressi nella comprensione e trattamento dei disturbi mentali. Finalmente, infatti, si è arrivati a conoscere la cura e il trattamento di quattordici disturbi mentali in precedenza considerati intrattabili (tra cui la depressione, i disturbi di personalità, gli attacchi di ansia) (Boniwell, 2015).

In questo modo la psicologia risultava essere una vera e propria sotto-branca della medicina agli occhi della quale l’individuo appariva come un essere passivo e lo psicologo ricopriva il ruolo negativo di “vittimologo” (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

In un secondo momento, il focus della psicologia si è spostato verso la valutazione e la cura della sofferenza umana. Presero avvio numerose ricerche intente ad identificare gli effetti negativi che producevano nella vita degli individui fattori ambientali come: il divorzio dei genitori, la morte, l’abuso fisico e psicologico (Seligman, 2002).

L’iniziale interesse della psicologia rispetto le grandi patologie mentali e il successivo interesse verso la sofferenza umana erano accomunati da una prospettiva di intervento psicopatologica ma, allo stesso tempo, avevano come differenza i limiti dai quali dipendevano gli studi. Se precedentemente il limite era rappresentato dalle patologie umane, successivamente, l’ambito di studio arrivò a ricoprire l’intera vita umana, basandosi sull’identificazione dei fattori capaci di limitare l’individuo nella sua libertà e nel suo sviluppo (Laudadio, Mancuso, 2015).

Secondo Seligman (2005), questa eccessiva attenzione per la patologia aveva totalmente trascurato l’idea di un individuo soddisfatto e di una possibile comunità fiorente, oltre che l’importanza di potenziare il benessere individuale e collettivo come arma vincente contro ogni forma di disagio.

Rivendica in questo modo la necessità di dare luce ad una psicologia non solamente interessata alla patologia e alla sofferenza ma soprattutto capace di comprendere al suo interno anche lo studio della forza delle virtù umane (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Questa esigenza dell’autore è nata soprattutto grazie ad una sua curiosità. Egli voleva comprendere “il perché” a seguito delle condizioni di precarietà determinate dalla Seconda Guerra Mondiale alcune persone che in precedenza erano fiduciose e di successo, diventavano sfiduciate e depresse; mentre, al contrario, molte altre, riuscivano a mantenere la loro integrità e la loro serenità. Per dare una spiegazione a tale dilemma, l’unico modo era conoscere quali erano i punti di forza di questi individui. Fu proprio questo aneddoto a far risvegliare nell’autore l’interesse verso lo studio dei punti di forza e delle virtù che hanno a che fare con il lavoro, l’educazione, l’introspezione, l’amore, la crescita, il gioco (Fata, 2004).

Nacque così la PP con l’intento di correggere lo squilibrio della psicologia verso la patologia, attraverso l’integrazione delle sue conoscenze sulle malattie mentali con un più ampio interesse sulle emozioni positive, le potenzialità e le virtù (Seligman, 2005).

Proprio per sottolineare la necessità di prendere le distanze da un’esclusiva attenzione verso aspetti negativi degli individui, Peterson e Seligman (2004) con la pubblicazione del “VIA-IS” (Values in Action Inventory of Strengths) hanno voluto dare forma ad un manuale che fosse opposto al “DSM” (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) e che si occupasse di dare voce anche agli aspetti positivi dell’uomo. Infatti, all’interno del VIA-IS è presente un elenco di 6 Virtù e 24 Punti di forza umani.

Paradigma di riferimento

Sulla base di quanto sostenuto nel paragrafo precedente è possibile collocare la PP all’interno del paradigma biopsicosociale, proprio per la volontà dei suoi fondatori di realizzare importanti cambiamenti nel panorama psicologico: ovvero passare dalla preoccupazione di curare la malattia all’individuazione delle strategie volte a garantire le migliori condizioni di vita attraverso un’ottica preventivo-promozionale (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

È importante precisare che cosa si intende per modello biomedico e per modello biopsicosociale in quanto ognuno di essi, con le proprie concettualizzazioni della salute e della malattia, hanno influenzato, in diverso modo, gli ambiti di studio e la pratica clinica (Zani, Cicognani, 2000).

Infatti, come si può evincere dalla direzione degli studi e degli interventi psicologici prima della Seconda Guerra Mondiale, la psicologia, faceva perno ad un paradigma di tipo biomedico. Quest’ultimo si lega radicalmente alla prospettiva filosofica cartesiana per quanto riguarda la presenza del dualismo mente-corpo (Zambianchi, 2015). Secondo tale impostazione, piuttosto riduzionista, la malattia è considerata come una deviazione dalla norma di variabili biologiche misurabili. Si presuppone, perciò, che per ogni malattia esista una causa biologica primaria e oggettivamente identificabile (Zani, Cicognani, 2000). In questo modo, la salute coincide con la mera assenza di malattia (Zambianchi, 2015), perdendo completamente di vista tutte le possibili influenze che i fattori comportamentali e i problemi sociopsicologici potevano avere sulla salute individuale (Zani, Cicognani, 2000).

Si tratta, pertanto, di un modello centrato sulla malattia secondo il quale la figura del medico esercita un notevole contributo nel processo di cura e il paziente viene raffigurato come il portatore passivo di un problema (Bertini, 2012).

George Libman Engel (1964), all’interno di un illustre articolo pubblicato nella rivista Science, evidenzia i limiti della concezione meccanicistica e riduzionista e sottolinea la necessità di adottare un approccio di tipo sistemico-integrato al tema della malattia e della salute (Zambianchi, 2015). Egli afferma: “Il modello biomedico non solo richiede che la malattia sia trattata come un’entità indipendente dal comportamento sociale, ma pretende anche che le deviazioni comportamentali siano spiegate sulla base di processi somatici (biochimici e neurofisiologici) disturbati. Così questo modello abbraccia sia il riduzionismo – la prospettiva filosofica, dogmatica, in base alla quale i fenomeni complessi derivano in definitiva da un singolo principio primario – sia il dualismo mente-corpo – la dottrina che separa il mentale dal somatico” (Engel, 1977, 130).

Dalle parole dell’autore emergono i numerosi limiti del modello biomedico: la presenza del dualismo mente-corpo, il riduzionismo, l’incapacità di descrivere e spiegare la complessità del concetto di salute perdendo di vista l’influenza dei fattori psicologici e ambientali, oltre che l’impossibilità di dare avvio ad un’azione preventiva non solamente incentrata alla riduzione delle malattie croniche (Zani, Cicognani, 2000).

Nonostante i numerosi limiti, occorre anche riconoscere i contributi apportati da tale modello per quanto concerne lo sviluppo di nuove metodologie di trattamento e cura di importanti disturbi mentali (Bertini, 2012).

Tuttavia, intorno agli anni Settanta del secolo scorso si rilevò il passaggio di paradigma: dal quello biomedico a quello biopsicosociale. Questo cambiamento apportò delle vere e proprie innovazioni nello studio della salute e del benessere per mezzo dell’integrazione tra i fattori di natura biologica e i fattori di origine psicologica e sociale, nel mantenimento della salute intesa come funzionamento ottimale (Zambianchi, 2015).

Il modello biopsicosociale è fondato sulla teoria generale dei sistemi, che mira a superare il vecchio dogma psiche-soma, allo scopo di giungere ad una concezione di malattia che tenga conto dell’interazione dinamica di fattori multipli. Tale modello evidenza l’importanza sia della specificità dei livelli di analisi, sia l’interdipendenza tra i livelli stessi (Bertini, 2012). Infatti, le tre dimensioni del modello – biologica, psicologica e sociale – contribuiscono singolarmente alla salute dell’individuo e, contemporaneamente, si integrano e si influenzano a vicenda (Delle Fave, Bassi, 2007). Tutto ciò richiede la necessità di integrazione/interazione tra i diversi livelli di analisi (interdisciplinarità) e tra i ruoli professionali diversi (Zani, Cicognani, 2000).

Sono molte le differenze visibili nel modello biopsicosociale rispetto al precedente modello biomedico. Finalmente, al paziente viene attribuito un ruolo centrale in quanto visto come un essere attivo e perciò in grado, non solamente di partecipare al processo di cura (pianificazione del trattamento da seguire) e nella fase di prevenzione (abbandono di comportamenti nocivi a favore di comportamenti salutari), ma anche di fornire una misura soggettiva al proprio stato (Delle Fave, Bassi, 2007). In questo senso, viene considerato importante, sia la forza del cliente e la sua capacità di autodeterminarsi, sia il rispetto dell’unicità dell’individuo e delle sue peculiarità e differenze (Laudadio, Mancuso, 2015). Un altro cambiamento considerato significativo è la visione che il modello biopsicosociale sviluppa della malattia. Quest’ultima, non coincide solamente con uno stato negativo, al contrario, viene considerata come un’opportunità di crescita sul piano psicologico (Zambianchi, 2015).

Anche questo paradigma non è esente da critiche. La principale riguarda il fatto di non aver né specificato la tipologia di legame esistente tra le componenti biologiche, psicologiche e sociali; né le metodologie di indagine più adeguate per analizzarle (Delle Fave, Bassi, 2007).

Tuttavia, sono numerosi i pregi attribuiti a questa nuova prospettiva.

Uno dei principali è quello di aver sollevato il problema della complessità del concetto di salute evidenziando la necessità di una stretta interdipendenza tra le diverse discipline che si occupano di salute, come: la medicina, la psicologia, la sociologia e l’antropologia (Bertini, 2012). Inoltre, la prevenzione ha iniziato, finalmente, a spostare la sua attenzione sulla necessità di impedire la comparsa del disturbo, anziché intervenire a posteriori per contenerlo o minimizzarne gli effetti. E, per la prima volta, ha iniziato a comparire il concetto di promozione della salute positiva, intesa come la risultante di uno stato di benessere individuale e sociale (Seligman, 2008). Questo lascia presagire l’importanza affidata all’influenza che il sociale esercita nello stato di malattia ma soprattutto di salute (Zani, Cicognani, 2000).

Pertanto, grazie al paradigma biopsicosociale, la psicologia ha iniziato ad occuparsi non soltanto della patologia ma soprattutto del modo attraverso il quale è possibile rendere più forti e produttive le persone sane, dando anche ampio spazio all’espressione delle potenzialità umane più elevate (Fata, 2004).

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha introdotto così il concetto di “funzionamento” in quanto consente di valutare, anziché la gravità di un disturbo o di una patologia, il grado di salute degli individui inteso nella sua complessità e multidimensionalità (abilità di realizzare le proprie aspettative, di soddisfare i propri bisogni, di interagire in maniera adattiva con il contesto sociale) (Zambianchi, 2015). Non a caso, l’ultima definizione di salute formalizzata dall’OMS ritiene che questa si identifichi con “uno stato di benessere in cui l’individuo realizza le proprie capacità, può gestire le normali situazioni di stress della vita, può lavorare produttivamente ed è in grado di contribuire attivamente alla propria comunità (OMS; 2004, 12).

Infine, sulla base di quanto detto, è possibile collocare la PP all’interno del paradigma biopsicosociale soprattutto per l’importanza affidata alla necessità di non focalizzarsi troppo sulla patologia e di iniziare a dare maggiore spazio agli aspetti costruttivi, creativi e propositivi di individui e gruppi (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000). Pertanto, in accordo con il modello biopsicosociale, la PP si fa portavoce di una nuova psicologia interessata a valorizzare le dimensioni positive, costruttive del funzionamento individuale; le risorse e i processi che permettono ai soggetti di affrontare le situazioni critiche ma soprattutto di crescere sul piano psicologico, trovando in esse significati utili a favorire una più profonda comprensione di sé e delle relazioni con gli altri (Zambianchi, 2015).

La nascita della PP

L’idea di dare forma ad una psicologia non più interessata esclusivamente alla patologia fluttuava nella mente di Seligman ancor prima della sua elezione come presidente dell’APA (American Psychological Association). L’evento che l’autore considera “catartico” nell’averlo ispirato a sviluppare i principi e i fondamenti della PP è una conversazione con sua figlia Nikki, avvenuta poco dopo aver ricevuto la nomina di presidente dell’APA nel 1998 (Seligman, 2005).

Tuttavia, la nascita ufficiale della PP risale al 2000, anno in cui Seligman e Csikszentmihalyi, hanno pubblicato un numero monografico nella rivista American Psychologist (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Nel seguente paragrafo sono riportati, in maniera dettagliata, tali avvenimenti e viene offerta la descrizione degli elementi caratterizzanti la PP.

Perché Psicologia Positiva

La nascita ufficiale della PP coincide con la pubblicazione di un numero monografico scritto da Martin E.P. Seligman e Mihaly Csikszentmihalyi e pubblicato nel 2000 all’interno della rivista American Psychologyst (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Seligman, ancor prima dell’anno della sua elezione, avvenuta nel 1998, come presidente dell’APA (American Psychological Association), aveva iniziato a discostarsi dall’enfasi esclusiva rivolta verso lo scoprire il deficit e rimediare ai danni. Dagli esiti di numerose terapie, si era reso conto che, grazie al protocollo basato sulla patologia, i pazienti miglioravano ma, allo stesso tempo, molti di essi, registravano dei cambiamenti in positivo determinati da circostanze che non potevano essere ricondotte a quel protocollo. Ben presto notò che se, nel corso della terapia, dava spazio all’individuazione e allo sviluppo delle potenzialità umane presenti nel paziente, queste esercitavano una sorta di “effetto tampone” contro le varie patologie (Seligman, 2005). Tali riflessioni lo spinsero, una volta divenuto presidente dell’APA, a formulare come obiettivo del suo mandato la “prevenzione” in quanto, a suo avviso, la terapia agiva troppo in ritardo mentre la prevenzione avrebbe permesso di risparmiare un sacco di problemi. L’azione preventiva immaginata da Seligman, non consisteva nel rimediare al deficit (in linea con il protocollo biomedico), al contrario, si basava sul riconoscimento e la valorizzazione di potenzialità, doni e virtù (come ad esempio la progettualità, la speranza, l’attitudine ai rapporti interpersonali, il coraggio, la capacità di appassionarsi a qualcosa, il buon umore, la fiducia, l’etica del lavoro) come antidoto contro i problemi che espongono l’individuo al rischio di una malattia mentale (ibidem).

Seligman sostiene che, in concomitanza con la sua nomina di presidente dell’APA, l’evento che più di tutti lo ispirò nel concettualizzare quelli che poi sarebbero diventati i principi della PP fu una conversazione che fece con sua figlia Nikki (Laudadio, Mancuso, 2015).

In quel giorno, lo psicologo, si trovava nel giardino di casa intento a togliere le erbacce mentre, sua figlia Nikki, di cinque anni, giocava a lanciare e cospargere per tutto il giardino le stesse erbacce che con tanta fatica cercava di eliminare. A causa di ciò, Seligman sgridò Nikki, ma quest’ultima prontamente gli rispose: “Papi ricordi prima del mio quinto compleanno? Dai tre anni in su ero stata una barba. Facevo i capricci tutti i giorni. Ma quando ho compiuto cinque anni, ho deciso che basta, non l’avrei più fatto. È stato difficilissimo. E se io sono riuscita a non fare più i capricci, tu la puoi smettere di essere così musone” (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000,6).

Questo dialogo servì a Seligman per comprendere molte cose, prima fra tutte, la necessità di modificare il modo di allevare i figli. Sarebbe stato molto più produttivo, anziché correggere i limiti di sua figlia, concentrarsi nell’incrementare le sue potenzialità, così da renderla più forte di fronte alle sue debolezze e alle avversità che avrebbe incontrato nella vita (Seligman, 2005).

Secondo l’autore, lo stesso principio doveva iniziare a guidare anche la pratica clinica. Tale consapevolezza, lo spinse a dare origine ad una psicologia non più interessata alla sofferenza, quanto piuttosto alle risorse degli individui (come gentilezza d’animo, cordialità, creatività, autonomia, rispetto per la vita) con la missione di guidarli verso la felicità e il benessere attraverso l’incremento di tutte quelle potenzialità e virtù capaci di originare emozioni positive (come soddisfazione, felicità, speranza) (ibidem).

Gli elementi caratterizzanti

Seligman e Csikszentmihalyi definiscono la PP come: “lo studio scientifico del funzionamento ottimale dell’uomo, il cui obiettivo è scoprire e favorire i fattori che permettono agli individui e alle comunità di prosperare” (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000, 5).

Lo stesso termine “positiva” lascia intendere che, l’oggetto di interesse, sono le emozioni positive (come felicità, gratitudine e realizzazione), i tratti positivi (come ottimismo, resilienza, i punti di forza del carattere) e le istituzioni positive; con l’intento di apportare il proprio contributo rispetto a tutto ciò che riguarda la salute e il benessere umano (Seligman, Steen, Park, Peterson, 2005).

Proprio per questo, il suo scopo principale è: “catalizzare una modificazione dell’interesse centrale della psicologia, spostandolo dalla preoccupazione di porre rimedio agli aspetti peggiori della vita alla costruzione anche di qualità positive” (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000, 5).

Infatti, le ricerche realizzate dagli psicologi positivi, si propongono di “integrare” e non “sostituire” tutto ciò che si conosce riguardo alla sofferenza, alle debolezze e ai disturbi umani. Questo perché, la PP, parte dal presupposto che una scienza completa e un’altrettanta completa pratica della psicologia dovrebbero includere una comprensione sia della sofferenza che della felicità, così come del carattere della loro interazione, oltre che interventi scientificamente fondati volti ad alleviare la sofferenza e accrescere la felicità (Seligman, Steen, Park, Peterson, 2005).

Secondo la PP, promuovere i punti di forza e il benessere della persona rappresenta un vero e proprio antidoto per contrastare lo sviluppo dei deficit e dei disturbi mentali e consente di migliorare, allo stesso tempo, la comprensione dell’eziologia e dei trattamenti efficaci a contrastare i disturbi mentali resistenti. Quello di cui si vuole fare portavoce è la valorizzazione dell’azione preventiva-promozionale: liberare la persona dalla propria patologia, molto spesso, non basta a garantirle una condizione di benessere. Ciò che, invece, ritiene necessario fare è occuparsi di far “fiorire” la persona, garantendole una piena salute mentale caratterizzata da condizioni positive in termini di capacità e funzionamento (Goldwurm, Colombo, 2010).

Da quanto detto sin ora, emerge l’impegno mostrato dalla PP nel cercare di riequilibrare il campo di azione psicologico facendo in modo di integrare al suo interno l’interesse, sia per la cura delle patologie, sia per rendere la vita degli individui migliore dando ampio spazio allo sviluppo delle risorse e dei talenti personali (Laudadio, Mancuso, 2015).

La PP opera su tre livelli differenti: soggettivo, individuale e di gruppo.

Il livello soggettivo riguarda lo studio di esperienze positive come: il benessere, la soddisfazione rispetto al passato; la speranza e l’ottimismo per il futuro; il flusso e la felicità nel presente (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000). Questo livello si fonda soprattutto sul sentirsi bene piuttosto che il fare buone cose o l’essere una buona persona (Boniwell, 2015).

Il livello individuale si occupa di identificare gli elementi che costituiscono una “buona vita” e i tratti individuali determinanti per essere una “buona persona”. Di conseguenza l’oggetto di studio sono: l’amore e la vocazione; il coraggio; le capacità interpersonali; la sensibilità verso gli altri; la perseveranza; il perdono; l’originalità; la capacità di proiettarsi nel futuro; la spiritualità; il talento; e la saggezza (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Il livello di gruppo o di comunità si interessa delle virtù civiche e delle istituzioni capaci di rendere gli individui dei buoni cittadini (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000). Tuttavia, pone l’accento sulle azioni o i comportamenti positivi da rivolgere verso qualcosa di più grande e diverso da noi stessi (Boniwell, 2015). A questo proposito, si propone di studiare: le virtù civiche; la responsabilità sociale; il prendersi cura degli altri; l’altruismo; la civiltà; la moderazione; la tolleranza; e il lavoro etico (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000).

Felicità o benessere?

La felicità è un tema che fa discutere sin dai tempi più antichi: scrittori, poeti, filosofi, persone comuni, si sono trovati a pensare, interpretare e spiegare questo stato (Boniwell, 2015).

Come descritto nei paragrafi precedenti, la psicologia, a partire dal ‘900 fino a pochi anni fa, ha preso raramente in considerazione il tema della felicità, focalizzandosi, in particolar modo, sulla psicopatologia (Laudadio, Mancuso, 2015).

A questo proposito, la PP, ha voluto recuperare l’interesse per tale costrutto sino al punto di renderlo parte integrante della sua essenza. È così che, Boniwell, una delle più note psicologhe positive, l’ha definita come: “la scienza della felicità, del benessere e del fiorire” (Boniwell, 2015, 9).

Il motivo per il quale la PP considera così importante occuparsi della felicità risiede nel fatto che quest’ultima ha delle notevoli implicazioni nella vita umana (Seligman, Steen, Peterson, 2005). Sono, infatti, molteplici le ricerche in grado di testimoniare che, le persone felici, vantano di migliori condizioni di salute, sono maggiormente creative e soddisfatte del proprio lavoro, hanno un’intensa vita sociale e grande successo nella vita (Seligman, 2013). Uno studio esemplare condotto da Danner, Snowdon e Friesen (2001), su un campione di suore ha persino dimostrato che la felicità interferisce sulla longevità delle persone.

In passato si pensava che la felicità rappresentasse una qualità ereditabile, oggi, grazie alle nuove scoperte, sappiamo di possedere un grande potere nell’elevare il nostro livello di felicità (Lyubomirsky et al., 2005). È proprio sulla scia di questa scoperta che, la PP, sin dalla sua nascita, si è posta l’obiettivo di aiutare le persone a “costruire la propria felicità” realizzando interventi finalizzati a favorire la massima espressione di sé, dei propri talenti e delle proprie potenzialità (Laudadio, Mancuso, 2015).

La parola “felicità” deriva dal verbo feo che significa produco o fecondo. Ciò lascia intendere come la felicità sia la risultante delle nostre azioni migliori attraverso le quali generiamo, produciamo, creiamo e sviluppiamo. In questo senso, essere felici, non dipende dagli effetti che l’ambiente ha su di noi, bensì dalla nostra capacità di adattarci al suo interno e di produrre azioni in grado di renderlo fecondo (ibidem).

I primi studi sulla felicità sono stati condotti da Aristoppo e Aristotele: il primo parla di felicità edonica e il secondo sviluppa il concetto di felicità eudaimonica. Secondo Aristoppo, la felicità, è determinata dal piacere, proprio per questo, lo scopo della vita diventa massimizzare le esperienze di piacere e minimizzare quelle di dolore, andando costantemente alla ricerca di un maggior livello di piacere (Zambianchi, 2015). Aristotele, si pone in contrasto con questa concezione di piacere sensoriale, facendosi promotore di una teoria della felicità che esalta l’agentività umana. Egli, infatti, sviluppa il concetto di eudaimonia descritto nell’Etica Nicomachea come la risultante della piena attuazione delle potenzialità individuali (Seligman, Peterson, Park, 2005).

A partire da queste due concettualizzazioni, e riprendendo i contributi forniti dagli autori che si sono occupati di elaborare una propria teoria della felicità, la PP, ha lavorato affinché si arrivasse a formulare una teoria di riferimento unitaria, capace di superare lo stato di confusione generato dalle varie concettualizzazioni esistenti (Laudadio, Mancuso, 2015).

Nei seguenti paragrafi sono riportate le diverse evoluzioni che la teoria della felicità ha subito all’interno della PP.

Benessere soggettivo

Il benessere soggettivo è anche detto benessere edonico poiché riprende la concezione di benessere come edonia proposta da Aristoppo (435-360 a.C. ca.). Quest’ultimo pensava che la felicità derivasse dalla totalità dei momenti di piacere sperimentati da ciascuno (Zambianchi, 2015).

In questo paragrafo i termini “felicità” e “benessere” verranno utilizzati in modo interscambiabile in quanto, secondo la letteratura scientifica, il concetto di benessere soggettivo (subjective well-being, SWB) equivale a quello di felicità (Boniwell, 2015).

Il benessere edonico viene definito da Diener e Lucas (1999) come il risultato delle valutazioni che le persone elaborano circa la propria vita sia in termini affettivi che in quelli cognitivi.

Sinteticamente, può essere schematizzato nel seguente modo:

BENESSERE SOGGETTIVO

SODDISFAZIONE DI VITA + STATO AFFETTIVO

La soddisfazione di vita rappresenta la valutazione cognitiva che il soggetto fa rispetto alla propria vita. La persona può considerarsi soddisfatta nella misura in cui vi è poca o nessuna discrepanza tra lo stato presente e quello ideale. L’insoddisfazione, invece, può emergere, sia nel caso in cui si manifesta una discrepanza significativa tra la condizione presente e il criterio ideale, sia dopo un confronto realizzato con altre persone (Boniwell, 2015).

Lo stato affettivo richiama le emozioni che accompagnano le nostre esperienze quotidiane che possono essere di tono positivo (come la gioia, la riconoscenza) oppure di tono negativo (come la rabbia, il dolore, l’indignazione). Il benessere emozionale esperito dipende dalla frequenza con cui vengono provate emozioni positive o negative, e non dalla loro intensità (Diener, Larsen, 1993). Infatti, mentre è importante che gli stati affettivi positivi siano frequenti, l’intensità non è una condizione necessaria per il benessere. Questo perché le emozioni positive intense hanno anche uno scotto da pagare in quanto sono, spesso, seguite da stati affettivi più deboli. Inoltre, possono influire negativamente sulla valutazione delle esperienze positive successive (e generalmente meno intense) (Diener, Sandvik, Pavot, 1991).

Ognuna delle componenti generali che costituiscono il benessere soggettivo può essere scomposta in elementi più specifici e legati a precisi ambiti di vita. Ad esempio si può parlare di soddisfazione per la vita facendo riferimento all’ambito familiare, sociale o lavorativo. Mentre, quando si parla di benessere emozionale, sarebbe bene valutare in che livello si manifesta in ciascun ambito. Un soggetto può registrare un alto livello di benessere emozionale in famiglia, ma molto basso nel contesto lavorativo, e intermedio nell’ambito delle amicizie (Zambianchi, 2015).

Dai risultati emersi in numerose ricerche è testimoniato lo stretto legame tra il benessere soggettivo e l’ottimismo, l’estroversione, i legami sociali (in particolare gli amici stretti), il matrimonio o la convivenza, la religione o la spiritualità, le attività di svago, la qualità del sonno, l’esercizio fisico, la classe sociale (a causa delle differenze nello stile di vita e nelle strategie di coping), la salute soggettiva (ciò che pensiamo della nostra salute) (Boniwell, 2015, 53).

La volontà dimostrata dalla PP nel correggere lo squilibrio della psicologia verso il disagio e le emozioni negative in favore di un’adeguata integrazione con conoscenze e dati sulle emozioni positive, ha fatto sì che i primi studi condotti sulla felicità si siano incentrati sull’emotività positiva (Laudadio, Mancuso, 2015).

Uno degli studi più famosi sulle emozioni positive e longevità è stato realizzato su un campione di 180 suore. La ricerca prevedeva la realizzazione di un’accurata analisi delle autobiografie scritte a conclusione del noviziato da tutte le suore. Quando venne quantificato il tasso di sensazioni positive espresse negli scritti, si notò che le suore più allegre erano proprio quelle che vivevano più a lungo (Danner et al., 2001). Tale studio ha permesso di rilevare come un’unica immagine di momentanea emozione positiva sia sufficiente per avanzare ipotesi rispetto la longevità, la felicità, la soddisfazione esistenziale (Laudadio, Mancuso, 2015).

Barbara Fredrickson, ricercatrice dell’Università della Carolina del Nord e tra le più esperte sull’argomento, ha stilato l’elenco delle emozioni positive più comuni: gioia, gratitudine, serenità, interesse, speranza, orgoglio, divertimento, ispirazione, ammirazione e amore (Achor, 2012).

L’autrice ha elaborato la Broaden-and-Build Theory (Fredrickson, 2001) nella quale descrive il ruolo evolutivo delle emozioni positive, che va ben oltre il piacere che provocano. Invece di limitare le nostre azioni come fanno le emozioni negative, quelle positive, aumentano il numero di possibilità che processiamo, rendendoci più riflessivi, creativi e aperti a nuove idee. Provare emozioni positive non ci rende solamente più creativi, ma favorisce un ampliamento delle nostre risorse intellettuali, fisiche e sociali di base, costituendo riserve a cui possiamo attingere quando si presenta una minaccia o un’opportunità (Fredrickson, 2001).

Quando ci troviamo in uno stato d’animo positivo, riusciamo persino a percepire con maggiore attenzione quello che c’è intorno a noi. Questo è proprio quello che è stato dimostrato in un recente studio realizzato all’Università di Toronto che ha rilevato come uno stato di umore positivo produce un notevole impatto sul modo in cui la corteccia visiva, parte del cervello responsabile della vista, processa le informazioni. Infatti, assumere un atteggiamento positivo ci consente di espandere la nostra visione periferica e, di conseguenza, cogliere elementi della realtà che altrimenti non riusciremmo ad osservare (Schmitz et al., 2009).

Come dimostrato da molteplici ricerche, le emozioni positive agiscono come antidoto contro lo stress fisico e l’ansia, e a sua volta migliorano la nostra concentrazione e la nostra abilità di funzionare ai massimi livelli (Fredrickson et al., 2000).

Inoltre, per mezzo di un esperimento in cui i ricercatori, dopo aver somministrato un questionario volto a rilevare il livello di felicità, hanno iniettato ad alcuni individui una dose di virus del raffreddore, è possibile rilevare come le emozioni positive rappresentano la causa diretta della buona salute: coloro che erano più felici avevano combattuto il raffreddore molto meglio rispetto alle persone meno felici (Cohen et al., 2003).

Secondo Seligman, trovarci in uno stato d’animo positivo ci permette di avere un rapporto migliore con il mondo: piacciamo di più alla gente, e aumentano le probabilità che nascano amicizie, coalizioni, amori. All’inverso di quanto accade quando proviamo emozioni negative, la nostra disposizione mentale è espansiva, tollerante, creativa. Siamo aperti a nuove idee e a nuove esperienze (Seligman, 2005). Risulta chiaro come l’emotività positiva rappresenti un ottimo indicatore per pronosticare sopravvivenza, mortalità e invalidità (ibidem).

L’importanza che Seligman affida all’emotività positiva è identificabile nella sua formula della felicità. Quest’ultima, presentata per la prima volta nel 2002 all’interno del celebre libro la Costruzione della felicità, è caratterizzata da tre elementi:

  • Emozione Positiva (Positive Emotion): si riferisce alle gratificazioni derivanti dai sensi (gioia, piacere, calore);

  • Coinvolgimento (Engagement): si riferisce a quelle attività che le persone scelgono in quanto capaci di condurre a delle esperienze ottimali;

  • Significato (Meaning): si riferisce alla ricerca di uno scopo nella vita, di un senso, andare al di là della propria individualità e mettere i propri talenti al servizio degli altri, contribuendo al benessere del mondo in generale (Seligman, 2005).

Secondo Seligman e da quanto dimostrato in numerose ricerche, le persone che si dichiarano più contente e soddisfatte, sono quelle che orientano la loro vita in tutte e tre le dimensioni (Salmaso, 2008).

Tuttavia, in linea con i risultati delle ricerche, la PP, ha ritenuto necessario precisare un importante intento: aiutare le persone a controllare e potenziare il loro benessere emotivo (Achor, 2012). Questo ha indotto diversi autori a formulare una teoria su come accrescere il livello di felicità degli individui (Laudadio, Mancuso, 2015).

Per necessità di sintesi ho scelto di riportare la seguente formula della felicità elaborata da Seligman (2002):

H = S + C + V

H” (Happiness) indica il livello permanente di felicità, “S” (Set range) la quota fissa personale di felicità, “C” le circostanze della vita, e “V” i fattori che dipendono dal nostro controllo volontario.

Con la lettera “H”, Seligman, intende il livello di felicità permanente presente nella persona. A questo proposito ci tiene a precisare che la felicità permanente è ben differente dalla felicità momentanea. Quest’ultima può essere incrementata facilmente da una molteplicità di stimoli (un vestito nuovo, una cioccolata, un mazzo di fiori, un complimento), ma interviene esclusivamente sulle sensazioni momentanee. Quello che interessa a Seligman è, invece, incrementare la felicità permanente, in quanto stabile e duratura (Seligman, 2005).

Con la lettera “S” fa riferimento a due elementi che interferiscono sul nostro livello di felicità: l’eredità genetica (fattore che determina fino il 50% della felicità) e la “macina edonistica”, ovvero la nostra tendenza ad adattarci alle cose positive, fino al punto di darle per scontate. Collegandosi all’eredità genetica, l’autore, parla di un termostato della felicità, per indicare come ciascuno di noi possegga una “quota fissa” di felicità che, inevitabilmente torna, dopo un certo lasso di tempo. Tuttavia, sia nella circostanza in cui abbiamo la fortuna di vivere un evento gioioso sia in un momento di sventura, il nostro termostato della felicità tenderà a riportare la nostra felicità al suo livello abituale (ibidem).

Con la lettera “C” intende le circostanze della vita che, in alcuni casi (10% circa) influenzano il livello di felicità (denaro, matrimonio, vita sociale. Istruzione, salute). Infatti, le ricerche testimoniano che, a differenza di come si pensava anni fa, avere un buono stipendio, essere giovani, registrare buone condizioni di salute e possedere una buona istruzione, influisce solo in piccola parte sul nostro livello di felicità. Ad esempio, si è notato che la crescita del reddito provoca la crescita del livello di felicità individuale solo fino ad un certo punto, al di là del quale il denaro non provoca più felicità (Laudadio, Mancuso, 2015).

L’aspetto ambientale che più di tutti sembra influire sul livello di felicità è la presenza di una ricca rete di relazioni sociali (Boniwell, 2015). Diener e Seligman (2002) hanno realizzato una ricerca su un gruppo di studenti universitari risultati eccezionalmente felici. I risultati hanno evidenziato un’unica differenza fra gli studenti più felici e gli altri: i più felici avevano una vita sociale ricca e appagante: trascorrevano meno tempo soli, erano in buoni rapporti con gli amici e avevano una relazione sentimentale.

L’elemento sul quale Seligman suggerisce di focalizzarci è il “V”: i fattori individuali alla base della nostra felicità, aspetti che dipendono dalla nostra volontà. L’autore considera importante agire su di essi in quanto possono determinare un cambiamento durevole. Tuttavia, lo stato di benessere non può dipendere da un singolo evento, ma è il risultato dell’intreccio tra passato, presente e futuro. Per questo è importante agire sui fattori personali, legati al controllo volontario, dando origine ad un lavoro combinato su dimensioni del passato (sviluppare gratitudine e perdono), del presente (riconoscere, potenziare e mettere in azione i nostri punti di forza) e del futuro (sviluppare l’ottimismo e speranza) (Seligman, 2005).

Benessere psicologico

Recentemente, nel campo della PP, è emersa una nuova visione della “buona vita”, fondata sul concetto aristotelico di “benessere eudaimonico”. Tale termine fu introdotto da Aristotele (384-322 a.C.) per porsi in antitesi alla concezione di benessere edonico (Zambianchi, 2015). Secondo l’autore, non tutti i desideri sono degni di essere perseguiti: sebbene, alcuni di essi possano generare piacere, non per questo producono qualcosa di buono (Boniwell, 2015).

Il benessere eudaimonico (dove il dàimon si riferisce alle potenzialità dell’individuo che, una volta attuate, gli permettono di realizzare la sua vera natura) sottolinea l’importanza di condurre una vita virtuosa attraverso la piena attuazione delle potenzialità personali che permettono all’individuo di raggiungere il suo fine ultimo (ibidem). Tuttavia la felicità autentica è frutto dello sviluppo, dell’attuazione e del dispiegamento dei valori e delle potenzialità individuali, di costruzione di significati e perseguimento di obiettivi condivisi in vista di un bene comune (Zambianchi, 2015). L’eudaimonia, infatti, comprende la realizzazione sia degli obiettivi individuali sia di quelli collettivi, legati a quel bene comune che pone gli esseri umani in tensione reciproca, e alla ricerca di tale condizione di benessere attraverso le opportunità offerte dalla società (Delle Fave, 2007). Tuttavia, la felicità rappresenta un processo che si realizza all’interno di un contesto sociale, in una visione che privilegia la dinamica attraverso l’espressione delle capacità individuali, piuttosto che la conquista di uno stato di equilibrio interno promosso dall’edonismo (Zambianchi, 2015).

Pertanto, il fondamento eudaimonico prevede che le persone sviluppino le proprie abilità e talenti e le mettano al servizio delle più grandi cose, in particolare, del benessere altrui o dell’umanità (Seligman, Peterson, Park, 2005).

Molto probabilmente, nel campo psicologico, i primi a parlare di “eudaimonia” furono gli psicologi umanisti del XX secolo come Maslow e Rogers i quali, partendo dal presupposto che le scelte che le persone compiono influenzano il loro benessere, riconoscevano in ogni individuo una tendenza attualizzante, una motivazione fondamentale rivolta alla crescita (Boniwell, 2015).

Tuttavia, il concetto di eudaimonia può essere simbolicamente paragonato ad un ombrello che comprende, contemporaneamente, il benessere psicologico, le virtù, l’eccellenza, la motivazione intrinseca, l’autenticità e lo scopo della propria vita (Laudadio, Mancuso, 2015).

Il PWB (psychological well-being, benessere psicologico) è un modello di benessere elaborato dalla psicologa Carol Ryff (1989). Quest’ultima, una volta aver analizzato le diverse concezioni di felicità presenti in psicologia, è giunta alla conclusione che il benessere è caratterizzato da sei componenti: l’autoaccettazione (la valutazione positiva di sé e della propria vita); la crescita personale; lo scopo di vita; le relazioni sociali positive; la padronanza dell’ambiente (la capacità di gestire in modo efficace la propria vita e l’ambiente circostante); e l’autonomia. Tale visione di benessere pone in risalto la realizzazione di sé nei diversi ambiti della vita che si integrano a vicenda e vanno a formare un globale senso di benessere (Zambianchi, 2015).

Con il tempo, la PP, ha dato origine a prospettive di natura più sociale, che affrontano lo studio del benessere partendo dalla relazione che si instaura tra individuo e contesto sociale in cui vive o tra individuo e società più ampia di cui fa parte (Zambianchi, 2015).

Keyes (1998), ha elaborato il costrutto di “benessere sociale”, complementare a quello di “benessere psicologico di Ryff, il quale include l’accettazione sociale, la realizzazione sociale, il contributo sociale, la coerenza sociale e l’integrazione sociale (Goldwurm, Colombo, 2010).

Infatti, lo stesso Seligman, si rese conto che la sua teoria della felicità autentica (2002) necessitava di alcune modifiche, poiché non contemplava variabili importanti come: il successo e il senso di controllo e le attività che le persone scelgono di fare per il loro valore intrinseco. In particolare, considerò riduttivo l’utilizzo del termine “felicità” per l’idea diffusa del significato attribuibile a tale termine, generalmente associato allo stato d’animo (“l’essere di buon umore”). Era opportuno identificare un termine capace di comprendere al suo interno, non solamente la componente emotiva, ma anche il significato e il coinvolgimento. Infine, nota che la soddisfazione per la vita non poteva rappresentare il giusto parametro per misurare la felicità e che l’utilizzo di autovalutazioni non era attendibile per una corretta rilevazione (Laudadio, Mancuso, 2015).

Alla luce di queste considerazioni, Seligman, arriva alla conclusione che al centro della PP non ci può più essere la felicità, e introduce il costrutto più ampio di Benessere (Zambianchi, 2015).

Il benessere contiene degli elementi misurabili che contribuiscono alla sua realizzazione, ma nessuno di essi lo definisce. Ogni elemento del benessere, per definirsi tale, deve contemplare tre caratteristiche:

  1. Contribuire al benessere;

  2. Contenere una motivazione intrinseca;

  3. Essere definito e misurato indipendentemente dagli altri elementi (Seligman, 2012).

Tuttavia, nella prima formulazione della teoria della felicità autentica (2002), Seligman, distingueva la vita piacevole caratterizzata dalle emozioni positive; la buona vita caratterizzata dal coinvolgimento, ovvero la completa immersione in un’attività; e la vita significativa, consistente nel mettere i propri punti di forza al servizio di qualcosa di più grande di sé (Boniwell, 2015).

Mentre, nella successiva formulazione del 2011 trasforma il modello della felicità autentica in un modello del benessere comprendente gli stessi tre elementi, più altri due: le relazioni sociali (relationships), ovvero stringere legami con altre persone e la realizzazione (accomplishment), intesa come perseguimento della riuscita e del successo per il valore intrinseco che possiedono (Seligman, 2012).

Seligman, inserisce nella sua teoria le relazioni positive per l’enorme valore attribuito agli “altri” in quanto considerati come una delle principali risorse che ognuno di noi ha a propria disposizione per contrastare i momenti difficili della vita (Seligman, 2012).

Una ricerca empirica su un campione di oltre 2.000 persone, ha dimostrato che compiere atti di altruismo fa diminuire lo stress e contribuiscono al potenziamento della nostra salute mentale (Post, 2005).

Sono molteplici le ricerche che evidenziano come le relazioni positive siano fondamentali per il benessere soggettivo della persona e, viceversa, il loro peggioramento rappresenti la principale causa di infelicità, questo perché la solitudine provoca alti livelli di ansia, rabbia e umore negativo, sino al punto di poter spingere la persona a compiere atti autolesionistici (Laudadio, Mancuso, 2015).

La realizzazione rappresenta il fondamentale scopo dell’individuo e viene ritenuto un elemento che contribuisce al benessere per l’intensa soddisfazione che comporta nella persona (Seligman, 2012).

Seligman, sostiene che il perseguimento e il significato sono da considerarsi come eudaimonici. Nelle ricerche realizzate con i suoi collaboratori si è reso conto che, nelle attività edoniche (per esempio, il divertimento, lo svago e il riposo) le persone sentono molte emozioni piacevoli, gli stati emotivi negativi sono ridotti e aumenta l’energia. In effetti, queste attività ci rendono più felici rispetto a quelle eudaimoniche. Con il passare del tempo, però, coloro che conducono un’esistenza eudaimonica (si impegnano a sviluppare le proprie potenzialità e capacità) sono più soddisfatti della propria vita (Boniwell, 2015).

Adottare una prospettiva sistemica del benessere ha permesso alla PP di fare luce sugli aspetti sia individuali sia contestuali che favoriscono condizioni positive e lo sviluppo dei punti di forza di ciascuno (Zambianchi, 2015).

Ne risulta che il benessere rappresenta un costrutto multidimensionale, caratterizzato dal sentirsi bene, saper instaurare buone relazioni, sperimentare realizzazione, identificare un senso, un significato e una direzione alla propria vita e vivere appieno ciò che viviamo (Laudadio, Mancuso 2015). Di conseguenza, il principale obiettivo della PP, non è più quello di incrementare il livello di felicità degli individui, ma di aumentare la quantità di flourishing nelle persone (Seligman, 2012).

Il concetto di flourishing è stato introdotto, per la prima volta, da Keyes, per fare riferimento agli individui “fiorenti”, coloro che riescono a realizzare appieno le proprie potenzialità e, contemporaneamente, stabiliscono delle relazioni costruttive con la società. Secondo l’autore, tale condizione, è costituita da tre dimensioni del benessere: soggettivo, eudaimonico e sociale (Keyes, 2007). Alla luce di uno studio condotto dallo stesso Keyes, emerge come coloro sperimentano una condizione di flourishing, presentano un’elevata resilienza, capacità di rapportarsi costruttivamente con l’ambiente, chiari obiettivi di vita ed elevata autoefficacia, oltre che un minor rischio di assenza dal lavoro dovuta a condizioni di salute precarie (Keyes, 2005).

Il concetto di flourishing può essere altrimenti sostituito con il termine funzionamento ottimale, uno stato che comprende emozioni positive, riuscita, coinvolgimento e relazioni positive (Laudadio, Mancuso, 2015).

Pertanto, l’obiettivo ultimo della PP diventa aiutare gli individui a raggiungere la condizione di funzionamento ottimale, attraverso l’incremento e lo sviluppo degli elementi che lo costituiscono (Seligman, 2012).

La Psicologia Positiva oggi

Al giorno d’oggi la PP si trova in uno stato di notevole espansione e fornisce rilevanti contributi in diversi ambiti della vita come: la scuola, la famiglia e le attività creative (Seligman, 2005).

Tuttavia, ha ancora davanti a sé molte sfide rimaste aperte, prima fra tutte, l’adozione di un approccio integrato che sappia includere sia il superamento del disagio sia il potenziamento della felicità (Laudadio, Mancuso, 2015).

Il panorama attuale

Negli anni successivi alla sua nomina di presidente dell’APA, Seligman ha organizzato una serie di incontri in Messico, ai quali hanno partecipato numerosi studiosi al fine di porre le basi della PP. È nato così il comitato direttivo di PP, costituito da: Mihaly Csikszentmihalyi, Ed Diner, Kathleen Hall Jamieson, Chris Peterson e George Vaillant. Successivamente ha preso forma il Positive Psychology Center presso l’Università della Pennsylvania, il primo Summit di PP, avvenuto a Washington DC e il primo numero speciale dedicato al tema della PP all’interno della rivista American Psychologist a cura di Seligman e Csikszentmihalyi (Laudadio, Mancuso, 2015).

Negli ultimi dieci anni si è rilevata una evidente esplosione di ricerche e interventi realizzati sulla base dei principi della PP (Kristjánsson, 2010). Si registrano iscrizioni record ai corsi di laurea in PP in nord America e in tutto il mondo (Gunnel, 2006). All’università di Harvard è addirittura il corso più popolare (Laudadio, Mancuso, 2015)

In Italia, l’interesse accademico e professionale per la PP ha favorito la nascita della Società Italina di Psicologia Positiva (SIPP) nel dicembre 2004. La SIIP è una società senza scopo di lucro con l’intento di promuovere la teoria e la prassi della PP, stimolare la ricerca nelle aree tipiche della PP, curare la formazione di professionisti operanti in questo settore, realizzare attività di intervento psicologico positivo con lo scopo di promuovere il benessere psicologico e la salute, promuovere, stabilire e mantenere relazioni scientifiche con studiosi o associazioni nazionali ed internazionali che perseguono gli stessi obiettivi (www.psicologiapositiva.it).

Nel 2009 è avvenuto a Philadelphia, in Pennsylvania, il Primo Congresso Mondiale di Psicologia Positiva al quale hanno partecipato oltre 1.500 persone provenienti da 52 paesi (Laudadio, Mancuso, 2015).

Critiche e nuove sfide per la Psicologia Positiva

La PP è stata oggetto di diverse critiche. Gran parte di esse, si collegano al fatto che molti contenuti della PP erano già presenti nel corpus della psicologia e delle materie ad essa affini, come la filosofia. In particolare, si fa riferimento alla relazione tra PP e le posizioni aristoteliche. Molti autori, infatti, apprezzano che Seligman abbia rivalutato le filosofie classiche, altri, ritengono che la PP abbia utilizzato in maniera strumentale le posizioni aristoteliche (Laudadio, Mancuso, 2015).

Un altro aspetto considerato controverso, è la relazione esistente tra la PP e la psicologia umanistica. Questi due approcci, infatti, sono accomunati dalla visione positiva dell’uomo, così come dall’utilizzo di molte tecniche simili di intervento; ma si distinguono per la diversità con cui si accostano al metodo scientifico e alle tecniche di ricerca (Wong, 2011).

Una delle critiche più note riguarda il fatto di aver, in qualche modo, realizzato una “ostentazione del positivo” che rischia di tradursi in una visione parziale e monodirezionale (Muzio et al., 2012). Questo ha portato a sottovalutare l’importanza di alcune emozioni non-positive, come la colpa, il rimpianto, la frustrazione e la rabbia, le quali possono avere un impatto nel motivare le persone a migliorarsi e a cambiare (Wong, 2011).

Detto ciò, non bisogna ignorare due importanti costatazioni. La prima, riferita al fatto che il principale intento della PP è eliminare le emozioni non-positive attraverso il miglioramento degli aspetti positivi. La seconda, che evidenzia come, recentemente, la PP, si sia aperta allo studio degli aspetti legati alla guarigione (Laudadio, Mancuso, 2015).

Molti autori rivendicano, perciò, il bisogno di sviluppare un approccio olistico, attento sia al positivo che al negativo, cosicché la PP possa aumentare la sua credibilità (Muzio et al. 2012). Tale pensiero, combacia pienamente con quanto sostenuto da Seligman rispetto alla necessità di dare origine ad una scienza psicologica completa e bilanciata, capace di includere al suo interno, sia la comprensione della sofferenza sia della felicità, così come lo studio della loro interazione (Seligman, Steen, Park, Peterson, 2005).

Un ulteriore limite è riconosciuto nella forte spinta individualista promossa dalla PP. Molti autori come Cyrulink e Malaguti, ritengono importante considerare l’aspetto interpersonale e, in particolare, l’interazione tra le dimensioni individuali e quelle relazionali, capaci di indirizzare l’individuo verso la strada della felicità (Salmaso, 2008).

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