La comunicazione manipolatoria nella dipendenza affettiva


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La dipendenza affettiva e le sue tipologie

La parola ‘dipendenza’ è spesso associata all’uso di sostanze stupefacenti, di alcool o cibo, per questo è necessario fare una precisazione su questo termine: la lingua inglese fa un’importante distinzione rispetto all’italiano, ovvero distingue le due parole dependence e addiction, che per noi hanno lo stesso significato. Con dependence si indica la dipendenza fisica, condizione in cui l’organismo necessita e richiede una determinata sostanza; con addiction, invece, si intende una condizione generale in cui la dipendenza psicologica spinge alla ricerca dell’oggetto d’interesse, senza il quale l’esistenza diventa priva di significato. Vi è quindi, un riconoscimento di nuove forme di dipendenza nei confronti di attività che permette di sviluppare un’addiction senza dependence, ovvero un bisogno indispensabile di mettere in atto comportamenti in assenza di una dipendenza fisica vera e propria (Guerreschi, 2011).

Queste nuove forme vengono chiamate “New Addictions” e comprendono un comportamento socialmente accettato, ovvero: la dipendenza da internet, dal gioco d’azzardo, dal sesso, dallo shopping compulsivo, dal lavoro e dalle relazioni affettive (Guerreschi, 2005).

La dipendenza dalle relazioni affettive viene nominata Love Addiction o Dipendenza Affettiva ed è una patologia che solo negli ultimi anni è divenuta oggetto di interesse nell’ambito della ricerca scientifica. Di fatto, tale disturbo non ha ancora trovato spazio nell’ambito di una classificazione ufficiale, tuttavia si tratta di un fenomeno sempre più riscontrabile nel contesto clinico (Manfredi, 2016). Il termine “Dipendenza Affettiva” nasce dalla psicologa Robin Norwood (1990) che negli anni ‘70 pubblica il libro “Donne che amano troppo“, nel quale spiega il concetto di “amare troppo”, ossia un sentimento attribuito principalmente alle donne (ma non solo) che hanno imparato a mettere da parte i propri bisogni per dedicarsi totalmente all’altro.

Tuttavia, fu lo psicanalista Otto Fenichel che già nel 1945, introdusse il termine “amore-dipendenti” nel suo libro “Trattato di psicanalisi delle nevrosi e psicosi” ad indicare quelle persone che necessitano dell’amore come altri esigono del cibo o della droga. Esse hanno bisogno di essere amate nonostante abbiano poche capacità di amare; elemosinano assiduamente dal partner maggior affetto ottenendo, però, il risultato opposto; si legano a persone che considerano non adatte a loro, ma, nonostante ciò, non riescono a svincolarsi da queste ultime.

Secondo Giddens (1992) un dipendente affettivo manifesta gli stessi sintomi di un qualunque altro tipo di dipendente: il primo è l’ebbrezza, ovvero la sensazione di euforia legata al vedere il partner e alle sue reazioni rispetto ai propri comportamenti, questa è simile all’euforia che caratterizza l’uso di una droga; il secondo è la tolleranza, ossia il bisogno irrefrenabile di aumentare il tempo trascorso in compagnia del partner riducendo, di conseguenza, quello dedicato a sé e ai contatti esterni alla coppia; l’ultimo suntomo è l’incapacità di controllare il proprio comportamento connessa alla perdita della capacità critica verso sé stessi, alla situazione e all’altro.

La persona dipendente, infatti, non è assolutamente in grado di uscire da una relazione anche se ammette che la stessa sia insoddisfacente, umiliante e spesso autodistruttiva (Guerreschi, 2011). Spesso, neanche nei casi estremi, ovvero quando il partner è violento fisicamente o psicologicamente, riesce a lasciarlo, questo perché il dipendente tende a giustificarlo, mente o non chiede aiuto pur di proteggerlo.

La dipendenza in una relazione di coppia di per sé non è patologica, anzi è assolutamente normale soprattutto agli inizi. In particolare, durante la fase dell’innamoramento l’attenzione è focalizzata esclusivamente sull’oggetto d’amore lasciando fuori tutto il resto, vi è un certo grado di intimità, passione e desiderio di fusione con il partner. Il desiderio di dipendenza dovrebbe diminuire con lo stabilizzarsi del rapporto lasciando alla coppia la possibilità di andare oltre la fase dell’innamoramento e di amare veramente l’altro riconoscendo la propria autonomia ed individualità (Attili, 2004; Peluso, 1989;1990). Se questo non avviene e le caratteristiche più dipendenti diventano rigide e si connotano come necessità assolute, il rischio è quello di cadere nel versante disfunzionale del legame amoroso, quello relativo alla dipendenza affettiva patologica.

Infatti, la relazione è vissuta come condizione unica ed indispensabile per la propria esistenza. All’altro viene conferita un’importanza tale da annullare sé stessi e non ascoltare i propri bisogni per dare voce solo a quelli del partner; vi è, quindi, un mancato riconoscimento della propria identità (Fisher, 2006; Sussman e Ames, 2008). I dipendenti affettivi nell’amore vedono la risoluzione dei propri problemi che, spesso, hanno origini lontane e profonde, quali ad esempio i vuoti affettivi dell’infanzia (Guerreschi, 2011).

La particolarità di questo tipo di dipendenza è che si tratta di un disagio psicologico in grado di restare nascosto anche per l’intera vita di una persona, perché ha come oggetto un obiettivo socialmente accettabile, ovvero l’amore. Per tale ragione la dipendenza affettiva è meno riconoscibile dall’individuo stesso e dagli altri, comportando dolore e, spesso, altre gravi problematiche fisiche, psicologiche e relazionali (Giddens, 1992).

La dipendenza affettiva è, quindi, un disturbo della sfera emotivo-relazionale caratterizzato dalla centralità di un “oggetto d’amore” (il partner) ed essa provoca delle distorsioni a livello cognitivo, emotivo e comportamentale. I sintomi possono essere talmente forti da provocare dei cambiamenti nella quotidianità della persona che può culminare con una grave compromissione del suo funzionamento complessivo (Secci, 2014). Solitamente, il partner della persona affettivamente dipendente è un soggetto problematico, che lotta con altri tipi di dipendenze (droga, alcol…) o che tende a sminuire l’altro come persona, che adotta alcuni tipi di manipolazione e che tende a maltrattarlo.

Vi sono diverse tipologie di dipendenti affettivi, per distinguerli bisogna tenere conto dell’elemento che li caratterizza, detto “gancio”, ovvero l’esperienza che aiuta il dipendente a gestire gli alti e i bassi della propria vita. Per la dipendenza affettiva si possono individuare due “ganci”: il primo è la creazione di fantasie romantiche che aiutano ad attutire sentimenti di solitudine e rifiuto, nella promessa di un “finale felice”; il secondo è l’esperienza di attaccamento che distrugge, consciamente e inconsciamente, la paura dell’abbandono e bilancia il senso di solitudine e la bassa autostima (Peabody, 1989). Una volta individuato questo processo, si possono illustrare i tipi di dipendenza affettiva che si instaurano in una coppia:

  • Gli Obsessed Love Addicts (OLA) o Dipendenti Affettivo Ossessivo sono persone che non riescono a lasciare il partner, nonostante questo possa non essere disponibile. La scelta di partner affettivamente non disponibili scatena nel dipendente una serie di comportamenti e pensieri ossessivi rivolti all’altro e sul come fare per tenerlo stretto (Barbier, 2017);

  • Gli Ambivalent Love Addicts (ALAS) o Dipendenti Affettivo Ambivalente in genere soffrono di disturbo di personalità evitante e di tipo ansioso e hanno disperatamente bisogno di amore, ma allo stesso tempo sono terrorizzati dall’intimità. È possibile diversificarli in alcune sottocategorie (Guerreschi, 2011): Amore unilaterale, sono attratti da qualcuno che non è disponibile, possono mettere in atto gesti plateali perseguitando la persona fino ad arrivare allo stalking e alle molestie, oppure possono soffrire senza dare luogo ad alcuna azione manifesta. Questo tipo di dipendenza si nutre di fantasie ed è noto anche come Torch Bearers o amore non corrisposto; Sabotatori, sono persone che distruggono il rapporto quando comincia a diventare serio o quando emerge la loro paura di intimità; Seduttori mascherati, cercano il partner unicamente quando si sentono soli o per ricercare una soddisfazione sessuale. A differenza dei Sabotatori alternano momenti in cui sono disponibili a momenti in cui non lo sono; Dipendenti da romanticismo, sono coinvolti con più partner ed instaurano con loro un legame più o meno forte, anche se le relazioni sono brevi e le mantengono a un livello superficiale.

  • I Narcissistic Love Addicts (NLАs) o Dipendenti Affettivo Narcisista cercano di controllare il partner tramite la seduzione e il dominio, sono assorbiti da loro stessi, sono autoritari e la loro bassa autostima è mascherata dalla grandiosità. Essi piuttosto che apparire agli occhi degli altri ossessionati e dipendenti dal rapporto, preferiscono risultare distaccati e disinteressati. Raramente ci si accorge di averli accanto fino a quando il partner non cerca di lasciarli, infatti, quando sono spaventati ricorrono a qualsiasi mezzo pur di mantenere la relazione, incluse le minacce e la violenza (Ibidem).

  • I RelationshipAddicts (RAs) o Dipendenti dalla Relazione, a differenza degli altri dipendenti affettivi, non sono più innamorati dei loro partner ma non riescono a rinunciare al rapporto di coppia perché la paura del cambiamento e di rimanere soli prevale ed impedisce loro di terminare la relazione (Barbier, 2017).

  • I Codependent Love Addicts (CLA) o Co-dipendenti, non sono uguali ai dipendenti affettivi, infatti il termine co-dipendenza significa letteralmente “condivisione della dipendenza”. La vita dei Co-dipendenti, infatti, è influenzata dalla relazione con un’altra personalità dipendente (alcolismo, gioco d’azzardo, etc.), che provoca in essi forti squilibri tanto quanto la malattia del dipendente stesso (Guerreschi, 2000). Essi mettono in atto comportamenti stereotipati e prevedibili che, portati all’estremo, possono condurre ad un annullamento dell’Io. Inoltre, se il Co-dipendente decide di rompere la relazione con la persona disturbata, andrà quasi sicuramente a ricercare una situazione simile alla precedente (Guerreschi, 2011).

Le categorie sopra presentate non si escludono a vicenda, infatti si può scoprire di soffrire di più di un tipo di dipendenza affettiva. Difatti, molte di queste si sovrappongono e combinano con altri problemi comportamentali (Ibidem).

Fattori che contribuiscono a mantenere la dipendenza affettiva

Sono molti i fattori che mantengono i sistemi di convinzioni dei dipendenti affettivi, come l’illusione del cambiamento, la tendenza all’utopia e l’illusione di controllo.

L’illusione del cambiamento consiste nell’idea illusoria che il partner, con il tempo e con appropriate operazioni psicologiche, possa cambiare e la relazione diventare equilibrata e stabile.

La tendenza all’utopia, invece, riguarda i dipendenti affettivi che ricercano in modo utopico ed implicito l’amore e un modello di relazione di coppia poco realistico. Non importa se l’utopia sia positiva (mito dell’amore per sempre) o negativa (convinzione che i rapporti siano pericolosi) poiché, sul piano psicologico, provoca lo stesso esito: l’attaccamento patologico in storie logoranti. La tendenza all’utopia fa sì che la persona non si confronti mai con il rapporto in sé ma unicamente con ciò che crede sia la relazione (Secci, 2012).

L’illusione del controllo, invece, è collegata al bisogno del dipendente di procurarsi una qualche forma di controllo su una realtà che si dimostra sempre più irrazionale. Infatti, percorre l’idea egocentrica ed immatura di avere la completa responsabilità della storia che deraglia e che basterà perfezionare e limare i propri difetti, decodificare le aspettative dell’altro e soddisfarle per conseguire la trasformazione del partner. Per quanto tutto questo sia doloroso, il dipendente affettivo si immerge alla ricerca di un’interpretazione per cui la relazione non funziona, di un motivo che scagioni i comportamenti altrimenti indecifrabili del partner.

Oltre a questi fattori che mantengono stabile ed influiscono sulla dipendenza affettiva ne troviamo altri molto importanti: la dissonanza cognitiva, lo schema del Triangolo Drammatico e la paura dell’abbandono.

La dissonanza cognitiva

La teoria della dissonanza cognitiva elaborata da Leon Festinger (1957) parte dall’assunto che l’individuo mira alla coerenza con se stesso nel modo di pensare e di agire. Infatti, si parla di dissonanza quando un soggetto avvia idee e comportamenti che sono tra loro opposti o “dissonanti” e che lo fanno trovare davanti a un’incoerenza creando disagio psicologico. Il soggetto per cercare di risolvere questa dissonanza innescherà diverse ristrutturazioni mentali che gli permetteranno di eliminare lo stato di tensione.

La dissonanza è particolarmente forte quando è alto il coinvolgimento personale e quando si è totalmente responsabili delle proprie azioni, cioè quando non si può scaricare la colpa su qualcosa o qualcuno (Amerio, Bossotti e Amione, 2001). Uno di questi casi si riscontra in amore, soprattutto quando ci si trova in una relazione con dei manipolatori, dei bugiardi o degli immaturi. La dissonanza si lega alla negazione della realtà facendo sì che la persona, “vittima” di queste persone tossiche, si culli nell’illusione che questo sia vero amore e che il maltrattamento non esista ma sia solo un effetto collaterale accettabile.

Tale situazione si verifica in modo ricorrente nella dipendenza affettiva. Questa è una delle spiegazioni per cui il dipendente, spesso, per mantenere uno stato di coerenza tra il suo pensiero e le sue azioni, decide di continuare a dipendere da un partner carnefice, piuttosto che uscire da quel tipo di relazione (Cavazza, 2006). Quando il dipendente comincia a rendersi conto che ogni giorno accanto al partner è una condanna, che la relazione gli fa provare tristezza, disagio e depressione, non vede un cambiamento nel rapporto e sa che sarebbe meglio uscirne, sta vivendo una dissonanza cognitiva tra ciò che pensa/sente e ciò che vive (Poudat, 2006). Questo perché ha paura della solitudine che gli impedisce di chiudere la relazione, infatti, invece di lavorare in risposta al “devo mettere fine a questa situazione perché mi ferisce e dovrei scappare” e, quindi, ripristinare tale tipo di coerenza, la persona si rifugia nel “ho bisogno di questa persona perché il solo pensiero di restare solo/ami terrorizza”; perseguendo il comportamento di sempre.

Per eliminare la dissonanza e ridurre il malessere il dipendente affettivo usa strategie comuni come le giustificazioni e l’autoinganno (Morales, 1994), finendo per credere al sistema di menzogne che si è creato, pur di mantenere l’idea di coerenza e continuare a vivere la dipendenza.

Il Triangolo Drammatico

Un ulteriore fattore di mantenimento della relazione di dipendenza affettiva è il cosiddetto schema del Triangolo Drammatico (Drama Triangle). Questo concetto si colloca all’interno dell’Analisi Transazionale ed è stato formalizzato dallo psicologo statunitense Stephen Karpman (1968) con l’intento di illustrare la dinamica relazionale di un “gioco”, all’interno della teoria dei “Giochi psicologici” di Eric Berne (1966). Si tratta di un triangolo rovesciato ai cui vertici si collocano i tre possibili ruoli ricoperti da due membri della relazione. I ruoli sono intercambiabili ed è possibile giocarne più di uno contemporaneamente. In generale ogni giocatore ha una posizione nella quale passa la maggior parte del tempo e questo comporta una svalutazione di sé e dell’altro con cui si entra in relazione. Si hanno quindi (Karpman, 1968):

  • Persecutore: svilisce, maltratta, fa sentire inferiore un’altra persona e la umilia; evita di sentirsi lui stesso vittima assumendo il ruolo di carnefice;

  • Salvatore: passa il suo tempo ad aiutare l’altro, proteggendolo grazie alle proprie abilità, evitando così di sentirsi debole e inferiore (vittima) e alimentando un senso di sé grandioso;

  • Vittima: opera una svalutazione e un disprezzo molto forte su di sé, annullando o minimizzando le sue capacità; ricerca relazioni con un Salvatore, che viene idealizzato, o con un Persecutore che la tratta “come merita”.

Nella dipendenza affettiva, l’assunzione da parte del dipendente del ruolo del Salvatore non permette una visione chiara dei meccanismi malsani che si sono instaurati nella relazione e la ripetizione di comportamenti dedicati al sacrificio aiuta il mantenimento delle sue credenze, ritenendo di dover aiutare il partner. Ma, data la dinamicità di tali ruoli, si fa presto ad assistere ad uno stravolgimento di tali dinamiche relazionali e perciò, il partner salvifico si trasforma in un oppresso, vittima dei suoi stessi propositi.

L’inversione tra ruoli è conosciuta come il “dramma”, ossia quando qualcuno passa da un ruolo a un altro costringendo il proprio interlocutore a fare altrettanto. L’intensità del dramma varia in base al numero di cambiamenti di ruolo e al lasso di tempo in cui avvengono (Ibidem).

Trappola o paura dell’abbandono

La paura dell’abbandono è un fattore molto importante che mantiene la dipendenza affettiva, in quanto il timore di affrontare in solitudine la vita porta a percepire il mondo come pericoloso. Questa paura si manifesta con il costante terrore di perdere la persona amata e, di conseguenza, rimanere soli in assenza di amore e cura. Gli individui che ne soffrono sono talmente tormentati da questa convinzione che pensano di essere vulnerabili e indifesi. Ciò che caratterizza il loro pensiero è la certezza che passeranno la vita in un totale deserto affettivo (Serrani e Tenore, 2013).

L’origine di questa paura è da rintracciarsi nelle precoci esperienze di rapporto con la figura di riferimento e nell’instabilità del legame con essa (interruzione del rapporto o poca sintonizzazione). In relazione a ciò, è normale che un bambino sperimenti una forte paura e che, di conseguenza, metta in atto comportamenti orientati alla soddisfazione del bisogno di vicinanza se questa si allontana (Arntz e Jacob, 2001). Tuttavia, una volta che lo schema di abbandono si è fissato, il bambino verrà attivato da situazioni di separazione future, in cui la persona rivivrà un doloroso sentimento di angoscia, paura e solitudine (Bowlby, 1973). La persona che mostra questo schema può reagire chiudendosi nel proprio dolore, pensando che nessuno potrà mai restarle accanto come desidera; oppure può sviluppare un comportamento dipendente verso delle figure che considera basilari per il proprio equilibrio emotivo, come ad esempio il partner (Barbier, 2016).

In queste situazioni il dipendente può mettere in atto una serie di comportamenti volti al non farsi lasciare dal proprio partner (estrema compiacenza e sacrificio, disponibilità, ecc.), spesso esasperando le manifestazioni emotive, come ad esempio richieste di rassicurazioni continue al partner, che anziché portare all’avvicinamento della persona amata, aumenteranno la probabilità che il partner si allontani davvero, alimentando il timore abbandonico iniziale (Welwood, 2007).

Quando questa paura abbandonica è molto forte, diventa estremamente difficile riuscire a vedere l’altro per quello che è realmente per poterne apprezzare qualità e difetti. Questo fa sì che esso si trovi intrappolato in relazioni che non lo soddisfano pur di non dover affrontare le conseguenze legate ad una rottura (Arntz e Jacob, 2001; Guerreschi, 2011).

Questa “trappola dell’abbandono” insieme alla “trappola dell’inadeguatezza” (credenza di non valere abbastanza e di non essere degni d’amore) sono le principali paure (lifetraps) che costituiscono la base solida della “trappola della dipendenza” (Young e Klosko, 2004).

Le caratteristiche del dipendente affettivo

La dipendenza affettiva affonda le sue radici nell’infanzia, precisamente nel rapporto con le persone più care e significative, ovvero i caregivers. Solitamente tra le caratteristiche della storia personale di chi è coinvolto in un problema di love addiction sono presenti: trascuratezza dei bisogni emotivi; genitori iperprotettivi, controllanti, limitanti ed iper-coinvolti (Inama, 2002), che frustrano il bisogno di spontaneità e che comunicano l’idea che l’autonomia è pericolosa, oppure che crescere e differenziarsi sia come “tradirli” (Masterson e Rinsley, 1975); genitori passivi; carenza di affetto autentico e di amore (Norwood, 1990); storia infantile di maltrattamenti fisici e psichici; subordinazione delle proprie necessità a quelle degli altri con un conseguente smarrimento di identità e bassa autostima (Herman, 1992); genitori con atteggiamenti conflittuali tra loro, abuso di alcol e/o droghe; assenza della possibilità di sperimentare sicurezza.

Si comprende, quindi, che il ruolo fondamentale svolto dalla famiglia è quello legato all’importanza delle prime esperienze sociali di attaccamento (Sussman, 2010). In base alle risposte fornite dalla figura di riferimento, il bambino organizzerà una specifica tipologia di legame o stile di attaccamento, che potrà essere funzionale o meno. Crescendo, il tipo di attaccamento si concretizzerà in modelli operativi relazionali, che tenderanno a riprodurre lo stesso modello di legame nelle relazioni future.

In uno studio del 1990, Feeney e Noller cercarono di analizzare come gli stili di attaccamento potessero prevedere le relazioni sviluppate in età adulta, introducendo anche una misurazione della dipendenza affettiva. Il dato più interessante che emerse enunciò che i soggetti con attaccamento ambivalente riportavano un amore caratterizzato da ossessività, limerence (desiderio eccessivo nei confronti dell’amato), idealizzazione, bisogno di attenzioni, preoccupazioni e dipendenza emotiva.

Invece, Bartholomew (1990) presentò quattro prototipi di attaccamento adulto basati sull’immagine positiva o negativa che la persona ha di sé e dell’altro:

  • Sicuro: caratterizzato da un’immagine positiva sia di sé che dell’altro e relazioni basate su intimità e autonomia;

  • Preoccupato: composto da un’immagine negativa di sé e positiva dell’altro, esso è contraddistinto da una eccesiva dipendenza affettiva, dal desiderio di ottenere l’approvazione altrui e da profondi sentimenti di non essere degni;

  • Timoroso: definito da un’immagine negativa sia di sé che dell’altro, tipico di soggetti i cui bisogni infantili sono stati delusi. La persona desidera sperimentare l’intimità ma il timore del rifiuto e la mancanza di fiducia glielo impediscono;

  • Rifiutante: caratterizzato da una positiva immagine di sé e negativa dell’altro. Questi soggetti sminuiscono il valore delle relazioni intime, focalizzandosi invece su aspetti come il lavoro e gli hobby. Nelle relazioni manifestano comportamenti di tipo dominante-aggressivo, sono calcolatori, competitivi e manipolatori.

Secondo l’autore, i soggetti Preoccupati e Timorosi avrebbero un forte bisogno di dipendenza nonostante le differenze nel modo di approcciarsi alla relazione. Inoltre, evidenzia come il tipo di attaccamento influenzi anche la scelta del partner e la tipologia di relazione, ad esempio un individuo Preoccupato, scegliendo un partner evitante (timoroso o rifiutante), confermerebbe l’immagine di sé come non degno di amore e i propri timori abbandonici connessi ad un altro non disponibile (Ibidem). Per questo si parla di “omeostasi rappresentativa” (Bowlby, 1989) ovvero, ciascun partner prediligerebbe l’altro per confermare le rappresentazioni di sé e dell’altro costruite fin dall’infanzia.

A conferma di quanto detto fino ad ora, in uno studio Stavola e collaboratori (2015) hanno evidenziato i fattori predisponenti la dipendenza affettiva: la presenza di un attaccamento di tipo preoccupato e timoroso, la presenza di traumi infantili di abuso e di negligenza emotiva, la difficoltà nella regolazione delle emozioni e la presenza di sintomi dissociativi a livello patologico (meccanismo presente in soggetti con trauma infantile).

Il dipendente affettivo è caratterizzato da diversi fattori, Robin Norwood (1990) ne identifica ed esplica i principali:

  • Attrazione per persone emotivamente non disponibili, non interessate o impegnate;

  • Distacco dalla realtà: il dipendente cerca un partner che sia lontano dalle aspettative di compagno perfetto e sogna che lo diventi grazie alle sue azioni di soccorso;

  • Terrore dell’abbandono: essere lasciati dal partner fa riemergere il terrore abbandonico provato in passato dalle figure di accudimento;

  • Estrema e smisurata disponibilità nel fornire il proprio aiuto al partner;

  • Sacrificarsi per l’altro: il dipendente spende tempo ed energia cercando di guadagnarsi l’amore e il rispetto del partner, anche perché spera che, dopo tutti questi sacrifici, esso diventerà quello che ha sempre desiderato che fosse;

  • Provare noia con i “bravi ragazzi”: un partner imprevedibile e immaturo è una sfida irresistibile, mentre un partner apprezzabile risulta poco stimolante emotivamente;

  • Aspettare, sperare e sforzarsi di piacergli: il dipendente è convinto che se non sono felici è perché non ha fatto abbastanza per la relazione e cercherà di fare di più;

  • Assumersi quasi totalmente responsabilità e colpe: il dipendente crede che il funzionamento della relazione dipenda da lui e quindi ricercherà partner colpevolizzanti che contribuiranno a rafforzare questo pensiero;

  • Dimenticare sé stessi: il dipendente è bravo a capire i sentimenti e i bisogni dell’altro ma non è capace a riconoscere i propri e a prendere decisioni sulla sua vita, non sa davvero chi è e cerca di non scoprirlo immergendosi nei problemi altrui;

  • Bassa autostima: i dipendenti credono di non essere degni di essere amati e vivono con perenni sensi di colpa, si sentono inadeguati e non credono nelle loro capacità;

  • Controllo del partner e del rapporto per sentirsi al sicuro e certo del suo ruolo nella relazione;

  • Essere drogati dal partner, dalle sofferenze emotive e dalle sostanze: il dipendente è totalmente immerso nella relazione, la mancanza del partner provoca sintomi simili alla crisi di astinenza da droghe. Un sovraccarico di esperienze emotive irrisolte può portare all’uso di sostanze come contenitore delle proprie emozioni;

  • Predisposizione alla depressione: ricerca di relazioni stimolanti che causino un sovraccarico di adrenalina per bilanciare la depressione e il senso di vuoto.

È chiaro come amare l’altro diventa spesso una forma di sofferenza soprattutto quando il benessere emotivo, la salute e la sicurezza vengono messi a repentaglio. Le persone con dipendenza affettiva non riescono a prendersi cura di sé, a creare degli spazi per la propria crescita personale e questo induce a lasciare spazio a personalità egocentriche e anaffettive e a tollerare qualsiasi tipo di comportamento. Ne deriva che, di fronte a maltrattamenti fisici, verbali o psicologici, il soggetto si assume la responsabilità dei comportamenti dell’altro nella fittizia convinzione di detenere il controllo sulla relazione.

Inoltre, i dipendenti affettivi sono ossessionati da bisogni irrealizzabili e da aspettative non realistiche, difatti ritengono che occupandosi sempre della loro relazione la faccia divenire stabile e duratura, ma le situazioni di delusione non tardano a verificarsi e si precipita così nuovamente nella paura che il rapporto non possa durare facendo ripartire il circolo vizioso (Guerreschi, 2011).

Il Disturbo Dipendente di Personalità e il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Come si è potuto constatare, la dipendenza affettiva è caratterizzata da molti sintomi di natura clinica. Tallis (2006) evidenzia come in letteratura molti esperti ritengono che il sintomo dominante sia quello ossessivo e che da esso derivino tutti gli altri. Il soggetto con Disturbo Ossessivo Compulsivo viene gestito dalle compulsioni (atti mentali o comportamenti ripetitivi) e nel dipendente affettivo l’attività mentale è orientata sul pensiero ossessivo dell’amato che appare in maniera ricorrente in tutta la giornata. In risposta a questo egli cerca in maniera pressante di vederlo e di comunicare con lui allo scopo di ridimensionare l’ansia provata per la sua assenza. Si hanno così difficoltà di concentrazione, si tralasciano le attività quotidiane e i rapporti con il resto del mondo diventano inesistenti (Prassede Capazio, 2008).

Inoltre, è possibile riscontrare somiglianze tra la personalità del dipendente affettivo e le caratteristiche di un soggetto con Disturbo Dipendente di Personalità. Questo disturbo è stato definito nel DSM-5 (APA, 2014), come un’esigenza pervasiva ed eccessiva di essere accuditi, che determina un comportamento sottomesso e dipendente e il timore della separazione. Il soggetto ha una percezione di sé come incapace di funzionare adeguatamente senza l’aiuto degli altri e cerca in loro un senso di protezione e di sicurezza.

Guerreschi (2011) ritiene che fino a quando la dipendenza affettiva non verrà riconosciuta come entità nosografica è opportuno adoperare i criteri del Disturbo Dipendente di Personalità per fare diagnosi. Però questa sembra essere una limitazione per lo sviluppo di un trattamento efficace della dipendenza affettiva, perché se è vero che gli individui con Disturbo Dipendente di Personalità possono sviluppare una dipendenza affettiva, non è ugualmente vero il contrario.

I criteri diagnostici e gli stadi evolutivi della dipendenza affettiva

Reynaud e collaboratori (2010) a causa del mancato riconoscimento nei sistemi diagnostici, evidenziano, sulla base delle analogie tra la Love Addiction e la dipendenza da sostanze, alcuni criteri diagnostici basati sulla durata e sulla frequenza della sofferenza clinicamente significativa del dipendente affettivo. Si devono manifestare da tre (o più) dei seguenti criteri (che si verificano in ogni momento, nello stesso periodo di 12 mesi, per i primi cinque criteri):

  • Esistenza di una sindrome caratterizzata da astinenza in assenza dell’amato;

  • Significativa sofferenza e bisogno compulsivo dell’altro;

  • Consistente quantità di tempo speso sulla relazione (nella realtà o nel pensiero);

  • Riduzione di importanti attività sociali, professionali o di svago;

  • Persistente desiderio o sforzi infruttuosi di ridurre o controllare la relazione;

  • Ricerca della relazione, nonostante l’esistenza di problemi creati dalla stessa;

  • Esistenza di difficoltà di attaccamento come manifestato da:

    • ripetute relazioni esaltate, senza alcun periodo di attaccamento durevole;

    • ripetute relazioni dolorose, caratterizzate da attaccamento insicuro.

Inoltre, in merito all’evoluzione della dipendenza affettiva Secci (2014) ha individuato sei stadi, paragonandola ad un ascensore che scende verso l’inferno:

  • Stadio 1. Primo incontro e conoscenza: gli incontri avvengono in maniera del tutto normale, al momento della conoscenza è presente, in almeno uno dei futuri partner, un forte bisogno di “fare coppia”, bisogno che giocherà un ruolo determinante nella discesa ai piani successivi; di solito gli individui da cui si diventa dipendenti si sono mostrati più motivati al dialogo e al proseguimento della conoscenza di quanto non lo fosse il dipendente stesso;

  • Stadio 2. Ambivalenza: anche se ci sono delle incertezze nei confronti del partner (è chiaro che “non è la persona giusta”) si aumenta il tempo insieme, perché è il solo che in quel momento viene percepito come disponibile e rassicurante. Un modo per superare l’ambivalenza è quello di negarla, oppure si decide di approfondire il rapporto per disfare l’incertezza, quest’ultima soluzione produce però ulteriore confusione.

  • Stadio 3. Auto-inganno: essendo oramai l’impiego nella relazione troppo elevato, per rimediare all’ambivalenza si utilizza l’auto-inganno. Per stare con un partner nel quale si nutre un sentimento contradditorio si proiettano su di lui i propri bisogni affettivi, fingendo che prima o poi sarà in grado di soddisfarli. L’auto-inganno può essere mascherato dal dipendente assumendo un atteggiamento evitante nei confronti delle occasioni sociali, privilegiando i momenti con il partner e alimentando la dipendenza.

  • Stadio 4. Idealizzazione: è una diretta conseguenza dell’auto-inganno e ha lo scopo di amplificare i pregi del partner o di inventarli, tanto che l’altro risulta indispensabile. L’idealizzazione può essere gratificante per il partner che cerca di rendersi il più simile possibile alle aspettative, oppure può esserne intimorito poiché consapevole di non poterle colmare. A questo punto i sentimenti del dipendente verso l’oggetto d’amore sono assoluti, il pensiero è volto continuamente su come soddisfare i suoi desideri e ogni azione è portata all’eccesso (telefonate, regali, ecc.). Il soggetto si sente realmente innamorato ed è incapace di distinguere tra ciò che è reale e ciò che ha inventato.

  • Stadio 5. Dipendenza attiva: questa fase vede il dipendente concentrarsi esclusivamente sulla relazione e adattare la propria vita ai bisogni del partner. I sintomi più indicativi sono il graduale isolamento sociale (rifiuta l’aiuto dall’esterno) e l’insorgenza delle alterazioni dell’umore (euforico o depressivo), associate a stati d’ansia. Il soggetto è ormai “reattivo”, ossia capace di reagire e non più di agire in modo autonomo.

  • Stadio 6. Fase sintomatica vera e propria: tutti i sintomi che si erano precedentemente manifestati in forma lieve si presentano in forma acuta. Si ha un distacco definitivo dalla realtà e il mondo è visto come nemico perché non capisce cosa sia “il vero amore”. Lo sviluppo dei sintomi è indipendente dalla presenza o assenza del partner, perché se l’altro fugge, la disperazione dovuta all’abbandono determina l’inseguimento e, con esso, una serie di altri rifiuti, se invece rimane la dipendenza si intensifica fino a quando il rapporto non crollerà sotto il peso della sua disfunzionalità.

Arrivati a questo livello, il problema può essere affrontato solo attraverso una psicoterapia rivolta a sostenere la persona nel cambiamento e nella comprensione delle strategie che hanno nutrito la dipendenza.

La persuasione come rinforzo della dipendenza affettiva

L’uomo è per sua natura un essere comunicante e tutta la sua vita è descritta in termini di messaggi, informazioni, codici e atti linguistici. Watzlawick, Beavin e Jackson (1997) nella loro opera approfondiscono il rapporto tra comunicazione, interlocutori e contesto, sottolineando la relazione tra comportamento e comunicazione. Il principio base è che la comunicazione è attivata dalle relazioni, dipende da esse, le modifica e le definisce.

La comunicazione può essere utilizzata anche in modo persuasivo. Nel caso della relazione di coppia, persuadere comunicando è molto semplice ed efficace, in quanto il mittente, indirettamente, fa leva sui sentimenti che il ricevente prova nei suoi confronti (Cavazza, 2009). Nella dipendenza affettiva, questo può avvenire in modo ancora più facile in quanto la persona dipendente è completamente asservita al partner, il quale spesso se ne approfitta.

Il processo di persuasione viene, spesso, erroneamente percepito come una relazione tra un soggetto attivo (il persuasore) e un soggetto passivo (colui che viene persuaso). In realtà, persuadere rappresenta un processo attivo, che richiede l’uso di funzioni mentali adattive (Cialdini, 2009).

La persuasione è più comune di quanto si possa pensare, infatti, la si può riscontrare quotidianamente nelle nostre vite e tutti quanti volontariamente o involontariamente l’hanno utilizzata o “subita”.

La seduzione

La seduzione è fondamentale all’inizio di una relazione ed indica la capacità di provocare un’attrazione nell’altro. Però, essa, può essere messa in atto anche in senso negativo, ovvero per innescare il processo di plagio su una persona. Questo processo si svolge in due fasi: inizia con la seduzione, poi, se il soggetto fa resistenza, si adottano comportamenti violenti sempre più manifesti (Hirigoyen, 2006). La fase della seduzione dà l’illusione di uno scambio affettivo, in quanto l’altro viene attirato per mezzo di quello che potrebbe diventare un amore idilliaco. La seduzione mira agli istinti di protezione della persona, infatti chi seduce spesso si presenta come vittima di un passato difficile. Non si tratta di seduzione amorosa e reciproca, ma di una seduzione narcisistica destinata ad ammaliare l’altro e contemporaneamente a paralizzarlo. Questa fase è allo stesso tempo un momento di preparazione psicologica alla sottomissione e, come afferma lo psicoanalista Paul-Claude Racamier (1992), di “lavaggio del cervello”.

Difatti, la persona è resa instabile, le si insinua sempre il dubbio su ciò che lei dice o prova e le si fa perdere gradualmente fiducia in se stessa. Viene, un po’ per volta, privata di ogni decisione e visione critica della propria condizione. Con questo metodo seduttivo il soggetto all’inizio non cerca di distruggere l’altro, ma di assoggettarlo e di tenerlo a propria disposizione. La distruzione giungerà solamente dopo, attraverso strategie manipolatorie (Hirigoyen, 2006).

La perversione relazionale

Cohen (2013) mette in evidenza il termine “perversione” nella dinamica del maltrattamento relazionale tra due individui, il quale si trasforma in un rapporto di dipendenza. Inoltre, Filippini (2005) dichiara che la perversione relazionale sorge sulla struttura narcisistica della personalità e colpisce la vittima attraverso l’uso della violenza psicologica. Una delle forme di perversione adoperata dal narcisista nella relazione è la perversione narcisistica, a cui fa riferimento Racamier (1992), la quale è contraddistinta dalla necessità di far valere se stessi a spese di altri. Infatti, l’autore sostiene che il principale obiettivo dell’azione perversa è quello di schiacciare la verità e di manipolare il partner per i propri scopi, primo fra tutti l’evitamento di ogni conflitto interiore. Controllando l’altro, il perverso si risparmia del lavoro psichico e si difende dalla sofferenza che si manifesterebbe facendo tale lavoro. Proprio per questo il concetto di perversità viene inteso come una modalità relazionale ed interindividuale che si basa sulla manipolazione, sulla malignità e sul pervertimento dei propri affetti (Ibidem).

Infine, alcuni modi di mostrare la perversione relazionale possono essere, ad esempio, il ricatto morale, la denigrazione e le tendenze colpevolizzanti. Dunque, risulta chiaro come il perverso tenda a negare i confini dell’altro e a riconoscerlo come persona che abbia una propria indipendenza e un proprio vissuto esistenziale. Suddetto diniego si chiarisce nel misconoscimento del narcisismo dell’oggetto relazionale che serve per rassicurare e completare il debole narcisismo del perverso (Casadei, Petrini e Chiricozzi, 2011).

La manipolazione emotiva o effetto gaslighting

Lo stravolgimento della realtà e dei legami, attuato dalla perversione relazionale, è una vera e propria violenza psico­logica che si diffonde nei contesti quotidiani. Si parla di violenza psicologica quando un individuo mette in atto una serie di atteggiamenti che mirano a screditare e rifiutare il modo di essere di un’altra persona, al fine di sottometterla, manipolarla e controllarla, provocando spesso una frattura identitaria (Hirigoyen, 2006). Si tratta di un maltrattamento velato che avviene nel privato per mantenere una buona immagine di sé, infatti, quando la violenza psicologica si manifesta in pubblico, gli attacchi sono in forma ironica in modo da conquistare la stima dei testimoni e portare la vittima a dubitare di ciò che è stato e di ciò che prova.

Quando si parla di violenza psicologica nella relazione di coppia si intende la manipolazione emotiva, in quanto si crea una condizione dove i due partner sono manipolatore e vittima (Power, 2020). Questa forma di violenza viene chiamata dai criminologi gaslighting, tale termine viene preso in prestito da un film del 1944 diretto da George Cukor chiamato “Gaslight” (rivisitazione italiana in “Angoscia”) in cui un marito tenta di manipolare sua moglie e, per fare ciò, tende a spegnere e a riaccendere le luci della casa, facendole diffidare sia di ciò che vede che di ciò che sente, fino a farle credere di essere pazza (Gass e Nichols, 1988; Power, 2020).

Dunque, il gaslighting si rappresenta come un attacco a quelle che sono le certezze della persona, la reale percezione delle cose e delle situazioni, la sua identità e la fiducia che ripone negli eventi di coppia. Inoltre, serve ad aumentare la dipendenza psicologica (Power, 2020).

Tale meccanismo manipolatorio può assumere diverse caratteristiche e principalmente si individuano tre tipi di gaslighter (Stern, 2009): il manipolatore affascinante, utilizza la seduzione per influenzare ed imporre la sua presenza sulla vittima. Esso si mostra dapprima attento e gentile, poi, invece, imbroglia la sua vittima con l’intento di appagare i propri desideri; il manipolatore bravo ragazzo, si presenta amorevole e premuroso nei confronti del partner ma, in modo più o meno inconscio, lo fa solo per raggiungere i propri scopi; l‘intimidatore, attua comportamenti ostili e aggressivi e punta alla distruzione emotiva con litigi e minacce d’abbandono.

Inoltre, De Pasquali e Paterniti (2014) distinguono tre principali fasi attraverso le quali si sviluppa la manipolazione mentale. Nella prima fase vi è l’impiego di una distorsione in cui la comunicazione verbale diventa uno strumento per confondere la vittima, renderla impotente e sfruttarla, per evitare uno scambio comunicativo sano. Nella seconda fase, detta dell’incredulità, il partner è completamente confuso anche se non riesce ancora a mettere in dubbio quello che vede e sente. Infatti, continua il declino verso il disordine mentale circa la verità ed il falso. Infine, nella terza fase, detta depressiva, la vittima confusa, cede, diffida di se stessa e diviene dipendente dal gaslighter. Quindi, vengono meno le certezze circa la propria lucidità mentale e si apprende una visione buona dell’altro e negativa di sé. La vittima, così, si sente sperduta in quanto la realtà sembra barcollare e si aggrappa a quella del proprio partner, verso il quale si accresce una vera e propria dipendenza affettiva (Ibidem).

Il partner del dipendente affettivo: il manipolatore perverso

Come accennato precedentemente, il partner del dipendente affettivo può essere indentificato come un individuo carnefice e manipolatorio, che viene chiamato in molti modi: perverso narcisista, manipolatore perverso, narcisista maligno, manipolatore affettivo, manipolatore relazionale, ecc. Tuttavia, quello che accomuna queste denominazioni e che lo caratterizza è la personalità narcisistica.

Nell’infanzia la fase iniziale del narcisismo è inevitabile, infatti si parla di narcisismo buono in quanto il bambino si identifica con le attenzioni (sguardi, parole e gesti) che la madre gli offre e, quindi, si sente amato. Se invece questa relazione incontra delle problematiche, in quanto il bambino si sente incapace di suscitare attenzioni materne, sorge una sofferenza incolmabile che andrà a costituire il narcisismo patologico. Questo vuoto, avvertito inconsciamente, dovrà essere colmato in tutti i modi e primariamente attraverso il riconoscimento e l’approvazione da parte di chiunque. Con suddetti presupposti, il narcisista patologico crede che tutto gli sia dovuto e che nulla sia abbastanza per lui, in quanto niente potrà soddisfare tale carenza (Mammoliti, 2012).

Dunque, da quanto emerge l’indi­viduo si mostra incapace di entrare in contatto empatico ed affettivo con il prossimo, in quanto la relazione con esso non è che un modo con cui riprodurre la propria grandiosità ed il proprio bisogno di riconoscimento (APA, 2014).

Le caratteristiche del manipolatore perverso

Sono quattro le caratteristiche principali che caratterizzano il perverso narcisista da altri soggetti, ovvero la megalomania, la vampirizzazione, l’irresponsabilità e la paranoia (Hirigoyen, 2000).

Con il termine vampirizzazione viene richiamata l’immagine di un vampiro che per favorire la sua sopravvivenza priva l’altro della sua linfa vitale. Infatti, il perverso si serve del narcisismo sano dell’altro e della sua au­tostima per alimentarsi e per tenere integra la propria identità. L’invidia è ciò che spinge il manipolatore ad attuare questi meccanismi, infatti, nella maggior parte dei casi, le loro vittime vengono scelte tra persone piene di energia e che hanno gioia di vivere, come se voles­sero accaparrarsi la loro forza appro­priandosi delle loro qualità morali (Ibidem). Pertanto, l’unico motivo che muove il perverso a costruire un legame si ha quando l’altro, oltre a rispecchiare la propria grandiosità, possa appagare i tentativi di ristabilire la propria vulnerabilità e le proprie manchevolezze.

Un’altra caratteristica è l’irresponsabilità che può essere ricondotta alla colpevolizzazione che si realizza nelle varie espressioni della violenza psicologica. Tramite meccanismi di proiezione i narcisisti addossano al partner ogni loro problematicità e fallimento evitando il dolore psichico e trasformandolo in negatività. Infatti, il narcisista, non accettando le critiche e i fallimenti, non potrà mai assumersi la colpa di essere agente indiscusso di essi e di conseguenza l’attribuzione causale è esterna, poiché rappresenta una minaccia alla propria integrità (Ibidem).

Inoltre, i perversi narcisisti sono me­galomani, ovvero pre­tendono attenzioni, credono che tutto gli sia do­vuto, essendo però poco interessati ed empatici nei confronti degli altri (Ibidem). Il manipolatore perverso si presenta brillante e rispettabi­le, sa fingere gentilezza e di avere dei valori morali, ha un talento nell’affascinare e coinvolgere l’altro nello scambio relazionale, ma ciò che at­tua è un processo di seduzione nel tentativo di farsi apprezzare dall’altro mostrando il proprio lato migliore (Nazare-Aga, 2008; Morelli e Couderc, 2014). Ed è proprio grazie a questa immagine grandiosa che appare inarrivabile, creando quelle distanze affettive e psichiche che lo deviano dal contatto intimo con l’altro.

Infine, vi è la paranoia, in quanto il narcisista può essere caratterizzato da una personalità paranoica costituita da un’ipertrofia dell’Io, ovvero avere la percezione di essere superiori a tutti ed essere orgogliosi; la psicorigidità, con cui si intende l’ostinazione, una razionalità fredda ed una problematicità nel mostrare sentimenti positivi in opposizione con una semplicità nel mostrare disprezzo; diffidenza e perciò avere timore degli altri e sentirsi continuamente vittima di malevolenze, essere sospettoso riguardo coloro che lo circondano e geloso in modo incontrollabile; la falsità di giudizio intesa come il fraintendimento di eventi neutri interpretati come se il narcisista ne fosse sempre l’obiettivo. Tuttavia, ciò che però distingue un narcisista da un paranoico vero e proprio è il fatto che il perverso narcisista tende a ingannare il partner adoperando la seduzione a differenza del paranoi­co che, invece, utilizza la forza (Hirigoyen, 2000).

Un’altra caratteristica, che viene aggiunta alle quattro principali, che accomuna tutti i narcisisti perversi è la completa mancanza di empatia, infatti, questi non sono in grado di mettersi nei panni degli altri, comprendere i loro bisogni e capire ciò che provano e che sentono. Da questo il narcisista viene irritato e, quando gli vien posto davanti uno stato d’animo ed un sentimento a lui avulso, si manifesta un peggioramento della sua aggressività (Mammoliti, 2016).

Un ulteriore aspetto importante che bisogna prendere in conside­razione è quello della sessualità, in quanto il perverso mira ad essere considerato un bravo amante, ma il perseguimento del piacere sessuale dell’altro è finalizzato esclusivamente alla soddisfazione personale, per confermare le proprie “doti” (Morelli e Couderc, 2014). Inoltre, ha l’attitudine di spingersi oltre i limiti della sessualità “tradizionale”, chiedendo al partner una sessualità meno irrispettosa, più distorta e improntata sulla dominazione e sull’egoismo, infatti il modello dominatore-dominato è molto frequente (Nazare-Aga, 2008).

In aggiunta a tutto questo, la psicoterapeuta Isabelle Nazare-Aga (2008), mette in luce trenta caratteristiche per riconoscere un manipolatore, in quanto non sempre è facile individuarlo, ad esempio: non comunica in modo chiaro le proprie richieste, sentimenti ed opinioni; colpevolizza gli altri; modifica opinioni, condotta e sentimento a seconda delle persone e dei contesti, questo viene chiamato camaleontismo (Mammoliti, 2012); invoca ragioni logiche per occultare le proprie richieste; fa credere agli altri che devono essere perfetti; induce zizzania per dominare; fa la vittima per farsi compatire; comunica i propri messaggi tramite intermediari (evita di parlare); ignora le richieste anche se dice di prenderle in considerazione; usa i principi morali degli altri per favorire i propri bisogni; punta sull’ignoranza dell’altro per far credere alla propria supremazia; non tiene conto dei diritti e delle esigenze altrui; aspetta l’ultimo momento per dare ordini; è egocentrico; può essere geloso; non sopporta le critiche e confuta le evidenze; i suoi discorsi appaiono logici mentre le sue azioni dicono il contrario; si serve dei complimenti o fa regali per piacere; crea uno stato di disagio e di non libertà; fa fare cose al partner che probabilmente non avrebbe mai fatto spontaneamente (Nazare-Aga, 2008).

La comunicazione perversa e manipolatoria

Da un’analisi accurata dei tratti distintivi precedentemente esposti si può notare che buona parte degli stessi appartiene alla sfera comunicativa, uno degli aspetti fondamentali della vita relazionale. Infatti, buona parte dei problemi deriva proprio dall’inettitudine delle persone di comunicare in maniera adeguata. Incomprensioni, stereotipi, pregiudizi ed equivoci sono solo alcuni degli elementi che la ostacolano, in quanto essa richiede un’abilità sempre più rara: saper ascoltare anche con il cuore. Se già in condizioni normali è difficile che avvenga, è del tutto impossibile quando ci si relaziona con i manipolatori, per i quali la comunicazione è solamente uno strumento per assoggettare gli altri creando confusione ed insicurezza (Mammoliti, 2012). Il narcisista perverso, infatti, non comunica con gli altri in modo chiaro ed autentico, non ne è in grado, predica il falso per sapere il vero e non dialoga ma fa monologhi. Egli trova il modo per sviare il discorso e, se lo si accusa di equivocare qualcosa, afferma che è l’altro a non sapersi spiegare bene (Nazare-Aga, 2008). La comunicazione utilizzata imprigionerà il partner, il quale avrà più difficoltà a staccarsi e sarà sempre più legato al suo manipolatore.

I narcisisti perversi sanno che in una relazione si aspira ad una comunicazione vera, per questo la negano con strategie subdole: aggressività, menzogna, ambiguità, contraddittorietà e silenzio. Inoltre, più le vittime cercano il dialogo e il confronto più loro si allontanano facendole sentire inadeguate, impotenti, in colpa e in una condizione da non capire più nulla della realtà (Hirigoyen, 2000; Mammoliti, 2012). Attraverso i messaggi contraddittori l’altro può paralizzarsi, diventare incapace di pensare, di agire e di opporsi; tutto questo può comportare un esaurimento psicologico e un crollo della capacità critica (Hirigoyen, 2006).

Tecniche di manipolazione

I manipolatori perversi quando comunicano con il proprio partner puntano molto sulla deformazione del linguaggio; infatti, spesso utilizzano un tono di voce distaccato, freddo e piatto, creando confusione e distanza tra sé e l’altro. Inoltre, fanno uso di un linguaggio tecnico, astratto, categorico che porta l’altro a ragionamenti confusi e poco comprensivi (Hirigoyen, 2000).

Un aspetto molto importante è l’utilizzo della menzogna per sapere la verità. Essa consiste nel modificare una supposizione in affermazione o di fare una domanda che preveda un elemento sbagliato (Nazare-Aga, 2008). Le menzogne sono un insieme di sottintesi, di non detti orientati a costruire un malinteso da sfruttare a proprio piacimento, in quanto destabilizzano il partner e lo portano a dubitare di quanto sia appena successo (Hirigoyen, 2000). Colui che mente inganna in modo volontario e può esprimere la menzogna in diversi modi, come la falsificazione; l’occultamento; il mascheramento; l’omissione. Tuttavia, è possibile utilizzare il falso anche mediante insinuazioni, le quali portano la persona a valutare negativamente qualcun altro; allusioni, attraverso cui ci si riferisce a conoscenze del partner non esplicite; esagerazioni, le quali distorcono la realtà; infine, mezze verità, con cui si accenna solo ai fatti lasciando che il partner tragga delle conclusioni. (Mammoliti, 2012):

Oltre a travisare il linguaggio, sussistono altri elementi utilizzati che indicano quanto la comunicazione ed i suoi contenuti possano rivelarsi dannosi per la persona. Essi sono il sarcasmo, le umiliazioni, gli insulti, la derisione e il disprezzo. Quest’ultimo è una difesa contro sensazioni sgradite e nel nascondere la propria fragilità emotiva proiettando sull’altro il suo disagio dietro l’ironia o dietro una battuta. Per quanto riguarda la derisione, essa implica che il narcisista perverso abbia il diritto di prendersi gioco dell’altro, prosegue quindi la prevaricazione sulla sua presunta inferiorità (Hirigoyen, 2000). L’umiliazione, invece, viene attuata per sentirsi superiori e può essere messa in atto in molti modi, ad esempio con una puntualizzazione sgarbata sul modo di vestire o sulla corporeità, sulle proprie inadeguatezze o incapacità; un’occhiata derisoria; lo sminuimento di qualcosa di importante per il partner.

Anche il silenzio è utilizzato per spiazzare l’interlocutore e consiste nel non rispondere al partner se gli vengono poste domande. Esso viene affiancato anche dall’ascolto avverso che consiste nel guardarsi intorno, non girare o alzare la testa quando gli ci si presenta davanti o fare altro mentre si sta parlando con loro (Mammoliti, 2012). Questa forma di accoglienza mette a disagio il destinatario, che non vorrà più continuare a parlare. Il manipolatore, facendo così, vuole dare l’impressione che ciò che dice il partner non ha alcun interesse e che la sua persona non rappresenta niente di rilevante (Nazare-Aga, 2000).

Per sviare un argomento o sottrarsi da un conflitto Nazare-Aga (2008) riporta alcuni esempi: evita qualsiasi confronto; non si presenta all’appuntamento; rimanda escogitando scuse; arriva in ritardo perché vuol farsi aspettare; tende a scappare cambiando stanza o uscendo a fare un giro; tronca la conversazione; accusa l’altro di avere un atteggiamento che in realtà corrisponde ai suoi comportamenti e alle sue intenzioni (per esempio, accusa il partner di avere un amante mentre è lui a desiderare una rela­zione extraconiugale).

Inoltre, il manipolatore è bravo nel ribaltare le situazioni, infatti, ripudia in modo sicuro quello che poco prima aveva affermato. Spesso nega in modo spudorato di aver modificato la propria opinione così la vittima non farà che dubitare di sé fino ad andare in confusione (Ibidem).

Questo intontimento è solo l’inizio verso la colpevolizzazione, questa è un processo ricorrente che consiste nell’addossare una responsabilità ad un’altra persona sperando che provi il sentimento in questione. Da questo senso di colpa, infatti, vengono alla luce atteggiamenti vantaggiosi per chi l’ha provocato (Nazare-Aga, 2000). Il senso di colpa è la più importante leva emozionale capace di indurre arrendevolezza e sottomissione che determina in chi lo vive nervosismo e malessere molto profondi (Mammoliti, 2012).

Un’altra leva emozionale molto importante è la paura, in quanto determina incertezza, facendo così aprire un varco per possibili abusi psicologici da parte del narcisista perverso. La percezione di pericolo può essere reale o supposta: nel primo caso può rivelarsi un valido impulso a difendersi; nel secondo caso, la paura acquisisce una connotazione negativa, che può condurre all’immobilismo e al rischio di divenire succube di qualcuno (Ibidem).

La comunicazione aggressiva, propria dei manipolatori, è contraddistinta dalla presunzione di avere sempre ragione. Contraddirli è impossibile, difendono con sicurezza le proprie idee utilizzando modalità prepotenti e prevaricatrici anche quando ci sono argomenti a loro ignoti. Non contemplano affatto l’eventualità di un confronto e qualora siano costretti ad affrontarlo, lo fanno solo se possono guadagnare un vantaggio (Ibidem).

Un altro aspetto molto importante è l’uso del paradosso, ovvero instillare nella vittima il dubbio su aspetti della vita quotidiana e farla screditare da sola, facendole perde la percezione della realtà e della propria identità. Lo scopo è quello di attaccare il partner senza perderlo, perché il paradosso sta proprio nel respingere l’altro per far sì che quest’ultimo rimanga volontariamente a disposizione del manipolatore (Hirigoyen, 2000; 2006).

Ultimo elemento da prendere in considerazione nella comunicazione manipolatoria è la squalifica. Squalificare significa negare all’interlocutore qualsiasi qualità e ripetergli continuamente che non vale niente, fino ad indurlo a pensare che sia davvero così (Ibidem).

Il manipolatore perverso, mettendo in atto tutti questi strumenti, queste tattiche manipolative, fa crollare il partner in modo tale da instillare la dipendenza e dominare (Mammoliti, 2012).

Alcune strategie messe in atto dal manipolatore

Il manipolatore per assoggettare il partner si serve anche di molte strategie che ha imparato nell’arco della sua vita e che mette in atto in modo inconscio in quanto sono gli unici modelli relazionali che conosce ma, il narcisista perverso le applica anche in modo consapevole per avere un proprio tornaconto (Nazare-Aga, 2008). Il manipolatore perverso si avvale soprattutto di tre strategie psicologiche: il double-bind, il love bombing e il traumatic bonding.

Il concetto psicologico di double-bind (o doppia costrizione) è stato introdotto negli anni Cinquanta dall’antropologo, linguista e semiotico Gregory Bateson (1956) a partire da studi sull’origine della schizofrenia. L’autore ha riportato l’episodio di una madre che rivede, dopo tempo, il figlio ricoverato per disturbi mentali. Quest’ultimo, affettuosamente, prova ad abbracciarla, lei però si irrigidisce. Di rimando il ragazzo si ritrae e si sente dire dalla madre di non aver paura di mostrare i sentimenti. Sebbene a livello non verbale (il gesto di irrigidimento) quest’ultima esprima rifiuto per il gesto di affetto del figlio, a livello verbale la madre nega di essere la responsabile del distacco, alludendo al fatto che lui si sia ritratto a causa dei suoi stessi sentimenti. Il figlio colpevolizzato, si trova, così, confuso ed impossibilitato a rispondere (Bateson, 1956). Quindi, il double-bind sta ad indicare una condizione in cui la comunicazione di una persona verso l’altra mostra una contraddizione tra il livello verbale e il non verbale. Questa situazione genera in colui che riceve il messaggio l’incapacità di decidere quale dei due livelli accettare come valido, e di far notare esplicitamente l’incongruenza (Mammoliti, 2012). In pratica si tenta di confondere la vittima con i paradossi, dove lei non è più in grado di riconoscere quale sia l’informazione corretta e, qualunque cosa scelga avrà comunque torto in entrambi i casi (Power, 2020). Infatti, l’obiettivo rimane la destabilizzazione del partner che penserà di non aver compreso bene e si metterà in discussione cercando chiarimenti senza alcun risultato.

Love bombing significa bombardamento d’amore, ovvero si tratta di manifestazioni di affetto offerte con attenzione ed elevata intensità. Questa espressione è stata inventata dalla psicologa Margaret Singer (1995), la quale descrive i modelli di comportamento usati dalle sette religiose o da persone con lo scopo di plagiare, condizionare e manipolare. Risulta chiaro come, malgrado la parola “love” contenuta nell’espressione, con il vero amore c’entri ben poco. Questa è una strategia che viene utilizzata nelle prime fasi della manipolazione ed è anche una di quelle che ha gli effetti più duraturi, in quanto in un primo momento il manipolatore ricopre la vittima di lusinghe, attenzioni e affetto, la seduce facendola sentire unica, amata e venerata. Però il love bombing è una vera e propria strategia di adescamento che fa cadere nella propria trappola la vittima (Power, 2020). In un secondo tempo, una volta resa salda la relazione, il manipolatore getterà via la maschera e si rivelerà ingannatore. Il bombardamento d’amore è una strategia che fa leva sui bisogni e sui desideri altrui, ovvero sulla necessità inconscia che ogni individuo ha di essere amato incondizionatamente, di essere accettato e di sentirsi parte di qualcosa. Tutti possono incappare nella trappola del love bombing ma essa sembra essere ancora più efficiente su chi porta dentro ferite profonde (De Simone, 2020). Questa strategia viene attuata dal narcisista in varie fasi:

  • Mette la vittima su un piedistallo: per iniziare la fa sentire perfetta, intelligente e speciale;

  • Usa l’isolamento: il manipolatore isola il partner da parenti e amici, alcune volte questo è voluto, altre volte è solo un effetto collaterale in quanto il narcisista ha voglia di vivere una relazione sull’esclusività monodirezionale (“devo esserci solo io per te”) o corrisposta (“esisti solo tu per lui, deve esserci solo lui per te”);

  • Esercita il controllo: il manipolatore con il pretesto che agisce per il bene del partner, finirà per scegliere sempre ciò che è meglio per lui, finendo col gestirgli la vita;

  • Distorce la realtà: il perverso narcisista è bravo a distorcere la realtà e a “rigirare la frittata”, aspetto che farà sentire sempre più confuso il partner;

  • Pone in una situazione di instabilità: il bombardamento d’amore è abbinato con periodi di silenzio, il tutto per creare instabilità e desiderio nella vittima. Si parla, infatti, di “rafforzamento intermittente”, ovvero una fornitura periodica di amore incondizionato intervallato con briciole d’amore e distacco (Ibidem).

Un’altra strategia manipolativa è il traumatic bonding, ovvero dei legami o rapporti affettivi traumatici che non concernono l’amore e il rispetto reciproco, bensì ricatti emotivi e paure. Patrick Carnes (2019), celebre per i suoi lavori sul ruolo del sesso nei rapporti di dipendenza, nel suo libro The Betrayal Bond ha descritto il traumatic bonding come un attaccamento emotivo tra un partner maltrattato e il suo manipolatore, definendo il legame come l’esito di un ciclo di violenza emotiva. Il legame traumatico si attiva anche in seguito a rinforzi intermittenti di punizioni o di ricompense. Il rinforzo intermittente, come accennato precedentemente, è uno strumento pericoloso che il narcisista usa per infondere dipendenza e sudditanza al proprio partner (De Simone, 2019). Infatti, questa strategia rende la vittima “dipendente” dall’imprevedibilità della sequenza di abusi o anche dalla relazione tossica in generale. Questo significa che la vittima riceve dal manipolatore ricompense e lusinghe random intervallate da maltrattamenti, così che essa inizierà a lavorare con più sacrificio per ottenere la ricompensa sperata. Quando riotterrà le attenzioni e vedrà che per qualche tempo il perverso narcisista è tornato ad essere un individuo gentile, si consoliderà il legame traumatico che continuerà ad oltranza, come una vera dipendenza (Ibidem).

È proprio con queste tre strategie che il narcisista si assicura la sudditanza e la dipendenza del partner. Infatti, riconoscere le principali tecniche e modalità comunicative dei manipolatori è di fondamentale importanza per non cadere nella loro trappola.

Conseguenze della manipolazione nel dipendente affettivo

La relazione con un perverso narcisista porta a con­seguenze a breve o a lungo termine devastanti che non si circoscrivono al solo annullamento del partner ma si riper­cuotono su molti aspetti, come ad esempio nel deterioramento psico-fisico (Mammoliti, 2012).

Quando si vivono problematiche relazionali spesso il corpo riflette quello che la vittima prova e vive causando delle vere e proprie somatizzazioni di varia gravità. Alcune sintomatologie sono (Campbell, 2002): mancanza di appetito, disturbi del sonno ed alimentari, ulcere, emicranie, calo dell’energia, ecc. Inoltre, è dimostrata l’esistenza di una stretta correlazione tra sofferenza emotiva e malattia, in quanto lo stress derivante dalla perversione relazionale logora, poco alla volta, mente e corpo e quindi il benessere di chi lo subisce. Alcune malattie sono collegate a disturbi cardiaci e cardiocircolatori, patologie del sistema immunitario, sindromi degenerative e forme tumorali (Mammoliti, 2012).

L’ansia è un altro aspetto fondamentale in quanto la vittima è perennemente in stato di allerta, spia i gesti dell’altro, vive nel timore di sue reazioni eccessive (Hirigoyen, 2000). Tutto questo può portare alla pazzia, ad esaurimenti nervosi o depressioni molto gravi (Mammoliti, 2012).

Inoltre, si riscontrano nella vittima anche alcune conseguenze di tipo cognitivo come deficit dell’attenzione; disturbi del linguaggio; deficit della memoria; ipervigilanza, che impedisce di rilassarsi (Mammoliti, 2014). Altre conseguenze fondamentali sono legate ad alcuni indicatori comportamentali come: la mancanza di autocontrollo; la negazione della situazione di abuso anche di fronte a segnali di evidente violenza; comportamenti sociali non adeguati (assenze al lavoro, autolesionismo, ecc.); irascibilità; lunaticità; sessualità disturbata; dipendenze varie (Ibidem).

Infine, tra gli esiti a lungo termine della manipolazione vi è il Disturbo da Stress Post Traumatico Complesso (cPTSD) da trauma prolungato e la Sindrome da Manipolazione Relazionale (SDMR). Il primo, è stato proposto da Judit Herman (1992; 1997), per identificare il responso patologico che appare nei sopravvissuti a traumi complessi. Questi si identificano con eventi traumatici che si ripetono in modo prolungato nel tempo, propriamente di tipo interpersonale, a cui la vittima non può allontanarsi. Alcuni esempi di traumi complessi possono essere: episodi ripetuti di abusi, controllo, violenza domestica, esperienze di detenzione o prigionia fisica o emotiva, tortura, violenza psicologica, ecc. (Ibidem). Risultano essere diversi i criteri del cPTSD individuati dall’autrice, tuttavia i sintomi dissociativi rappresentano la caratteristica principale e hanno lo scopo di proteggere l’Io. Nondimeno, quando vi è un utilizzo eccessi­vo, essa può portare ad una distorsione del senso di sé fino alla perdita del contatto con la realtà e alla dipendenza patologica (Bromberg, 2007).

La Sindrome da Manipolazione Relazionale, invece, è stata individuata da Cinzia Mammoliti, che ha preso spunto dal lavoro del Professor Brunelli (2011) sul Trauma da Narcisismo. La SDMR è una condizione di disagio psicologico, relazionale e fisico che colpisce le vittime di manipolatori. Essa può mostrarsi sia in concomitanza del rapporto sia alla fine della relazione, la durata soggettiva determina una forte sofferenza emotiva collegata alla paura dell’abbandono che causa disturbi piscologici, fisici o psichiatrici anche irreversibili (Mammoliti, 2014). I sintomi che l’autrice evidenzia sono 42 e possono mostrarsi nella loro interezza o solo in parte, a momenti alterni o nello stesso periodo, in un momento di tempo varabile. Essi vanno a presentare nella vittima un quadro patologico che determina una massima sofferenza psicologica, correlata ad un senso di frustrazione e impotenza che deriva dalla dualità delle emozioni che si provano (Ibidem).

Possiamo considerare queste conseguenze come degli indicatori più comuni, tuttavia, ogni individuo vittimizzato mostra caratteristiche proprie e può manifestare la sofferenza in maniera differente. Bisogna essere bravi a riconoscerle per poter aiutare queste persone ad uscire dalla situazione di difficoltà (Ibidem).

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