La comunicazione in oncologia: un iceberg sommerso


scarica l'articoloPerché il termine iceberg? I pazienti oncologici spesso utilizzano un linguaggio metaforico per far comprendere agli altri la grandezza e l’impatto che il tumore ha avuto nella loro vita. È facile sentire un paziente che parla di cancro utilizzando termini come “terremoto” “uragano” “tempesta” “iceberg”. L’iceberg richiama l’idea di un qualcosa che è visibile solo in parte: la ferita psichica sommersa dietro la punta di un malessere fisico noto, visibile a tutti.

Il presente articolo si propone di esplorare la comunicazione in seguito ad una diagnosi di cancro. In oncologia, in modo particolare, l’interesse per la comunicazione nasce dalla necessità di gestire la trasmissione di cattive notizie e i contenuti intensi di sofferenza e morte, esplicitamente o implicitamente presenti nell’interazione con pazienti e familiari. La complessa comunicazione con il paziente, è necessaria, da un lato, per comprendere le difficoltà che molto spesso si verificano e, dall’altro, per giustificare il possibile uso della comunicazione come strumento terapeutico.

Analizzando gli strumenti comunicativi e i modelli d’intervento in oncologia, viene approfondita l’importanza dell’“esserci” dello psicologo.

L’obiettivo è quello di promuovere la necessità di un approccio multidisciplinare in cui, accanto alle risorse della chirurgia, della chemioterapia, della radioterapia e dei trattamenti di supporto, il sostegno psicologico dei pazienti abbia lo spazio sufficiente ad affrontare non solo la malattia e il suo trattamento, ma anche il rientro nella vita normale una volta conseguita la guarigione.

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Nonostante i numerosi e significativi progressi scientifici in ambito oncologico, che hanno determinato un netto miglioramento degli approcci terapeutici e un aumento della sopravvivenza dei pazienti, il cancro continua ad associarsi, nell’immaginario individuale e collettivo, a significati di sofferenza fisica e psichica, di morte ineluttabile, di stigma e diversità, di colpa e vergogna.

Di fondamentale importanza appare così la psiconcologia, una disciplina che si pone come interfaccia tra l’oncologia da un lato e la psicologia e la psichiatria dall’altro. Viene preso in considerazione il vissuto del malato, i cambiamenti che la realtà individuale e relazionale subiscono a causa della malattia e le conseguenze psichiche che ne derivano. L’approccio al paziente, quindi, è di tipo integrato: viene considerata la persona in toto con le sue molteplici necessità e non solo la malattia e i sintomi che presenta. Promuovere una prospettiva multidisciplinare implica perciò che si tenga in considerazione, oltre agli aspetti strettamente medici e ai dati biologici, anche l’analisi e l’interpretazione delle componenti cognitive (credenze e conoscenze sulla malattia) psicologiche (livello di stress, ansia, depressione) e comportamentali (stili di vita) di ogni paziente, al fine di promuovere un processo di cura basato sulla compliance. In questo scenario la comunicazione, come processo complesso d’influenzamento reciproco, a cui l’individuo partecipa con le sue emozioni, aspettative, motivazioni, assume un importanza prioritaria.

Il cancro oggi e il contributo della psiconcologia

Oggi parlare di cancro non sorprende. È una parola che è sempre più familiare e vicina di casa. Entra nelle nostre vite per vie traverse, in modo più o meno subdolo e si insidia tra le fessure delle nostre angosce e paure. La paura della morte da sempre accompagna la parola cancro, sinonimo nel gergo comune di immane catastrofe e cambiamenti irreversibili. “Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato” (Murakami H., 2008)

La malattia cambia completamente le lenti attraverso cui guardiamo il mondo, è luce e allo stesso tempo buio, speranza e allo stesso tempo disperazione.

Nonostante la ricerca scientifica in campo oncologico sia sempre più all’avanguardia e sia una delle protagoniste nella lotta quotidiana di medici e ricercatori, non appare sufficientemente sottolineato che di cancro non sempre si muore. Nessuna malattia come il cancro è oggetto di miti e credenze, superstizioni e informazioni falsate. Per molti anni su questo tema l’informazione per il grande pubblico è stata sorvolata, dato che l’argomento suscitava timore e ancora oggi, gli stessi professionisti della salute arrancano nel buio di fronte ad una diagnosi di tumore.

Qualunque sia la diagnosi, la prognosi, la risposta alle terapie, non esistono tumori di serie B. Il cancro rappresenta sempre per il paziente e per la sua famiglia un fulmine a ciel sereno, una prova esistenziale sconvolgente. Il rischio è di venire completamente travolti da un evento traumatico che fa vacillare le certezze della persona, nonostante la sua resilienza e le sue strategie di coping. Il coping rappresenta una modalità cognitivo-comportamentale con il quale un individuo affronta un evento stressante e le sue conseguenze emozionali. La capacità di far fronte ad una crisi esistenziale dipende da diversi fattori: dal tipo di patologia, dal livello di adattamento precedente alle situazioni di malattia, da fattori culturali e religiosi, dall’assetto psicologico, dalla personalità e da eventuali disturbi psichiatrici presenti (Putton et al, 2011).

Per quanto le risorse possano essere molte, queste non sono infinite e i fattori di rischio a cui si è esposti hanno un effetto cumulativo. Il modo di gestire la “crisi emotiva” generata dalla diagnosi medica e l’atteggiamento di fronte all’evento spesso traumatico influenzerà il tipo di adattamento psicosociale alla malattia. L’atteggiamento e lo stile di coping impiegato andranno ad influenzare non solo la qualità di vita dopo la diagnosi, ma anche la compliance ai trattamenti medici e lo stesso decorso biologico della malattia (Putton et al., 2011).

In analisi di tutto ciò, affiora chiaramente l’esigenza che i modelli terapeutici tengano conto dell’unità della persona malata (mente-corpo), nonché della necessità per ciascun individuo di essere curato in tutti gli aspetti della patologia. Secondo tale prospettiva, le ricerche in campo psiconcologico, contribuiscono a rappresentare con maggiore sensibilità le reciproche influenze tra malattia organica e disagio psicologico.

La psiconcologia si propone infatti di promuovere approfondimenti teorici e applicativi clinici mediante il contributo di differenti discipline: la medicina oncologica, la psicologia e la sociologia. Il fine della psiconcologia è sostenere un processo di cura, complessivamente inteso del paziente neoplastico, attraverso un approccio multidisciplinare.

I nuclei della sofferenza nel paziente oncologico

Il cancro non ha un impatto positivo sulla salute mentale. I pensieri intrusivi e le emozioni riguardo la malattia neoplastica sono molto comuni così come sono comuni i tentativi di evitarli (Wiley, Stanton, 2016). Una diagnosi di tumore rappresenta certamente un trauma e i livelli di impatto su cui la malattia entra, sfondando tutte le porte, sono diversi e non c’è un ordine di importanza.L’importanza è data da dove la persona colloca il nucleo della sofferenza che spesso erroneamente si pensa sia legato al timore della morte ma quanto invece le conseguenze della stessa nel suo mondo interno ed esterno; questo accade anche se l’ipotesi mortifera è solo immaginaria” (Corso di Alta Formazione “Psicologia Oncologica, delle Patologie Organiche Gravi e Palliazione”, 2016).

Il primo livello in cui la malattia colpisce è quello fisico. È sicuramente uno degli indici più visibili di malattia, la quale può essere incontrata a livello fisico attraverso la terapia, i sintomi e l’immagine corporea.

Accade spesso che il tumore in maniera subdola e silenziosa si insinui senza dare, perlomeno all’inizio, alcuna avvisaglia del suo arrivo. Così, indisturbato e tranquillo fa il suo percorso e quando il paziente inizia la cura per la prima volta incontra i suoi sintomi. Questo aspetto, molto spesso tralasciato, porta la persona ad un approccio totalmente nuovo: più ci si cura e più si sta male. Quindi, la persona si immagina in un determinato modo (non ci riferiamo esclusivamente al cambiamento esteriore) e al momento della malattia non si percepisce più in quella maniera.

Il secondo livello di impatto è quello esistenziale, il quale riguarda i ruoli, il futuro e le aspettative della persona dinanzi alla malattia. Goffman (1922-1982) parla del ruolo come di un’attività che un “attore” svolge di fronte a specifiche richieste normative legate al suo status e alla posizione occupata dentro la società. Al momento della malattia accade spesso che i ruoli vengano ribaltati e che la persona vada incontro ad un senso di inutilità e frustrazione per la sua condizione di “essere accudito” piuttosto che di “accudire”. Le aspettative e il futuro di fronte ad una diagnosi e prognosi infausta vacillano e le emozioni che la persona prova di fronte a questo, non hanno nulla a che vedere con altre situazioni in cui ha già sperimentato rabbia, angoscia, frustrazione, delusione e disperazione.

Un altro livello di impatto è quello relazionale, in cui vengono a mutare i rapporti di coppia, di amicizia e all’interno di tutto il nucleo familiare. Non è difficile sentire malati di cancro che oltre alla beffa della malattia, sentono di essere stati traditi e abbandonati dalle persone che fino a quel momento erano per loro importanti o quantomeno presenti. È necessario così far comprendere come il cancro sia altamente contagioso a livello emotivo e che non tutti sono in grado di restare nella relazione una volta che questo è diventato così “vicino di casa”. La via di fuga è la scelta che chi siede vicino ad un malato percorre più facilmente, anche nei rapporti sociali obbligati come quello paziente-medico.

L’ultimo livello di impatto, non meno importante, è quello economico. La situazione imprevista genera spese difficili, soprattutto quando ci sono situazioni che evocano una forte urgenza e portano il malato a recarsi in strutture private piuttosto che pubbliche. Queste mettono a repentaglio l’intero assetto economico della famiglia che può venire ulteriormente aggravato quando la malattia costringe ad un’aspettativa dal lavoro, che, a sua volta, porterà alla perdita di un’entrata mensile importante per la famiglia.

La malattia oncologica in età adulta

L’evento malattia interrompe il fluire delle giornate che prima sembravano essere tutte uguali e di cui spesso ci si era sentiti prigionieri; obbliga l’individuo ad arrestare la sua corsa e a fermarsi a pensare all’ineluttabilità degli eventi e della sua morte.

Anche le abitudini più basilari vengono a mutare, dal cornetto al bar che non ha più lo stesso gusto perché le terapie hanno agito sulle papille gustative, agli investimenti libidici e sessuali e “un sé corporeo percepito come assente e poco reattivo alle volontà personali” (Tromellini, 2002,67).

Basti pensare come normalmente una semplice influenza può interrompere bruscamente il lavoro, la possibilità di uscire, di andare al cinema, di prendersi cura di qualcuno. A maggior ragione la malattia sollecita un corpo non più a totale servizio delle esigenze del soggetto, un corpo che non segue più i suoi soliti ritmi di vita e che trova l’individuo impreparato ai condizionamenti della malattia.

Gli stereotipi presenti nella nostra società ci trasmettono l’idea che un soggetto giovane provi maggiore angoscia di fronte la diagnosi di tumore; mentre dai soggetti adulti o comunque più anziani ci si aspetta più serenità legata alla saggezza e alla vita comunque vissuta a pieno fino a quel momento. Questo non è necessariamente vero. Molto spesso i giovani usano come appiglio le loro capacità e i loro sogni ancora da realizzare; mentre per chi è più avanti con l’età la diagnosi arriva con il suo carico di stigmatizzazione e paura ledendo magari già situazioni difficili economicamente, socialmente o emotivamente.

Infatti, molto spesso, l’esperienza di malattia costringe il paziente adulto a ripensare agli accadimenti della propria vita passata alla luce di quella presente, dove nuclei problematici e zone d’ombra mai elaborate riemergono e chiedono di essere prese in considerazione per dare loro un significato del tutto nuovo, alla luce di un presente difficile (Tromellini, 2002).

Le difese del paziente oncologico secondo Kubler-Ross

Pensiamo che la nostra considerevole emancipazione, le nostre conoscenze della scienza e dell’uomo ci abbiano fornito modi e mezzi migliori per preparare noi e le nostre famiglie a questo inevitabile avvenimento. Invece sono passati i tempi in cui un uomo poteva morire in pace e con dignità nella propria casa. Più avanziamo nella scienza, più sembriamo temere e rifiutare la realtà della morte. Com’è possibile?” (Kubler-Ross, 2016,22).

La psichiatra Elisabeth Kubler-Ross (1926-2004) rappresenta un pilastro essenziale per chi s’interessa, a qualunque livello, del processo del morire. I suoi pluridecennali contatti con persone al termine della vita, l’hanno portata ad elaborare uno studio che ha permesso di individuare cinque fasi o meccanismi di difesa che l’essere umano mette in atto quando entra in contatto con la possibilità di morte imminente.

La prima fase è quella del Rifiuto e Isolamento. Inizialmente la prima reazione è comunemente di shock e poco dopo, svanito il senso di torpore, di incredulità.

I meccanismi più utilizzati sono quelli di negazione e rimozione di quelli aspetti che emotivamente non si riescono a sostenere. Il rifiuto dopo una improvvisa notizia ha la funzione di paracolpi, consente al malato di ritrovare il coraggio e, con il tempo, mobilizza altre difese, meno radicali.

La seconda fase è quella della Rabbia. Questa è proiettata in maniera indistinta su di sé e sull’ambiente. Tutte le attività della vita sembrano bruscamente e prematuramente interrotte e perciò dovunque il malato guardi in questa fase, troverà un qualche motivo per lamentarsi, accusare e rimproverare. Rappresenta, perciò, un momento critico che può essere sia il momento di massima richiesta di aiuto, ma anche il momento del rifiuto, della chiusura e del ritiro in sé.

La terza fase è quella del Patteggiamento. La persona inizia a verificare cosa è in grado di fare e in quali progetti può investire la speranza, iniziando una specie di negoziato che può far emergere il perché è necessario andare avanti per quella persona.

Così come un figlio che dopo aver “sbattuto i piedi a terra”, cerca un compromesso con il genitore per ottenere ciò che vuole, allo stesso modo il malato, senza speranza, si serve di simili manovre. Il suo desiderio è quasi sempre il prolungamento della vita, o quello di essere assolto per alcuni giorni dal dolore e dal disagio fisico. Il venire a patti diviene così un tentativo di procrastinare: include un premio offerto “per buona condotta”, pone anche un determinato limite di tempo che gli consente di fare una cosa che gli sta particolarmente a cuore e include una promessa implicita che non chiederà più se gli sarà concessa questa dilazione. Promessa che poi, inevitabilmente, non viene mai mantenuta. I patti sono generalmente fatti con Dio e per lo più tenuti segreti, menzionati tra le righe o confidati ad un sacerdote (Kubler-Ross,2016).

La quarta fase è quella della Depressione. Rappresenta il momento in cui il paziente inizia a prendere consapevolezza delle perdite che sta subendo o che sta per subire e solitamente si manifesta quando la malattia progredisce ed il livello di sofferenza aumenta.

Questa fase viene distinta in due tipi di depressione: una reattiva ed una preparatoria. La depressione reattiva è conseguente alla presa di coscienza di quanti aspetti della propria identità, della propria immagine corporea, del proprio potere decisionale e delle proprie relazioni sociali, sono andati persi. Al contrario, la depressione preparatoria ha un aspetto anticipatorio rispetto alle perdite che si stanno per subire.

La quinta e ultima fase è quella dell’Accettazione. Quando il paziente ha avuto il tempo e il modo di elaborare ciò che gli è accaduto, giunge ad una fase in cui se pur la rabbia e la depressione possono essere presenti, queste sono di moderato rilievo. In questo momento, più che per il paziente, è importante il sostegno alla famiglia. Questa potrebbe interpretare la “serenità” del familiare come una rassegnazione codarda e pertanto rifiutarla. “L’accettazione non deve essere scambiata con una fase felice. È quasi un vuoto di sentimenti. È come se il dolore se ne sia andato, la lotta sia finita e venga il tempo per «il riposo finale prima del lungo viaggio», come l’ha definito un malato” (Kubler-Ross,2016, 208).

Un elemento che generalmente permane, come un leitmotiv, attraversando queste cinque fasi è: la speranza. Tutti i malati, anche quelli più realistici e meglio disposti ad accettare, lasciano aperta la porta a qualche possibilità di cura che sia lì per loro, per redimerli dal destino infausto. La speranza quando viene offerta, nonostante le cattive notizie, è di notevole aiuto al paziente e alla relazione con l’equipe medica perché mantiene la luce accesa per giorni, settimane o mesi.

Ospedale: luogo di cura, di vissuti e di relazioni. Il day hospital (DH) oncologico.

Nel corso degli ultimi decenni, l’affermarsi di nuovi protocolli di cura hanno portato ad una nuova concezione strutturale e funzionale dei presidi ospedalieri. In tutti i sistemi sanitari dei Paesi ad economia avanzata “sono state sviluppate politiche orientate a determinare un progressivo trasferimento di prestazioni dall’assistenza ospedaliera a quella extra ospedaliera territoriale e domiciliare. Tale fenomeno è stato possibile grazie a straordinari progressi ottenuti in campo medico, chirurgico ed anestesiologico, che hanno consentito di trasferire molte prestazioni, tradizionalmente erogate in regime di ricovero ospedaliero continuativo, in modelli assistenziali a minore intensività quali il day surgery, il day hospital e l’assistenza ambulatoriale, a parità di efficacia e sicurezza” (Ministero della Salute, Progetto Mattoni SSN, 2007).

Il modello di assistenza sanitaria del Day Hospital può essere distinto in quattro aree, a seconda del tipo di intervento:

  1. Diagnostico: rivolto ai pazienti che necessitano di indagini diagnostiche polispecialistiche o che richiedono particolare assistenza. Rende possibile la centralizzazione della prestazione sanitaria, perché nel giro di un giorno il paziente può sottoporsi a diversi tipi di esami.

  2. Terapeutico: rivolto ai pazienti affetti da malattie croniche, curati con farmaci o strumenti che richiedono il monitoraggio dello stato del malato per diverse ore.

  3. Chirurgico: destinato a quei pazienti che necessitano di interventi chirurgici o di esami particolarmente approfonditi che richiedono l’utilizzo della sala operatoria.

  4. Riabilitativo: è indicato per tutti i pazienti che sono sottoposti a terapie di recupero e rieducazione delle funzioni corporee.

In particolare si tratta di un ricovero o di cicli di ricovero programmati, circoscritti ad una sola parte della giornata che non arriva mai a ricoprire l’intero arco delle 24 ore dal momento dell’ospedalizzazione. Inoltre fornisce prestazioni multi professionali e plurispecializzate che non possono essere trovate nei servizi a prestazione ambulatoriale. Queste, infatti, si discostano dal lavoro in day hospital in primis per il tempo necessario all’esecuzione della prestazione, per la loro complessità, il possibile rischio connesso con il trattamento e per l’impiego dei farmaci la cui somministrazione richiede tempi, modalità e controlli di particolare durata.

Un’ équipe multidisciplinare di un servizio di oncologia è formata da tutte le figure professionali a vario titolo implicate nel percorso diagnostico e terapeutico: il primario, i medici specialisti in oncologia, la caposala, gli infermieri, l’ausiliare, i volontari e lo psicologo. Ogni membro dell’équipe ha punti di osservazione, oltre che responsabilità e tipologie di rapporto, diversi con il paziente e la famiglia, perciò può giovarsi della presenza e della conoscenza degli altri colleghi e reciprocamente può aiutare gli altri.

L’équipe in oncologia, generalmente è così articolata (Pantaleo, 2011):

Primario

Il primario coordina le attività del reparto, organizza le attività di aggiornamento medico-scientifico e segue come “supervisore” lo stato di salute di tutti i pazienti ricoverati nel reparto.

Oncologo

Al medico oncologo è richiesto di bilanciare il tecnicismo con una profonda umanità: si tratta di una figura che dovrebbe avere una solida preparazione di medicina internistica, ma al contempo una formazione personale relativa all’aspetto emotivo, per il contatto costante con la morte e con il rischio del fallimento terapeutico (Sbanotto, 2002). L’oncologo è il medico specializzato nella diagnosi e nel trattamento delle neoplasie che possono colpire l’essere umano. Le tre principali specializzazioni che può avere riguardano tre branche dell’oncologia:

  • L’oncologia medica. Gli oncologi con competenze in questo campo si occupano della cura dei tumori tramite chemioterapia.

  • L’oncologia chirurgica. Gli oncologi appartenenti a questo settore sono esperti nella rimozione chirurgica delle neoplasie e nella realizzazione di biopsie.

  • L’oncologia radioterapica. Gli oncologi con una particolare preparazione in questo ambito sono esperti nella radioterapia tumorale.

Caposala

Il ruolo del coordinatore infermieristico è di fondamentale importanza, collante tra quelle che sono le esigenze aziendali e i bisogni di salute dei pazienti. Il lavoro del coordinatore infermieristico si articola su più livelli organizzativi e ad esso è affidata la gestione degli infermieri e di tutte le figure di supporto. In tutte le sue attività deve intraprendere delle scelte che portano alla pianificazione, all’orientamento e all’organizzazione del personale sanitario.

Nella realizzazione delle sue funzioni dovrà favorire in primis un’assistenza infermieristica completa e personalizzata per ogni paziente, una gestione ottimale delle risorse e favorire la partecipazione del personale sanitario alla frequenza di corsi di formazione e aggiornamento.

Infermieri

L’infermiere di oncologia deve, più di tutti, possedere all’interno dell’equipe il carattere olistico dell’assistenza. Nei reparti di oncologia, così come nel DH oncologico, il personale infermieristico deve essere altamente specializzato e motivato perché il suo ruolo è cruciale in ogni fase della malattia del paziente. L’infermiere in ogni periodo del percorso di assistenza al malato oncologico può svolgere il ruolo attivo di facilitatore e incentivatore delle abilità residue per la famiglia e i caregivers. Il suo ruolo è decisivo sia nella somministrazione dei farmaci che nell’educazione del paziente e dei familiari (ad esempio nella cura del PICC e del PORT).

Ausiliare

Il personale ausiliario, oltre a mantenere in ordine il reparto, provvede ad accompagnare i pazienti presso altri servizi o ambulatori, per consulenze o indagini strumentali.

Volontari

Il ruolo del volontario si è andato via via sempre più delineando come un ruolo che integra senza sostituirlo quello di altri professionisti. Gli spazi di attività si sono sempre più allargati e diversificati, in continua collaborazione con altri volontari od operatori.

La comunicazione come relazione di cura.

La Comunicazione, come relazione di cura, è uno strumento importante per tutte le professioni sanitarie, un mezzo che a dispetto di quelli clinici classici appartenenti alle varie figure di aiuto, non decade mai, neanche nei momenti estremi della cura.

In oncologia, e in generale in ambito sanitario, capita spesso di confondere la comunicazione con l’informazione. L’informazione è notizia, passaggio di dati. L’obiettivo è trasformare le conoscenze di chi la riceve. Il trasferimento di notizie non è garanzia di comunicazione: l’informazione è lo strumento indispensabile, ma non sufficiente, della comunicazione (Annunziata, 1997, 400).

L’informazione è un processo “a una via” (linearità), in quanto l’effetto si realizza su uno solo degli interlocutori; si basa essenzialmente sulla comunicazione verbale e, quindi, agisce sulla comprensione, sul pensiero, sulla razionalità. La comunicazione, invece, è un processo “a due vie” (circolarità): prevede modificazioni dei comportamenti in entrambi gli interlocutori, in quanto non si basa solo sulla conoscenza, ma anche sulle emozioni (Vella, De Lorenzo, 2011).

In particolare, la differenza tra comunicazione e informazione è messa in luce quando si considera il silenzio. Dal punto di vista della trasmissione dei dati per la conoscenza, il silenzio equivale a “nessuna notizia”; dal punto di vista delle modificazioni del comportamento, invece, il silenzio dice molto.

La comunicazione è un dato tangibile all’interno del quale gli individui si orientano decidendo chi sono e cosa vogliono essere. È Bateson (1972) che ha approfondito il punto di vista psicologico della comunicazione, come gioco di relazioni, e ha osservato come in ogni messaggio siano presenti almeno due livelli: uno relazionale, legato a ciò che si dice e uno relativo a ciò che si vuole che l’interlocutore comprenda della comunicazione (Gambini, 2006). Secondo questa visione esiste infatti il piano della comunicazione, delineato da ciò che si dice attraverso il linguaggio verbale, e il piano della metacomunicazione, “una comunicazione sulla comunicazione in corso, ovvero una riflessione che si opera sul discorso affinché la comunicazione avvenga correttamente” (Quadrio, Venini, 2002, 45).

La risposta del soggetto, davanti ad una diagnosi di tumore, dipende da variabili psicologiche soggettive, da fattori medico-clinici e interpersonali, tra i quali spicca maggiormente la relazione con il personale sanitario. L’équipe, attenta a comprendere i bisogni del paziente, espressi tramite il linguaggio verbale e soprattutto non verbale, ha l’obbligo di promuovere un ascolto attivo e una partecipazione empatica al vissuto del paziente.

Affinché l’ascolto si concretizzi in un reale aiuto al paziente è necessario tener conto che, il carico emotivo del malato oncologico lungo tutto il percorso di cura, dalla diagnosi alla eventuale e auspicata guarigione, è davvero enorme. Nell’approccio comunicativo-relazionale verso questa tipologia di pazienti, l’operatore sanitario non può esimersi dal prenderne atto, se vuole ottenere una corretta elaborazione della realtà e una acquisizione di tutti quegli elementi che consentano alla persona, di adottare un comportamento di compliance terapeutica.

L’adattamento alla malattia e la risposta ai trattamenti terapeutici infatti, dipende in larga misura dalla qualità dell’approccio relazionale dell’équipe curante e richiede un intervento di grande impegno emotivo, umano, psico-sociale, comunicativo-relazionale, ed etico. I dati di numerose ricerche condotte in ambito oncologico infatti, hanno dimostrato l’incidenza di tali aspetti sul trattamento delle neoplasie.

In ambito sanitario quindi, la comunicazione è un importante strumento per costruire e mantenere nel tempo una relazione globalmente terapeutica ed esige, perciò, la formazione continua degli operatori sanitari.

La Comunicazione con gli operatori sanitari.

Negli ultimi anni, soprattutto nei paesi occidentali, l’attenzione alla comunicazione tra medico e paziente, si è via via ampliata: lo documentano le pubblicazioni, le ricerche, i corsi di formazione e i seminari dedicati a questo tema.

La particolare asimmetria della relazione, il collegamento tra comunicazione e aderenza ai trattamenti, tra comunicazione e gradimento dei pazienti, gli stili comunicativi del medico, sono alcuni dei temi che sono stati al centro dell’interesse degli studi condotti in quest’ambito poiché è sempre più evidentemente provato che i mutamenti nei processi di comunicazione influenzano in modo rilevante proprio gli atteggiamenti e i comportamenti del paziente (Ghinelli, 2009).

Analizzando la letteratura emerge che, in questi studi, le variabili principalmente prese in considerazione sono (Ong et al., 1995):

  1. Le variabili di risultato: tutte le caratteristiche attraverso cui può essere valutata l’efficacia della comunicazione tra medico e paziente (soddisfazione, compliance ecc.);

  2. Le variabili di background: tutte le caratteristiche, ad esempio legate alla cultura, che vanno ad influire sul tipo di comunicazione che il medico può dare e il paziente può chiedere;

  3. Le variabili di processo: tutte le caratteristiche, vere e proprie, che si rifanno al contenuto della comunicazione tra medico e paziente.

Uno dei limiti evidenziabili, dagli studi finora condotti, è quello di parlare di comunicazione riferendosi solamente a due soggetti: medico e paziente. Spesso gli incontri, coinvolgono più attori, come i familiari e gli infermieri, in una “polifonia di voci” (Seikkula e Olson, 2003) tutte presenti e tutte influenti.

Alcuni studi inoltre, hanno osservato come ci sia una tendenza diffusa dei medici a “ipercontrollare” il setting, a dirigere il paziente e a interromperlo bruscamente quando parla. Gli interventi poi, sembrerebbero soprattutto costruiti su domande chiuse, volte ad indagare esclusivamente l’aspetto organico e non quello psicologico o psicosociale in cui il paziente è il vero “esperto”. Lo studio di Kaplan et al. (1989) ha mostrato ad esempio che alcuni comportamenti comunicativi, quali ad esempio lasciare più potere e controllo al paziente e meno all’operatore sanitario, dare al paziente l’opportunità di fare domande e di interrompere, concedere comportamenti emotivi come la manifestazione di emozioni spiacevoli, fornire più informazioni, da parte del medico, in risposta alle richieste espresse dal paziente, sono correlati ad un migliore stato di salute del paziente.

Dallo studio di Heisler et al. (2002) con alcuni pazienti cronici è risultato che l’atteggiamento dei medici, attraverso un rinforzo della fiducia, della motivazione e di una visione positiva dello stato di salute, questo gioiva indirettamente, attraverso l’aderenza, sulla salute dei pazienti. Difatti, una funzione di solito attribuita alla comunicazione tra medico e paziente, è quella di facilitare l’aderenza ai trattamenti terapeutici. La comunicazione, in questi studi, è stata progettata come strumento per costruire un’alleanza terapeutica.

È pur vero però che medico e paziente hanno ruoli differenti (curare e ricercare le cure), parlano un linguaggio diverso (linguaggio tecnico e linguaggio comune) e hanno aspettative e prospettive diverse. Inoltre differiscono nel modo in cui percepiscono i problemi e le emozioni che li accompagnano, sia per quanto riguarda gli aspetti bio-medici che per quelli psicosociali (Rao et al., 2007).

Dagli studi emerge, in pratica, che medici e pazienti assegnano importanza in modo quasi opposto ad aspetti diversi della malattia o della cura e questo porta immancabilmente, in assenza di opportunità di chiarimento, a frequenti fraintendimenti, anche quando si tratta di importanti decisioni terapeutiche e di aderenza ad un trattamento medico (Feldman et al., 2002).

L’operatore che si relaziona con il paziente, in primis, dovrebbe quindi tenere in considerazione che la malattia non agisce solo a livello fisico ma anche sul piano esistenziale, relazionale, sessuale, economico ecc. Per una comunicazione efficace e un ascolto attivo da parte degli operatori sanitari, è opportuno pertanto tenere conto (Corso di Alta Formazione in “Psicologia Oncologia e delle Patologie Organiche Gravi”, 2016):

  • Della storia della malattia: i primi sintomi, come si è attivato, quali trattamenti ha effettuato e qual è stato il suo impatto;

  • La situazione attuale: la situazione nel qui ed ora, supporti a disposizione, aspettative future;

  • Aree di sofferenza: quali sono quelle maggiormente colpite e quali invece resistono all’urto.

Comunicazione al malato della diagnosi e della prognosi. Il modello Spikes.

Il comunicare una diagnosi di tumore, o una prognosi infausta, o il dover ammettere la progressione della malattia e l’inefficacia dei trattamenti, possono rappresentare per qualsiasi medico un compito difficile, articolato e ricco di coinvolgimenti emotivi, di cui spesso si farebbe volentieri a meno e che, qualche volta, appare del tutto rifiutato, anche se è da ognuno teorizzato il diritto del malato all’informazione e alla scelta consapevole (Corso di formazione specifica in Medicina Generale, 2012).

È fondamentale sapere che, prima della comunicazione della diagnosi, c’è un vissuto pre diagnostico che il paziente ha già affrontato o sta affrontando. La perdita dell’equilibrio psichico non avviene durante la diagnosi ma molto prima, “da quando ho sentito quel dolore, e ho fatto quelle analisi” (Corso di Alta Formazione “Psicologia Oncologica, delle Patologie Organiche Gravi e Palliazione”, 2016).

Nel vissuto prima della diagnosi, il paziente inizia ad interrogarsi su ciò che sta accadendo all’interno del suo corpo. In questa fase, una figura di centrale importanza è il medico di base oltre che i familiari, i quali possono aiutare il paziente in questo primo periodo di dubbi e vacillamenti. Infatti questo vissuto, spesso e volentieri, va ad incidere sulla prognosi del paziente stesso, dato che rimanda nel tempo il momento di accertamenti più specifici per incontrare la diagnosi vera e propria.

Quindi, all’interno di un percorso di malattia, la comunicazione della diagnosi non occupa un momento ben preciso ma è un processo. Un processo implica una continua comunicazione e per questo, è molto importante riuscire a trasmettere al personale sanitario che la comunicazione della diagnosi necessita di tutto un contesto, che non si tratta di un momento dato, preciso all’interno della terapia, ma uno sviluppo a tappe (Corso di Alta Formazione “Psicologia Oncologica, delle Patologie Organiche Gravi e Palliazione”, 2016).

Il modello Spikes indica i passi da seguire per una corretta comunicazione di cattive notizie (De Santi, Simeoni, 2009):

S SETTING UP: preparare il contesto e disporsi all’ascolto; spesso alcune comunicazioni, avvengono nei corridoi o in una stanza in contemporanea con altre persone. È necessario preparare un contesto, assumere sin da subito un atteggiamento di ascolto e di attenzione; evitare le interruzioni, preparare un setting che abbia il tempo per dire ed ascoltare, che abbia un clima privato o valutare insieme al paziente l’opportunità della partecipazione di altre persone;

P PERCEPTION: valutare le percezioni del paziente, quanto sa già e l’idea che si è fatto dei suoi disturbi; prima di comunicare qualcosa è importante accertarsi di quali idee e fantasie il paziente si è fatto sulla sua malattia, quali informazioni ha già avuto di questa. Spesso, laddove la comunicazione è carente e non efficace, il paziente va alla ricerca di informazioni nei posti più disparati, arrivando così a dati nettamente deformati sulla sua condizione.

I INVITATION: invitare il paziente ad esprimere il desiderio di essere informato o no sulla diagnosi e i dettagli; è importante chiedere quanto il paziente desidera conoscere la sua situazione, se desidera una comunicazione completa della diagnosi. Rispettare il tempo in cui il paziente si trova, offrire la disponibilità a dare informazioni successivamente, e rispettare la sua negazione, come meccanismo di difesa, è fondamentale in oncologia.

KKNOWLEDGE: fornire le informazioni necessarie a comprendere la situazione clinica; è necessario anzitutto usare un linguaggio non tecnico ed evitare il gergo medico, dare le informazioni a piccole dosi e verificare sempre il grado di comprensione di quanto è stato detto.

EEMOTION: facilitare la persona ad esprimere le emozioni rispondendo in modo empatico; aspetto molto delicato ed importante che mette timore agli operatori che rischiano di sentirsi troppo coinvolti, ed entrare in relazione con le emozioni. È fondamentale invece riconoscerle, prestando attenzione alle reazioni verbali e non verbali, e dare spazio all’espressione delle emozioni del paziente.

Le emozioni, possono essere distinte in due categorie:

  • Adattive: Negazione, rabbia, pianto, paura, speranza realistica

  • Disadattive: Angoscia, colpa, rabbia prolungata, diniego patologico, speranza non realistica, disperazione

S STRATEGY SUMMARY: discutere, pianificare, concordare con il paziente una strategia di azione, i possibili interventi, i risultati attesi. Valutare quanto il paziente ha compreso, riassumere quanto detto, creare una strategia di intervento, fare una lista delle priorità del paziente, dei suoi problemi e di come risolverli; stabilire le modalità di contatto futuro, vedere cosa ha compreso il paziente di tutto questo aspetto.

La comunicazione di una diagnosi o di una prognosi, va pensata come un processo che richiede tempo: nell’informare il paziente, il medico non deve modificare o tradire la realtà, ma deve avere presente quali sono gli aspetti più utili e quali quelli più traumatizzanti per il paziente.

La relazione come fattore di cura: l’“esserci” dello psicologo.

L’ospedale, in generale, si descrive come luogo di attenzione e cura alla malattia organica. Il ruolo della psicologia è legato invece, in prima istanza, a restituire al paziente la sua dimensione biografica, affettiva e soggettiva.

Scrive Edward Shorter (1986) in La tormentata storia del rapporto medico paziente: “Non me la prendo coi medici se non tentano di praticare la psicoterapia a livello formale. Li accuso di ignorare il potere terapeutico della visita medica in sé. La forza guaritrice della consultazione sta nella purificazione che il paziente ricava dal raccontare le proprie vicende a qualcuno di cui si fida come guaritore”.

Ormai sappiamo che pazienti con tumore che ricevono un sostegno psicologico o effettuano una psicoterapia, ricevono un incremento di “relazione terapeutica” e sopravvivono per un periodo doppio rispetto ai pazienti che non ricevono alcun sostegno (Spiegel, 1989).

L’assistenza e la cura in oncologia implicano l’individuazione di tutti i bisogni del paziente, che non sono esclusivamente medici, ma anche psicologici, relazionali, sociali e spirituali.

In oncologia, dunque, più che in tutte le altre aree della medicina, è forte la consapevolezza che curare il corpo non basta.

Per questo, lo psicologo, dopo una formazione specifica in questo ambito, ha l’importante e delicato compito di intervenire per aiutare il malato di cancro e i suoi familiari, ad alleviare il peso della malattia sul piano psicologico.

Più specificatamente, lo psiconcologo affianca il paziente in tutti i momenti delicati dell’iter medico: dalla diagnosi di tumore alla prognosi, dalla comunicazione di un intervento chirurgico collegato alla patologia oncologica alla comunicazione di una possibile recidiva, dalla fase terminale a quella off-therapy. Difatti la necessità di un sostegno psicologico può affacciarsi in diverse fasi del percorso di malattia o può non essere necessario alcun intervento da parte di uno psicologo.

Per aiutare realmente il paziente occorre sapere perciò cos’è il cancro per quella singola persona, quale è il suo significato, come viene vissuto e quale crisi personale deve essere affrontata. Il nucleo centrale e motore di tutto è l’ascolto, supporto essenziale per poter comprendere e soddisfare le richieste e, a volte, unico sostegno realmente necessario al paziente. L’esserci dello psicologo diventa così essenziale.

Non di rado il malato non ha necessità materiali oggettive, ma sperimenta ansie e timori che non riesce, non può, o non vuole, condividere nemmeno con i familiari, per non aumentare il loro dolore o perché sospetta di non essere capito. Lo psicologo, quale figura estranea e preparata, rappresenta un punto di riferimento prezioso, capace non soltanto di accogliere e disporre nella giusta prospettiva angosce e preoccupazioni, ma anche di aiutare a riformularle e renderle meno intralcianti.

La psicologia non si limita solo a specificare quanto la componente fisica e psichica sia connessa (sebbene già questo evidenzi la necessità di interazione tra chi scientificamente si occupa della psiche, lo psicologo e del fisico, il medico), individua anche degli ambiti dove l’intervento psicologico mira a facilitare il processo di accettazione, adattamento e reazione alla patologia, incoraggiando la necessaria aderence con l’équipe curante, sostenendo il paziente sul piano emotivo. I principali ambiti sono (Vito, 2014):

  • L’ambito della risposta psicologica alla comunicazione della diagnosi e alla condizione di malattia, soprattutto in termini di percezione personale. Possono emergere vissuti fantasmatici, legati a credenze e miti familiari, non corrispondenti alle conoscenze della medicina.

  • L’ambito concernente il disagio personale che segue ogni esperienza di malattia. Oggi viene riconosciuto quanto vissuti di solitudine, abbandono, dolore, angoscia incidano sull’andamento della situazione clinica.

  • L’ambito riguardante l’esperienza della malattia per l’intero sistema familiare che ruota attorno al paziente. Infatti anche i familiari, oltre che il paziente, sono portatori di un disagio e un carico emotivo che non può essere sottovalutato soprattutto perché gli affetti più cari sono una delle risorse principali in qualsiasi processo di cura.

  • L’ambito relativo all’educazione, alla prevenzione e alla promozione della salute in cui la presenza dello psicologo aiuta il paziente nella ricerca di una motivazione che consenta di attuare comportamenti adeguati.

E anche:

  • L’ambito dell’umanizzazione delle strutture sanitarie, proponendo, qualora siano necessarie, modifiche operative al fine di dare maggiore attenzione ai bisogni emotivi, psicologici, sociali e relazionali dei pazienti.

L’ambito della formazione dell’équipe curante. La malattia tumorale è oggi una delle più difficili da affrontare, sia per i pazienti che per il personale curante a causa del suo immediato significato di morte, di dolore totale. Accettare la crisi del proprio ruolo e anche l’impotenza delle proprie armi, significa avvicinarsi all’ammalato non con lo sguardo oggettivo della scienza medica ma con lo sguardo di chi deve saper cogliere la soggettività della malattia. Il momento della riunione d’équipe può costituire una importante risorsa di sostegno e di confronto anche a livello emotivo.

Conclusioni.

La comunicazione della malattia, con il conseguente ingresso in ospedale, rappresenta per il paziente una fase molto critica, non solo perché si trova a dover affrontare qualcosa che non conosce, e di cui non sempre viene messo a conoscenza, ma anche perché improvvisamente la sua quotidianità viene sconvolta.

La malattia diventa così luogo di incontro tra le persone: incontro che dipende in larga misura dalle abilità comunicativo-relazionale degli operatori coinvolti. La capacità di comunicare in modo efficace e di stabilire una relazione positiva ed armonica con il paziente e con i famigliari è indispensabile perciò in tutti i processi assistenziali e per il loro esito. La relazione assume così il ruolo di “fattore di cura”.

Che cosa è questa parola ambivalente, «comunicazione», questa parola-valigia che entra in gioco in ogni forma di discorso e in ogni forma di vita? Significa entrare in relazione con la nostra interiorità e con quella degli altri. Nella convinzione che «comunicazione» sia sinonimo di cura” (Borgna, 2015). Solo chi è disposto a tutto – ammonisce Rilke citato da Borgna -, chi non esclude nulla, neanche la cosa più enigmatica, vivrà la relazione con un altro come qualcosa di vivente e attingerà sino al fondo la sua propria esistenza. Ecco perché comunicare non è parlare, ma parlarsi.

La qualità della relazione, può consentire al paziente di sentirsi una persona in uno scambio autentico fondato sulla sincerità e sulla fiducia con l’équipe curante o, al contrario, può facilitare il sentimento di essere ingannato, di essere considerato solo una “malattia da curare” e non un individuo nella sua interezza.

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