La sindrome delle molestie assillanti, incidenza del fenomeno nelle professioni d’aiuto

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Il presente articolo tratta il fenomeno dello stalking e come esso si manifesta all’interno di una particolare categoria sociale e professionale, quella delle professioni d’aiuto. L’obiettivo è quello di analizzare il fenomeno dello stalking nelle sue caratteristiche e implicazioni, con particolare attenzione a come tale fenomeno si possa manifestare all’interno di contesti professionali caratterizzati da relazioni di cura, sostegno e aiuto.

Introduzione

L’aggressività e la violenza sono presenti sotto diverse forme nella nostra società, alcune più manifeste, altre più nascoste. Lo stalking è una delle molteplici espressioni con cui la violenza si è evoluta e manifestata. Nonostante i comportamenti tipici di questo fenomeno siano sempre esistiti, la tematica della molestia relazionale ha ricevuto un nome solo in tempi recenti, per cui lo stalking può essere considerato un fenomeno relativamente nuovo, che non rappresenta solamente un nuovo genere di reato, ma anche un interessante oggetto di studio per diversi settori, come la psichiatria, la sociologia e la psicologia clinica, sociale, giuridica e forense. Di pari passo con l’aumento di interesse nei riguardi di questa tematica, sono aumentate anche le ricerche scientifiche, le quali hanno messo in luce diversi dati molto interessanti. Tra questi vi è stato il riconoscimento delle professioni d’aiuto come una categoria a rischio di subire molestie assillanti. Di seguito verrà approfondita questa particolare forma di stalking attraverso i dati emersi sia da ricerche internazionali che da ricerche svolte in Italia, i quali permettono di parlare dei professionisti della cura (Health Care Professionals), come di una particolare categoria vittimologica a rischio.

Lo stalking e le sue caratteristiche

Il termine stalking deriva dal linguaggio tecnico della caccia, in particolare dal verbo inglese “to stalk”, che letteralmente significa “fare la posta, pedinare”. Nella lingua italiana non esiste un corrispettivo letterale di questo verbo applicabile al campo psicologico, così si è arrivati nel tempo alla locuzione “molestie assillanti” (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003). Questa espressione, a differenza del termine anglosassone che sottolinea solo il ruolo del molestatore, suggerisce maggiormente la prospettiva della vittima (Ibidem). Lo stalking è infatti un fenomeno che prende forma e acquista significato solo se viene preso in considerazione l’impatto e gli effetti che i comportamenti del persecutore hanno su chi si ritrova a esserne il destinatario.

Definire e classificare in modo univoco il fenomeno dello stalking non è semplice, sia a causa delle diverse discipline che se ne interessano, sia a causa della variabilità degli elementi in gioco (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003). Tuttavia, nonostante esistano delle divergenze circa l’esatta definizione di questo fenomeno, vi è un sostanziale consenso del definirlo come «un insieme di comportamenti ripetuti e intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali attenzioni e comportamenti non graditi» (Galeazzi, Curci, 2001, 434).

Esso comprende un vasto campionario di comportamenti, che vanno da quelli già noti come parte di condotte devianti più complesse, come ad esempio le molestie sessuali, ad azioni in passato tollerate o lievemente sanzionate, fino ad abituali condotte di corteggiamento che generalmente risulterebbero piacevoli e gratificanti per il destinatario (invio di fiori, regali, lettere e telefonate) (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003). Queste condotte prendono la forma di ricerca estrema di una relazione interpersonale e acquistano un carattere sgradito e molesto se ripetute e in assenza di un consenso, tacito o esplicito, del destinatario, andando a provocare nella vittima un senso di fastidio, di intrusione, di controllo e di paura (Acquadro Maran et al., 2010).

A questo punto risulta evidente che sarebbe riduttivo, se non errato, considerare lo stalking come un comportamento deviante del singolo individuo, esso è piuttosto un problema intersoggettivo complesso (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003), che si articola su una triade di elementi necessari:

  1. – un attore (stalker) che agisce nei confronti di un’altra persona, motivato da un investimento ideo-affettivo, basato su una situazione relazionale reale oppure parzialmente o totalmente immaginata (Monaco, 2009);

  2. – una serie ripetuta di gesti intrusivi mirati alla ricerca di contatto e/o comunicazione, connotati da ripetizione, insistenza e intrusività (Ibidem), come lettere, e-mail, telefonate, appostamenti e minacce;

  3. – una vittima (stalking victim) che percepisce come spiacevoli e lesivi i comportamenti dell’attore, ai quali risponde spesso con una serie di condotte difensive (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003). La pressione psicologica causata dalla reiterazione e dall’intrusività comportamentale dello stalker pone la vittima in uno stato di allerta e di stress psicologico (Monaco, 2009), che può portare a conseguenze patologiche come aumento dell’ansia, comparsa di depressione e incremento nel consumo di alcol (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003).

Questi tre elementi si riscontrano in tutte le molteplici definizioni del fenomeno delle molestie assillanti, anche se, a seconda degli orientamenti impiegati, le diverse prospettive di studio hanno sottolineato più alcuni aspetti rispetto ad altri.

Si possono aggiungere, inoltre, una serie di comportamenti associati, che solitamente sono un segnale di sviluppo e di intensificazione nella campagna di molestie, come il passaggio dalle minacce esplicite agli atti di violenza su cose e persone (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003).

Un elemento che è importante sottolineare è che lo stalking non è necessariamente l’espressione di un quadro psicopatologico, anzi, la presenza di un disturbo psichiatrico riguarda solo una piccola percentuale di coloro che mettono in atto condotte di stalking (Galeazzi, Curci, 2001). A conferma di ciò, Curci, Galeazzi, Secchi (2003) affermano che la sindrome delle molestie assillanti non rappresenta tanto una categoria diagnostica, quanto più una sorta di contenitore che assembla situazioni anche molto diverse tra loro, configurandosi come un insieme di dimensioni psicologiche e psicopatologiche organizzate su più assi: rapporti preesistenti, tipo di molestie, frequenza, caratteristiche di personalità del molestatore, ruolo e reazione della vittima. Il costrutto della sindrome delle molestie assillanti è una sorta di organizzatore di senso che consente di strutturare e sistematizzare il patrimonio di conoscenze a disposizione su questo fenomeno, a fronte della sua complessità e multidisciplinarità (Ibidem). Questo è dimostrato anche dal fatto che l’interesse nei confronti dello stalking è passato dall’esclusività del campo puramente psichiatrico, alla diffusione ad altri ambiti e discipline, sottolineando la necessità di confronti interdisciplinari utili allo studio del disturbo, alla sua prevenzione e alla definizione di strategie di intervento dedicate al molestatore e alla vittima (Ibidem).

Lo stalker

Lo stalker è l’attore che, sulla base di alcune motivazioni, sviluppa e mette in atto, nei confronti di un soggetto, una costellazione di idee, pensieri, fantasie e affetti che, per la loro estremizzazione, raramente sono in sintonia con le reali situazioni di relazione nei confronti della vittima. Lo stalker è perciò colui che attua una serie di comportamenti intrusivi e ripetitivi nei confronti di una vittima, la quale può essere occasionale o scelta in modo preciso (Berti et al., 2005). Il persecutore potrebbe essere un ex-partner, un amico, un conoscente, un cliente, un vicino di casa o addirittura un completo estraneo (Strocchi e Jodice, 2013), così come la motivazione potrebbe essere quella di recuperare il rapporto con il proprio compagno, di cominciare una nuova relazione d’amore, di vendicarsi per un torto subito e così via (Mascia, Oddi, 2005).

Ad oggi non è ancora emerso un indirizzo ampiamente accettato per classificare gli stalker e sono state proposte nel tempo diverse tipologie di molestatori assillanti, frutto di scelte teoriche, esperienze scientifiche e necessità pratiche. Tali classificazioni sono conseguenza dell’eterogeneità che caratterizza la popolazione degli stalker e delle necessità di coloro che le hanno proposte (avvocati, forze dell’ordine, professionisti della salute mentale) (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003).

In generale è possibile affermare che le diverse tipologie proposte in letteratura fanno riferimento a una o più delle seguenti dimensioni: relazione originaria tra stalker e vittima, motivazione dello stalker e disturbo psicologico sottostante (Cupach, Spitzberg, 2011).

Una delle classificazioni più utilizzate in ambito internazionale è quella proposta da Mullen et al. (1999, 2000), la quale è stata utilizzata per classificare casi forensi e di counseling per un team australiano di psicologi specializzati in casi di stalking. Gli Autori hanno identificato cinque tipi di stalker utilizzando la combinazione di tre assi: il primo si basa sulle motivazioni predominanti dello stalker e sulle strategie messe in atto; il secondo ha come principio ordinatore la relazione preesistente tra gli attori dello stalking (partner o ex-partner, amico, conoscente, collega di lavoro, personaggio famoso, sconosciuto); infine, il terzo riguarda la presenza di una psicopatologia conclamata o sottosoglia (disturbi psicotici, psicosi affettive, psicosi organiche, disturbi d’ansia, disturbi dell’umore e disturbi di personalità) (Berti et al., 2005). Vediamo una per una le cinque tipologie di stalker:

  • il “rifiutato” è mosso da motivazioni ambivalenti di rabbia e riconciliazione, derivate dalla rottura di una relazione vera o fantasticata con la vittima. Egli reagisce con azioni volte a impedire l’allontanamento o alla ricerca di una riconciliazione;

  • il “cercatore di intimità” è motivato dalla solitudine e dalla ricerca di una relazione stretta, con una persona totalmente sconosciuta o con un semplice conoscente. Il suo comportamento è rinforzato dalla gratificazione creata da un’immaginaria vicinanza con la vittima;

  • il “rancoroso” è spinto dalla convinzione di aver subito dei torti (veri o presunti) da parte della vittima, nei confronti della quale mette in atto azioni volte alla difesa o alla ricerca di una vendetta o di una rivendicazione delle proprie ragioni;

  • il “predatore” è mosso dal desiderio di appagamento sessuale e di controllo sulla vita della vittima. In questa tipologia l’elemento voyeuristico si intreccia con lo stimolo all’immaginazione e con il soddisfacimento sadico, provocando paura e umiliazione alla vittima e ponendo l’autore in una posizione di superiorità;

  • l’“incompetente” desidera corteggiare un possibile partner, ma a causa della sua scarsa o inesistente competenza relazionale, adotta metodi che si rivelano controproducenti o che addirittura provocano paura nel proprio oggetto del desiderio. Questo tipo di stalking porta scarse soddisfazioni, per cui è generalmente poco resistente nel tempo.

Queste cinque tipologie, coniugate con il tipo di relazione preesistente e con la diagnosi psichiatrica, consentono di formulare previsioni in merito alla natura dei comportamenti di molestie, alla durata dello stalking, al rischio di minacce e violenze, e, in qualche misura, alla risposta e alla strategia di gestione (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003). Galeazzi e Curci (2001) affermano che questo sforzo di classificazione è tra i più sofisticati e ha il merito di cercare di correlare diversi aspetti dei fenomeni di stalking in un’unica tipizzazione.

La vittima

Nell’analisi e nella comprensione del fenomeno dello stalking non è possibile prescindere da un’analisi vittimologica, in quanto é la vittima, attraverso la sua percezione soggettiva, a definire come stalking la condotta posta in essere da un altro soggetto, per cui il ruolo e le caratteristiche della vittima, insieme al contesto di relazione, sono elementi determinanti nello studio delle condotte di stalking (Martucci, Corsa, 2009). L’attenzione che si dedica alla vittima di stalking è rilevante tanto quanto quella che si rivolge allo stalker, esse infatti sono due variabili necessarie affinché si possa parlare di stalking.

Chiunque può essere vittima di molestie assillanti, non ci sono limiti di sesso, età, personalità, condizione sociale o professione per subire molestie e il fenomeno riguarda più frequentemente gente comune che personaggi famosi dello spettacolo (Mascia, Oddi, 2005).

Oltre alle classificazioni delle vittime di stalking basate soprattutto sulla relazione vittima-carnefice, esiste una tipizzazione più recente che considera, in aggiunta alla relazione tra molestatore e vittima, il tipo di stalker e il contesto in cui si verificano le molestie (Mullen, Pathè e Purcell, 2000). In questo senso le vittime di stalking vengono così ripartite:

  • Vittime primarie (dirette), cioè il bersaglio principale del molestatore. All’interno di questa categoria troviamo gli “ex intimi”, ovvero soggetti che avevano intrattenuto una relazione affettiva con lo stalker, come familiari o ex-partner. Queste vittime sono per lo più di sesso femminile e sono spesso sottoposte a campagne di molestie insistenti e durature. Vi sono poi “amici e conoscenze occasionali”, cioè vittime, per lo più di sesso maschile, che vedono iniziare le molestie dopo un incontro sociale casuale o in seguito al fallimento di un’amicizia. È per esempio il caso di un innamorato che mira a iniziare una relazione. I “contatti professionali” riguardano quelle vittime che svolgono professioni considerate a rischio di subire molestie, come medici, avvocati, insegnanti e psicologi, i quali lavorano quotidianamente con persone emotivamente fragili che possono facilmente fraintendere l’offerta di aiuto come interesse sentimentale. Essi sono a rischio di subire stalking soprattutto da parte di molestatori in cerca di intimità o di corteggiatori inadeguati. Con l’espressione “altri contatti lavorativi” gli Autori fanno invece riferimento a quelle persone che subiscono molestie dal datore di lavoro, dai colleghi e/o dai clienti, i quali solitamene appartengono al tipo dei corteggiatori inadeguati, in cerca di intimità o rancorosi. Infine troviamo gli “sconosciuti” e le “personalità pubbliche”. Queste ultime sono vittime che appartengono al mondo dello spettacolo, dello sport o della politica e che attirano l’attenzione morbosa del molestatore (solitamente di tipo rancoroso, in cerca di intimità o corteggiatore inadeguato). Gli “sconosciuti” sono, invece, individui che non sono a conoscenza di alcun contatto con il molestatore prima dell’inizio degli atti persecutori, i molestatori di queste vittime sono solitamente cercatori di intimità o predatori che stanno organizzando un’aggressione sessuale (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003).

  • Vittime secondarie (indirette), ovvero vicine alla vittima primaria (familiari, amici, colleghi), che per questo motivo diventano, a loro volta, oggetto di molestie da parte dello stalker. Ad esempio i molestatori in cerca di una relazione intima possono aggredire coloro che credono siano un ostacolo al loro intento. In questa categoria possono rientrare anche gli animali domestici (Ibidem).

  • Asserzioni pretestuose di essere molestati. In questa categoria rientrano quei soggetti che affermano di essere vittime di molestie senza una base reale per farlo. Mullen et al. (1999) hanno individuano cinque tipologie di falsa vittimizzazione: l’“inversione di ruolo”, cioè una strategia messa in atto dallo stalker per accusare la vittima di molestie a proprio danno o per vendetta o nel tentativo di mantenere un contatto attraverso il sistema giudiziario; i “deliri di persecuzione”, tipici di quei soggetti convinti di essere sorvegliati e molestati in maniera assillante anche se non vi sono fatti reali a sostegno della convinzione (come può accadere nei disturbi deliranti); le “vittimizzazioni passate”, cioè persone che sono state vittime e che, a causa di intensi livelli di ansia, ipervigilanza e senso di sfiducia, tendono a fraintendere le intenzioni di coloro con cui vengono a contatto; i “disturbi fittizi”, propri di coloro che simulano consapevolmente il ruolo della vittima per ottenere attenzioni e soddisfare i bisogni psichici; infine i “simulatori” sono coloro che intenzionalmente dicono il falso o esagerano comportamenti sgraditi di cui sono stati effettivamente protagonisti in modo da ottenere dei benefici (come ad esempio risarcimenti di natura economica) (Acquadro Maran, Varetto, 2011).

Alla luce di questa analisi vittimologica risulta ancora più evidente che pressoché chiunque può essere vittima delle molestie assillanti, le quali provocano quasi sempre notevoli danni sociali e psicologici a chi le subisce. L’impatto delle molestie sulla vittima in parte è implicito nella definizione stessa della sindrome delle molestie assillanti. Per definizione, infatti, nei casi di stalking le comunicazioni e la ricerca di contatto del molestatore risultano non solo sgradite e inopportune alla vittima, ma anche fonte di preoccupazione e paura per la propria sicurezza personale e/o di persone care, fino a un vero senso di terrore. È dunque il vissuto soggettivo della vittima che concorre a definire la serie di comportamenti come molestie assillanti (Galeazzi, Curci, 2001).

Le condotte moleste possono determinare una pluralità di effetti sulla vittima, di natura psicologica, fisica, sociale ed economica. Tra gli effetti di natura psicologica ed emozionale si riscontrano sintomi intensi quali ansia, paura, rabbia, irritazione, confusione, paranoia, vergogna, sensi di colpa, reazioni depressive e sentimenti d’impotenza, fino ad arrivare alla presenza di un vero e proprio disturbo da stress post-traumatico e, talvolta, alla comparsa di ideazioni suicidarie (Acquadro Maran, Varetto, 2011). Questo accade in quanto le ripetute intrusioni dello stalker inducono nelle vittime un senso di perdita di controllo e mettono a repentaglio la loro fiducia di vivere in un ambiente sicuro e ragionevolmente prevedibile, arrivando a volte a vivere in uno stato di persistente minaccia o assedio. Ogni volta che squilla il telefono, che viene controllata la propria casella di posta elettronica o ogni volta che la vittima ritorna a casa, c’è la possibilità di essere colpiti, «il mondo, gli spazi pubblici e quelli privati appaiono diversi in questo stato e divengono luoghi pieni di potenziali minacce» (Solfanelli, 2009, 3). Inoltre, l’ipersensibilità, la sfiducia e il timore che può suscitare lo stalking, possono mettere a dura prova le relazioni interpersonali e la rete di sostegno della vittima (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003).

Per quanto riguarda il disturbo da stress post-traumatico, in uno studio australiano di Pathé e Mullen (1997), un terzo delle vittime di stalking intervistate ha soddisfatto una diagnosi di tale disturbo, la cui manifestazione clinica può comprendere ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell’evento, l’agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (incluse le sensazioni di rivivere l’esperienza, allucinazioni ed episodi dissociativi di flashback), sintomi di aumento dell’arousal ed evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma (American Psychiatric Association, 2013).

Lo stalking può provocare nella vittima ulteriori svariati sintomi, come disturbi del sonno e dell’alimentazione, attacchi di panico e abuso di sostanze psicotrope. Non va inoltre sottovalutato l’impatto che lo stalking ha spesso sullo stile di vita della vittima. Nel tentativo di porre fine alla persecuzione, ella può arrivare a modificare le sue abitudini e stili di vita, come ridurre l’orario di lavoro, rinunciare alle attività sociali, cambiare luogo di lavoro e/o residenza (Acquadro Maran, Varetto, 2011).

Le ripetute molestie possono quindi essere pericolose e dannose per la vittima, dal punto di vista fisico, sociale, economico e psicologico, e possono colpire i vari contesti che contornano la vita di ogni individuo, come quello familiare e lavorativo.

Lo stalking nelle professioni d’aiuto

Come affermato in precedenza, l’obiettivo del presente articolo è quello di analizzare il fenomeno delle molestie assillanti nel modo di manifestarsi all’interno di una categoria professionale considerata a rischio, quella degli Health Care Professionals, cioè quelle professioni d’aiuto in cui la relazione con il cliente diventa elemento centrale del processo di cambiamento e di cura. Per comprendere meglio le motivazioni e le cause alla base di questo fenomeno, di seguito verrà descritta la relazione d’aiuto e gli elementi che la caratterizzano, successivamente verranno illustrate alcune ricerche svolte sia in ambito nazionale che internazionale, al fine di indagare l’incidenza del fenomeno tra i professionisti della cura.

La relazione d’aiuto e le sue caratteristiche

Sotto l’etichetta di professioni d’aiuto si raccolgono tutte quelle competenze professionali che hanno lo scopo di sostenere le persone in un momento di difficoltà psicologica, la quale può essere causata da concreti problemi personali, da problemi esistenziali, psicologici o psichiatrici. Tali professioni permettono un approfondimento conoscitivo e sono catalizzatrici di un momento di crescita (Brancaleone, Buffardi, Traversa, 2008).  

Una relazione di aiuto si ha quando vi è un incontro tra due persone, una delle quali si trova in una condizione di sofferenza, stress, conflitto, confusione o problematicità rispetto a una determinata situazione, mentre l’altra è dotata di un grado di adattamento, competenza e abilità superiore rispetto alla situazione o al tipo di problema. L’incontro tra queste due persone dovrà favorire un contatto (cioè una relazione) che agevoli il cliente a compiere movimenti di chiarificazione, maturazione e apprendimento, che lo porteranno a rispondere in modo più soddisfacente al proprio ambiente e alle proprie esigenze interne ed esterne (Mucchielli, 1983).

Questa modalità di relazione è trasversale a molte professioni, è presente in quelle implicate direttamente nella relazione di aiuto, cioè le professioni dell’aiuto nell’ambito psicologico e clinico (psicologi, psicoterapeuti, counselor, psichiatri ecc.), ma anche in altre professioni che implicano competenze relazionali e comunicative, pur non avendo come obiettivo primario la relazione d’aiuto, bensì altre funzioni professionali (medico, infermiere, soccorritore, insegnante, avvocato, forze dell’ordine). Di Fabio (2003), a questo proposito, opera una distinzione tra:

  • competenze cliniche e interventi dell’aiuto in ambito clinico;

  • professioni dell’aiuto (counselor e psicologi);

  • professioni il cui intervento implica aiuto, cioè un aiuto prestato all’interno di altre professionalità non psicologiche.

Transfert e controtransfert nella relazione d’aiuto

Nella relazione d’aiuto, oltre ai sentimenti empatici, professionista e utente possono sperimentare un altro tipo di emozioni, generate da un fenomeno che prende il nome di transfert.

Il transfert (detto anche traslazione) è un concetto tipicamente psicoanalitico, che riguarda il rapporto tra medico e paziente. La scoperta di questo fenomeno avvenne grazie a una serie di intuizioni di Sigmund Freud. Egli definì tale fenomeno in questo modo: «per traslazione s’intende la sorprendente peculiarità dei nevrotici a sviluppare nei confronti del loro medico rapporti emotivi ora affettuosi ora ostili; questi rapporti non sono fondati sulla situazione reale e derivano invece dal rapporto dei pazienti con i loro genitori (complesso edipico) […] solo imparando ad impiegare la traslazione il medico potrà indurre il malato a superare le proprie resistenze interne e a eliminare le proprie rimozioni» (Freud cit. in Roveda, 1979, 22-23).

Il transfert è quindi un fenomeno per lo più inconscio che si caratterizza per il “trasferimento” degli affetti o fantasie iscritti nei rapporti originari del paziente sulla figura del terapeuta. I vissuti passati non vengono semplicemente ripetuti nel presente, ma vengono trascritti in una nuova cornice relazionale, attraverso un processo di riadattamento continuo che permette di consolidare il vissuto personale alla luce delle nuove esperienze (Gennaro, Bucolo, 2007). Il transfert può essere definito in base alla qualità dei sentimenti che lo caratterizzano: è positivo se costituito da sentimenti di stima, affetto, amore, attrazione, simpatia per il partner della relazione, mentre è negativo quando le emozioni in gioco sono per lo più di rabbia, ostilità, paura, invidia, disprezzo, rancore (Roveda, 1979).

La relazione d’aiuto è una relazione umana in cui il dialogo si basa su risposte e reazioni emotive che si comunicano reciprocamente, per cui entrambi i soggetti coinvolti concorrono a creare il campo emotivo della relazione. È per questo coinvolgimento che non solo in ambito psicoterapeutico, ma in generale nelle professioni d’aiuto, l’operatore può ritrovarsi a essere oggetto del transfert del paziente (Ibidem). Essendo la relazione terapeutica, e d’aiuto in generale, caratterizzata dalla reciprocità, cioè dalla mutua influenza delle parti coinvolte, in essa può verificarsi anche un altro fenomeno: il controtransfert. Esso può essere considerato una risposta del professionista al movimento emotivo del paziente, cioè l’emergere di sentimenti inconsci in conseguenza al transfert di quest’ultimo (Gennaro, Bucolo, 2007). Anche il controtransfert è un prezioso strumento di lavoro, in quanto consente al terapeuta di comprendere le proprie risposte emozionali al transfert del paziente, di acquisire maggiore consapevolezza circa quello che sta accadendo nel paziente e nella relazione. In questo senso il controtransfert diventa un importante strumento di monitoraggio del transfert del paziente (Settineri et al., 2014).

Nella relazione d’aiuto il professionista può rendersi consapevole dei sentimenti che in essa vengono attivati e trovarsi in uno stato di autentica accettazione dei vissuti del paziente e allo stesso tempo di onesto riconoscimento dei propri sentimenti verso di lui. Grazie a tale atteggiamento cosciente e responsabile può accompagnare il paziente in un percorso di consapevolezza e accettazione (Ibidem).

Tutto questo può riguardare diversi contesti di cura caratterizzati da una relazione d’aiuto. La consapevolezza o l’inconsapevolezza delle dinamiche transferali e controtransferali in gioco può fare la differenza circa l’instaurarsi di stress emozionale e/o professionale e la creazione di una relazione funzionale (Ibidem). L’ignorare, il reprimere o il non comprendere a fondo questi aspetti, possono essere fattori di rischio per l’instaurarsi di atteggiamenti persecutori da parte del paziente e possono rendere il professionista meno sensibile nel cogliere i segnali che manifestano tale cambiamento.

Health Care Professionals: una categoria a rischio

Appare evidente che un elemento imprescindibile del lavoro quotidiano delle professioni d’aiuto è quello del prendersi cura dell’altro, il quale vive una condizione di sofferenza o malattia. Può accadere che il confine della cura e dell’aiuto sfumi fino a confondersi con il fenomeno dello stalking. Secondo la letteratura i professionisti della salute rappresentano, infatti, una categoria a rischio proprio a causa della professione che svolgono (Zedda, Ambrosi, 2012). Le motivazioni alla base di questa vulnerabilità possono essere ricercate nella natura stessa della relazione d’aiuto e nei suoi aspetti peculiari precedentemente descritti. Elementi come l’empatia, l’accettazione incondizionata e il transfert, possono infatti essere male interpretati «come possibilità e apertura ad una maggiore intimità, ad un contatto più personale, ad un interesse romantico e affettivo che trascende ed equivoca quello meramente professionale» (Gagliardi et al., 2013, 448). In particolare, il transfert può essere pericoloso, in quanto può diventare facilmente negativo e portare alla possibilità di acting out (cioè ripetere anche nella vita reale le situazioni transferenziali in corso nella terapia) sconsiderati, come atti aggressivi, affettivi o sessuali, producendo così situazioni spiacevoli sia per il terapeuta che per il paziente (Roveda, 1979).

Nelle professioni d’aiuto la natura della relazione è molto intensa, questo anche dovuto al fatto che i professionisti entrano in contatto con i bisogni profondi di aiuto delle persone e per questo possono divenire oggetto di proiezioni, affetti, fantasie e relazioni interiorizzare a diverso contenuto da parte del paziente. In questo modo può accadere che avvenga un fraintendimento nella ricezione delle attenzioni da parte del cliente o che la riconoscenza si trasformi progressivamente nel desiderio di un legame affettivo del quale non si può fare a meno, portando così alla messa in atto di molestie e atti persecutori. In questo senso, Pathè, Mullen e Purcell (2002) parlano del possibile sviluppo nei pazienti di attaccamenti romantici o infantili che li porterebbero a nutrire speranze circa l’instaurarsi di una relazione. Queste speranze possono sorgere sulla base di convinzioni deliranti, di aspettative fuori luogo derivate dalla solitudine e dalla disperazione, o semplicemente possono essere causate da aspettative non realistiche che vedono il terapeuta come un potenziale corteggiatore. Oppure il paziente/stalker potrebbe essere motivato dal rancore e dalla vendetta ed agire sulla base di una delusione circa l’esito della relazione d’aiuto o circa un torto che egli crede di aver subito.

I professionisti della salute mentale, in particolare, entrano spesso in contatto con individui che hanno difficoltà emotive e/o mentali, oltre a bisogni di aiuto, di affetto e di relazione che si configurano come pattern disfunzionali (Gagliardi et al., 2013). È il caso dei pazienti psichiatrici, i quali presentano alcuni elementi che possono essere un fattore di rischio per l’emergere di atteggiamenti persecutori, come ad esempio la carenza di relazioni sociali, la solitudine, l’isolamento, disturbi dell’attaccamento e una difficoltà nello stabilire relazioni e contatti in modo adeguato. Questo pattern di comportamento può degenerare in minacce verbali e, solitamente dopo il confronto con lo stalker circa i suoi comportamenti, in aggressioni fisiche. Poiché la sindrome delle molestie assillanti può avere alla base una psicopatologia, questi eventi possono costituire una vera emergenza psichiatrica (Galeazzi, Elkins, Curci, 2005).

Un altro aspetto da non sottovalutare è quello che i clinici possono sviluppare nel tempo un’elevata tolleranza al comportamento antisociale o minaccioso dei pazienti, a causa del fatto che nel corso della loro carriera si sono confrontati frequentemente con comportamenti inadeguati. Questo li porta spesso a minimizzare le molestie e a pensare che possano essere gestite e risolte all’interno della relazione terapeutica (McIvor, Petch, 2006). Tale percezione può essere rafforzata da sentimenti di colpa o di inadeguatezza riguardanti la pratica clinica o dalla preoccupazione per ciò che i colleghi potrebbero pensare. Purtroppo, i collaboratori o i supervisori possono rafforzare tali percezioni, in modo sia implicito che esplicito. Un ulteriore risvolto negativo di tale fenomeno è che può accadere che i professionisti della salute vittime di stalking non denuncino l’accaduto sia a causa della malattia mentale del paziente, che a causa del fatto che utilizzano la dinamica relazionale instaurata con il paziente per attribuire significato e senso al comportamento inadeguato di quest’ultimo (Ibidem).

L’incidenza del fenomeno tra i professionisti della cura

Dai risultati delle ricerche in materia di stalking emerge che i medici e i professionisti della salute in genere, sono a rischio di subire molestie durante l’esercizio della loro professione, in particolar modo da parte dei loro pazienti. Dagli studi analizzati da Gagliardi et al. (2013), emerge un rischio di stalking tra i professionisti della salute compreso tra il 3% e il 24%. Questi dati hanno reso lo stalking degli Health Care Professionals un tema importante e sempre più discusso.

La vulnerabilità di questa particolare categoria vittimologica emerge sia da ricerche svolte in ambito internazionale (Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia), sia da ricerche svolte in Italia allo scopo di identificare le caratteristiche degli stalker e delle vittime, l’evoluzione delle campagne persecutorie, le principali strategie di fronteggiamento messe in atto e le conseguenze sia sul singolo individuo che sul contesto lavorativo.

Le ricerche internazionali

Lo stalking che vede come vittime determinate categorie professionali non sembra rilevare la stessa attenzione e interesse politico, mediatico e scientifico indirizzato invece alle molestie che hanno come protagonisti partner o ex-partner, oppure personaggi pubblici e famosi (De Fazio, Sgarbi, 2012). Nonostante questo, negli ultimi anni il rischio di molestie sul luogo di lavoro, in particolare nell’ambito delle professioni d’aiuto, è stato indagato da alcune ricerche internazionali che verranno di seguito presentate, con la precisazione che i tassi di incidenza e di prevalenza di questa specifica popolazione restano ancora difficili da definire, a causa delle differenze internazionali nella definizione del fenomeno e nello status giuridico (McIvor, Petch, 2006).

Miller (cit. in Curci, Galeazzi, Secchi, 2003), in uno studio che ha coinvolto 480 psichiatri forensi, ha rilevato che il 42% era stato vittima di molestie da parte dei loro periziati.

Romans, Hays e White (1996) hanno indagato, attraverso un questionario, l’incidenza di stalking e molestie vissute da alcuni counselor statunitensi. Dalle risposte di 178 professionisti è emerso che il 5,6% aveva subito stalking da parte di un cliente attuale o trattato in precedenza. L’indagine ha inoltre rilevato che il 64% del campione aveva sperimentato un certo tipo di comportamento molesto da parte di un cliente ancora in trattamento o trattato in passato.

Lion e Herschler (cit. in Curci, Galeazzi, Secchi, 2003) hanno descritto nove casi clinici di operatori sanitari che hanno subito molestie da parte di pazienti, dei quali otto erano operatori psichiatrici, mentre il nono caso riguardava un chirurgo estetico molestato e successivamente assassinato da una cliente scontenta per un intervento di lifting facciale. Quattro dei molestatori presentavano un disturbo di personalità borderline, uno aveva una diagnosi di abuso di sostanze con tratti antisociali e paranoidi, mentre uno soffriva di disturbo schizofrenico.

Sandberg, McNiel e Binder (1998) hanno confrontato le caratteristiche demografiche e cliniche di 17 pazienti psichiatrici che si sono impegnati in comportamenti di stalking nei confronti del personale ospedaliero dopo essere stati dimessi, con quelle di un gruppo di controllo costituito da 326 pazienti. Gli Autori ritengono che il loro è stato il primo studio a confrontare in modo sistematico le caratteristiche dei pazienti psichiatrici che molestano il personale ospedaliero con le caratteristiche di altri pazienti che sono stati trattati nello stesso ambiente. I risultati mostrano che gli autori delle molestie assillanti avevano una probabilità significativamente maggiore, rispetto ai pazienti del gruppo di controllo, di avere una diagnosi di disturbo di personalità e/o di disturbo paranoide sottotipo erotomanico, e di avere una storia di comportamenti aggressivi. I dati suggeriscono, inoltre, che essi erano per lo più di sesso maschile, mai stati sposati, con una storia di più ricoveri, comportamenti suicidari o autolesionistici, e abuso o dipendenza da sostanze. I risultati rivelano quindi diversi fattori di rischio che possono essere utili per identificare un sottogruppo di pazienti che presenta il rischio di manifestare comportamenti aggressivi e persecutori nei confronti del personale ospedaliero, dopo essere stati dimessi.

Gli stessi Autori (Sandberg, McNiel, Binder, 2002) hanno successivamente intervistato il personale ospedaliero di un’unità di degenza psichiatrica per determinare la frequenza con la quale tali professionisti erano stati oggetto di stalking, minacce o comportamenti molesti da parte dei pazienti, quali strategie avevano utilizzato per fronteggiarli e la valutazione di queste ultime in termini di efficacia percepita. Dei 62 membri del personale che hanno risposto al sondaggio, trentatre (il 53%) avevano sperimentato qualche tipo di comportamento persecutorio durante la loro carriera. Diciassette di questi professionisti accettarono di essere intervistati circa le loro esperienze con i pazienti autori dello stalking. Risultò che la maggior parte dei pazienti erano uomini con meno di 40 anni, con una varietà di disturbi psichiatrici, come disturbi di personalità e abuso di sostanze. Come motivazione percepita le vittime hanno riportato soprattutto rabbia in risposta a qualche forma di presunto maltrattamento e credenze deliranti. I professionisti hanno reagito alle molestie in diversi modi. La risposta più comune è stata quella di informare altre persone, come colleghi, team leader e supervisori. Altre risposte frequenti hanno incluso l’affrontare il paziente circa il suo comportamento, l’evitare o scoraggiare il contatto con il paziente, discutere la situazione in una riunione formale del personale e informare la receptionist. Con meno frequenza è stata informata la polizia o la sicurezza dell’ospedale. Anche i pareri circa l’efficacia delle strategie di fronteggiamento sono stati variegati, quello che però in generale è risultato utile è stata la consapevolezza di avere a disposizione una varietà di strategie. Ciò consente flessibilità nella risposta, in modo che se un intervento si rivela infruttuoso, ve ne sono altri che possono essere messi in atto (Ibidem).

Gentile et al. (2002) hanno rilevato in un campione di 294 psicologi statunitensi un tasso di vittimizzazione pari al 10% e hanno affermato che ciò che emerge dal loro studio è che non vi è alcun profilo specifico per gli psicologi che erano stati oggetto di molestie assillanti, che tali professionisti hanno successivamente impiegato molte più misure di sicurezza rispetto a coloro che non hanno subito alcuna molestia e che i clienti autori dello stalking erano solitamente single, con una maggiore probabilità di avere avuto una diagnosi di disturbo dell’umore e/o di personalità, relazioni disturbate nell’infanzia e/o recenti importanti fattori di stress.

Da uno studio di Hudson-Allez (cit. in De Fazio, Sgarbi, 2012) condotto in Gran Bretagna, emerge che in un campione di 411 psicologi e psicoterapeuti la percentuale di vittime di stalking ammonta al 24%.

In un campione australiano di 830 psicologi, Purcell, Powell e Mullen (2005) hanno rilevato che quasi il 19,5% aveva subito stalking per due o più settimane. Le vittime hanno percepito che lo stalking fosse motivato dal risentimento (42%) o dall’infatuazione (19%). Come conseguenza delle molestie subite, la maggior parte dei professionisti ha modificato alcuni aspetti della propria pratica professionale e altri hanno preso in considerazione di lasciare la professione.

Come nella ricerca di Purcell, Powell e Mullen (2005), anche nello studio di McEwan, Mullen e Purcell (cit. in Acquadro Maran, 2012) emerge che le tipologie di stalker più comuni riscontrate in coloro che molestano gli Health Care Professionals sono l’“incompetente” e il “rancoroso”.

Infine, Maclean et al. (2013) hanno contattato tutti gli psichiatri con sede nel Regno Unito affiliati con il Royal College of Psychiatrists, invitandoli a partecipare, attraverso la compilazione di un questionario, a uno studio sul fenomeno dello stalking. Dei 2.585 psichiatri che hanno risposto al sondaggio, quasi l’11% ha descritto di aver subito stalking, in accordo con una definizione rigorosa del fenomeno utilizzata nella ricerca, e il 21% ha percepito se stesso come vittima di stalking.

Questi sono alcuni degli studi e ricerche condotti in diversi Paesi del mondo che mettono in luce come lo stalking sia un fenomeno sociale che colpisce in modo particolare gli operatori sanitari, soprattutto coloro che lavorano nell’ambito della salute mentale. Anche se l’entità del problema deve ancora essere quantificata, è opportuno indagare ed evidenziare le questioni fondamentali relative alle molestie assillanti messe in atto da parte dei pazienti a danno dei loro medici o terapeuti, come le caratteristiche tipiche dei pazienti che perpetrano lo stalking, l’evoluzione della campagna di molestie, l’impatto che tale problematica può avere sugli operatori e sulla loro professione, le strategie di coping messe in atto dalle vittime e la loro efficacia, nonché le strategie preventive che possono essere adottate per ridurre la diffusione e l’impatto di tale fenomeno.

Le ricerche italiane

Secondo la letteratura internazionale i professionisti della cura rappresentano una categoria particolarmente colpita dal fenomeno dello stalking. Come nel resto del mondo, anche in Italia le caratteristiche della professione degli Health Care Professionals ne fanno un gruppo sociale a rischio di subire molestie assillanti (Acquadro Maran, Pristerà, Zedda, 2009). La scarsa presenza di letteratura scientifica al riguardo nel nostro Paese e l’esigenza di approfondire la natura, la prevalenza e l’impatto del fenomeno dello stalking ai danni dei professionisti della cura, hanno fatto sì che negli ultimi anni siano stati condotti diversi studi e ricerche che hanno indagato il fenomeno così come si manifesta in diversi contesti professionali italiani.

Per approfondire la comprensione del fenomeno delle molestie assillanti a danno di coloro che operano nel campo della salute mentale nel nostro Paese, Galeazzi, Elkins e Curci (2005) hanno intervistato 475 professionisti della salute mentale impiegati nel settore pubblico e privato nella provincia di Modena, attraverso un questionario di 41 item in cui veniva chiesto se un paziente avesse mai molestato l’intervistato. Lo studio è stato svolto nel 2001, quando ancora il concetto di stalking non aveva catturato l’attenzione dei media e non era stata formulata nessuna legge specifica per perseguire questo crimine.

Gli Autori hanno definito operativamente lo stalking contro gli operatori della salute mentale, sostenendo che si verifica quando un paziente mette in atto comunicazioni indesiderate o contatti ripetuti (in più di dieci occasioni) e persistenti (per un periodo superiore alle quattro settimane) tali che il comportamento produce ansia nel professionista (Ibidem). Nel questionario venivano indicate nove modalità con le quali poteva essere stato attuato lo stalking: spiare, pedinare, aggirarsi attorno ai luoghi usualmente frequentati dalla vittima, avvicinarsi alla vittima in maniera intrusiva, usare il telefono, inviare lettere, fax o e-mail, inviare materiale non richiesto, ordinare beni per conto della vittima, diffondere calunnie o presentare reclami pretestuosi. A chi dichiarava di aver sperimentato almeno uno di questi comportamenti, veniva domandato di specificare il numero delle occorrenze e di compilare la seconda parte del questionario in cui venivano indagati l’età dell’operatore all’inizio delle molestie, la durata delle molestie e il grado di preoccupazione da esse suscitato, il verificarsi di minacce e di eventuali atti di violenza subiti, le reazioni emotive e gli eventuali cambiamenti nello stile di vita, nonché gli effetti della persecuzione sulla relazione terapeutica. Venivano inoltre domandati sesso, età, stato civile, occupazione, diagnosi psichiatrica del molestatore e motivazione percepita per la campagna di stalking (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003).

Le risposte valide al questionario sono state 361 (76%), di cui 192 soggetti erano infermieri psichiatrici (53%), 108 erano psichiatri, psicologi o tirocinanti (30%) e 61 appartenevano ad altri gruppi professionali (17%), come ad esempio educatori coinvolti nella riabilitazione psichiatrica. L’11% (40 soggetti) sono risultati essere stati vittime di stalking da parte di pazienti (in accordo con la definizione utilizzata dai ricercatori), mentre 122 intervistati (34%) hanno riportato di essere stati molestati in uno dei nove modi indicati in almeno un’occasione. In quindici casi le vittime erano infermieri e in ventitre casi psichiatri e psicologi, i quali hanno sperimentato stalking per un periodo prolungato, mentre gli ultimi due casi avevano coinvolto altri operatori. Lo stato civile e il lavorare in un contesto pubblico o privato non hanno inciso sul rischio di essere molestati, mentre si è riscontrato che il sesso maschile e l’età avanzata erano fattori che potevano influenzare la probabilità di essere vittima (Galeazzi, Elkins, Curci, 2005).

Per quanto riguarda i pazienti autori delle molestie, nel 90% dei casi (35 soggetti) lo stalker era un cliente sotto la cura diretta del medico. La maggior parte erano single e disoccupati, con una distribuzione omogenea tra sesso maschile e femminile. La diagnosi psichiatrica più frequente nei molestatori è stata quella di disturbo psicotico (17 casi, 45%), seguita dal disturbo dell’umore e disturbi di personalità, riconducibili soprattutto a quello antisociale, borderline, istrionico e narcisistico. Le modalità più comuni di molestie sono state: approcci intrusivi (75%), telefonate (65%), bighellonare nei pressi dei luoghi frequentati dalla vittima (58%), sorvegliare (48%), inviare lettere (33%), seguire la vittima (23%), violare la proprietà (20%), diffondere pettegolezzi (15%) e inviare materiale indesiderato (10%). Nove professionisti (23%) hanno ricevuto minacce. Quattro di essi le hanno ricevute nei confronti dei loro figli e coniugi, cinque hanno riportato danni alla proprietà, tre sono stati aggrediti fisicamente dallo stalker e uno è stato gravemente ferito (Ibidem).

Circa la motivazione percepita alla base delle molestie assillanti, la maggior parte delle vittime (43%) ha riportato il desiderio del paziente di una maggiore intimità, mentre in soli cinque casi la vittima crede che la campagna di stalking sia stata avviata come vendetta per un torto percepito (come ad esempio il rifiuto della certificazione di disabilità). In tre casi la campagna di stalking è stata avviata dopo la cessazione del rapporto terapeutico da parte del professionista (Ibidem).

Le conseguenze emotive più comuni per le vittime sono state: paura (53%), rabbia (43%) e senso di impotenza (28%). Un numero consistente di vittime ha modificato il proprio stile di vita o il proprio stile professionale in risposta ai comportamenti di stalking: quattordici professionisti (35%) hanno aumentato le precauzioni sul lavoro, sette (18%) hanno cambiato il proprio numero di telefono, cinque (13%) hanno aumentato le misure di sicurezza in casa, tre (8%) hanno perso dei giorni di lavoro a causa dello stalking, tre (8%) hanno considerato di cambiare la loro professione, due (5%) hanno cambiato la sede di lavoro e una (4%) ha cambiato residenza. La maggior parte delle vittime ha chiesto assistenza e consulenza da parte dei colleghi (68%), altri si sono rivolti a familiari e amici (18%), alla polizia (15%) e una sola vittima si è rivolta a un avvocato (3%) (Ibidem).

I risultati di questo studio confermano l’ipotesi di un elevato rischio per i professionisti della salute mentale di essere oggetto di stalking da parte dei loro pazienti. Anche se quando è stata svolta l’indagine le molestie assillanti non erano ancora considerate un problema sociale in Italia, gli intervistati sono stati in grado di riconoscere e segnalare il verificarsi di questa forma di vittimizzazione, aggiungendo così prove dell’attualità transculturale del costrutto di stalking. Le informazioni raccolte confermano alcuni dati già noti dalle ricerche sulla popolazione generale, come l’alto tasso di single e disoccupati tra gli stalker, ma indicano anche possibili caratteristiche specifiche dello stalking nella popolazione dei professionisti della salute mentale, infatti, contrariamente alle indagini condotte nella popolazione generale, il genere maschile sembra aumentare il rischio di subire molestie da parte dei pazienti. Inoltre è stata riscontrata una maggiore incidenza cumulativa per gli psichiatri e gli psicologi rispetto alle altre categorie (Curci, Galeazzi, Secchi, 2003). Gli Autori suggeriscono che la motivazione possa risiedere nelle caratteristiche del rapporto psicoterapeutico, il quale può produrre equivoci circa la natura dell’intimità tra le parti e circa i confini appropriati (Galeazzi, Elkins, Curci, 2005). Un altro elemento che sembra caratterizzare lo stalking ai danni degli Health Care Professionals è il basso tasso di minacce e violenze fisiche riscontrato nella ricerca, rispetto a quello rilevato nella popolazione generale. Una spiegazione potrebbe risiedere nella prevalenza, in questa particolare popolazione, di stalker in cerca di intimità (i quali tendono a essere meno violenti) e nel relativo successo del terapeuta nel contenere lo stalking (Ibidem).

Per comprendere meglio la rilevanza del fenomeno dello stalking tra gli Health Care Professionals in Italia, esso è stato oggetto di studio da parte di un’équipe di ricercatori e psicologi dell’Università degli Studi di Torino e dell’Azienda Ospedaliera Universitaria San Giovanni Battista di Torino, la quale ha realizzato il progetto di ricerca “Health Care Professional (HCP) vittime di stalking: analisi del fenomeno”, con l’obiettivo di indagare l’incidenza e la natura delle molestie assillanti dirette alle figure professionali oggetto di interesse (Zedda, Ambrosi, 2012).

Nel progetto sono stati coinvolti 1.500 soggetti operanti in diversi settori (medici, infermieri, psicologi, operatori sociali), ai quali è stato distribuito uno strumento standardizzato di raccolta dati, al fine di descrivere la relazione tra la vittima e lo stalker, le tipologie, la frequenza e l’evoluzione dei comportamenti messi in atto da quest’ultimo, le strategie di fronteggiamento e le conseguenze emotive e psicologiche. Sono stati quindi distribuiti 1.500 questionari, di cui ne sono stati compilati 1.072. Nel complesso il 73,04% dei partecipanti era di genere femminile e la maggior parte (28,6%) aveva un’età compresa fra i 39 e i 48 anni (Acquadro Maran, 2012).

Dall’elaborazione dei risultati è emerso che 160 soggetti (14,9%) si sono dichiarati vittime di stalking e in particolare l’85% delle vittime erano soggetti di sesso femminile. L’età media delle vittime era di 37,25 anni. Inoltre, nel 23,8% dei casi le molestie hanno coinvolto vittime secondarie, come partner e/o familiari, amici, colleghi, ex-partner e sconosciuti (ad esempio passanti).

Per quanto riguarda gli stalker, il 70,6% era di sesso maschile e l’età media era di 35,93 anni. Più della metà delle vittime ha indicato la professione del molestatore, affermando che il 96,9% erano occupati (di cui il 22,3% erano HCP) e il 3,1% erano disoccupati.

Il rapporto vittima-stalker è stato classificato utilizzando i tipi “ex-intimo” (33,2%), “conoscente” (35,7%) e “sconosciuto” (21,2%); la tipologia di stalker più indicata è stata quella del “rifiutato” (32,6%), seguita da “incompetente” (23,1%), “risentito” (22,5%) e “cercatore di intimità” (16.2%). Non sono risultati stalker appartenenti alla tipologia “predatore” (Ibidem).

I comportamenti messi in atto dai molestatori sono risultati vari. I più frequenti sono stati quelli relativi alla comunicazione (telefonate, e-mail, sms) e al controllo (pedinamenti e appostamenti fuori dall’abitazione o sul luogo di lavoro). Il 28,1% delle vittime ha dichiarato di aver subito minacce alla propria vita e il 6,3% ha subito aggressioni che hanno causato lesioni fisiche. Un dato interessante riguarda la ricerca di informazioni sulla vittima da parte dello stalker. Circa la metà dei soggetti (55%) ha dichiarato che a tal fine sono stati contattati dal molestatore amici, colleghi, familiari e/o vicini di casa e il 36,6% di queste vittime ha dichiarato che le informazioni sono state fornite allo stalker in maniera consapevole. È interessante tenere in considerazione questo dato alla luce delle risposte che sono state date alla domanda circa le reazioni riscontrate dalle persone alle quali si è confidato di essere vittima di stalking: al 21,9% delle vittime è stato detto che stava reagendo in modo esagerato, mentre al 12,5% che erano fortunate in quanto stavano ricevendo attenzioni. Questi dati confermano che «la mancanza di informazioni sul fenomeno può alimentare la fantasia che i comportamenti descritti dalla vittima possano riferirsi ad un corteggiamento, piuttosto che alla molestia reiterata» (Ivi, 164).

Le vittime che hanno raccontato quello che stavano subendo al partner e/o a familiari, amici o colleghi di lavoro ammontano al 61,3%, di cui il 39,8% ha ritenuto la condivisione molto utile in termini di supporto emotivo, il 25,5% utile, il 21,4% ha ritenuto il supporto fornito adeguato e il 13,3% ha dichiarato un peggioramento della situazione a seguito del racconto (Acquadro Maran, 2012).

Al momento dell’indagine, per 123 soggetti (76,9%) il fenomeno era terminato: nel 33% dei casi non vi era stato alcun intervento, nel 17,1% erano intervenute terze persone (partner, amici, familiari, colleghi), nel 13% vi era stata una diffida da parte delle forze dell’ordine e in due casi (1,6%) lo stalker era stato arrestato. Infine, il 4,1% delle vittime ha dichiarato che lo stalker aveva trovato un’altra vittima, mentre il 30,9% ha indicato altre motivazioni che hanno interrotto le molestie, come il decesso del persecutore.

Le strategie di coping messe in atto dalle vittime a fronte della campagna di molestie sono state: chiedere allo stalker di porre fine ai comportamenti persecutori rispondendo ai suoi tentativi di comunicazione (45%) o cercando un confronto diretto (28,8%), raccogliere le prove delle molestie (42,5%) o tentare di cogliere sul fatto il persecutore (38,8%), cambiare numero di telefono (27,5%), rinunciare alle attività sociali (19,4%), frequentare meno amici e/o parenti (13,8%), denunciare l’accaduto alle forze dell’ordine (18,8%), rivolgersi a un professionista psicologo o psichiatra (5,6%) (Ibidem).

I sintomi fisici maggiormente evidenziati dalle vittime sono stati disturbi del sonno, attacchi di panico, variazione di peso e stanchezza, mentre la sintomatologia psichica ha sottolineato un aumento dei livelli di ansia, rabbia, paura e irritazione (Zedda, Ambrosi, 2012). Alcune vittime hanno dichiarato che tali sintomi emotivi hanno causato un peggioramento delle prestazioni lavorative.

Acquadro Maran (2012) afferma che i risultati di questo progetto di ricerca indicano che le vittime HCP del campione utilizzato hanno caratteristiche simili a quelle di studi condotti in altri Paesi, in particolare per quanto riguarda l’incidenza del fenomeno, la relazione tra stalker e vittima, la durata della campagna di molestie e i comportamenti che la caratterizzano, le conseguenze sulla vittima e le strategie di coping. L’Autrice aggiunge che sarebbero necessari ulteriori approfondimenti circa lo stalking nei contesti professionali per comprendere meglio gli elementi relazionali e contestuali più significativi nell’aumentare il rischio degli HCP di subire molestie.

Un ulteriore studio è stato condotto in Italia al fine di indagare in modo specifico il fenomeno delle molestie assillanti ai danni della figura dello psicologo. La ricerca è stata condotta mediante un questionario online per gli psicologi iscritti all’Albo della Regione Lombardia, il quale indagava l’esperienza di molestie e le caratteristiche dello stalker (Gagliardi et al., 2013).

Al questionario hanno risposto 396 professionisti, di cui l’85% di genere femminile. Il 13% dei rispondenti (52 soggetti) ha affermato di aver subito molestie. Il tipo di comportamenti persecutori messi in atto sono stati vari (telefonate, sms, minacce, pedinamenti, lettere, e-mail, danneggiamenti, comportamenti violenti, calunnie e pettegolezzi). Le molestie hanno avuto una durata che variava da alcuni giorni ad addirittura anni nei casi più gravi e si sono verificate in diversi contesti, come il luogo di lavoro, l’abitazione e in luoghi pubblici (Ibidem).

Per quanto riguarda le caratteristiche dei molestatori, è interessante notare che lo stalker era un paziente in meno della metà dei casi (48%), nel 21% si trattava di un familiare di un paziente e il 43% del campione ha risposto “altro” senza altre specificazioni. I molestatori erano nel 74% dei casi di sesso maschile. Circa la presenza di patologie tra gli stalker, è emerso che nel 30% dei casi non vi era alcuna diagnosi psichiatrica, nel 21% erano presenti disturbi di personalità, mentre il 10% manifestava disturbi psicotici e abuso di sostanze. Tra le motivazioni percepite dalle vittime, la più frequente è stata quella del rancore in merito a presunti torti, seguita dall’infatuazione, dall’innamoramento patologico, dall’idea di non essersi sentito sufficientemente curato e infine dalla mancata accettazione della fine della terapia (Ibidem).

La strategia difensiva messa in atto più di frequente dalle vittime è stata quella di evitare le telefonate. Alcuni soggetti hanno apportato cambiamenti nell’ambito lavorativo e nelle abitudini di vita quotidiana. Le conseguenze psichiche e fisiche hanno compreso un aumento dello stato di allarme, frustrazione, aumento dello stress lavorativo, disturbi del sonno, perdita di fiducia negli altri o in se stessi. Alcuni hanno dichiarato di aver perso dei giorni di lavoro a causa del problema. Gli psicologi che hanno subito lo stalking si sono rivolti soprattutto a parenti, amici e/o colleghi (86%), mentre solo il 13% ha chiesto un parere legale e il 10% si è rivolto alle forze dell’ordine (Ibidem).

Le ultime due domande del questionario erano rivolte a tutti coloro che avevano risposto al questionario, anche a quei professionisti che non erano stati vittime di molestie. Esse indagavano l’importanza del fenomeno dello stalking nella professione e la gravità di esso percepita. Secondo il 48% dell’intero campione, le molestie assillanti rappresentano un problema reale, ma poco conosciuto, per il 28% è una problematica comune ad altre professioni sanitarie, il 22% sostiene che sia un rischio comune a tutte le professioni e il 2% ritiene che il fenomeno non rappresenti un problema. Infine, è importante sottolineare che solo il 10% di tutti i partecipanti all’indagine ha affermato che esistono sul territorio italiano servizi competenti nell’affrontare e gestire il fenomeno in oggetto e solamente il 17% di coloro che sono stati vittime di stalking conosce enti e strutture dedicate (Ibidem).

Questa indagine non solo conferma l’incidenza del fenomeno delle molestie assillanti tra coloro che esercitano la particolare professione dello psicologo e/o dello psicoterapeuta, ma sottolinea anche la presenza di una lacuna che non va sottovalutata: la carenza di servizi dedicati a coloro che devono fronteggiare le esperienze di stalking, nonché la mancanza di un’adeguata formazione in questo campo.

Lo studio condotto da Pomilla, D’Argenio e Mastronardi (2012) nella città di Roma, oltre a costituire un’analisi delle condotte persecutorie agite nei confronti dei professionisti della salute mentale, approfondisce un ulteriore aspetto di questo fenomeno: le differenze di genere riscontrate nelle modalità comportamentali dei molestatori. Un’altra particolarità di questa ricerca consiste nell’aver condotto l’indagine su due campioni, uno proveniente da strutture di cura psichiatrica pubbliche e l’altro da strutture private. In particolare, per costituire il primo campione sono stati scelti i servizi ambulatoriali dei Dipartimenti di Salute Mentale delle ASL, i quali seguono i propri utenti per un periodo di tempo prolungato (in modo da poter applicare piani terapeutici e riabilitativi), creando così un contatto continuativo medico-paziente. I soggetti appartenenti al secondo campione provengono invece da poliambulatori privati, studi professionali, cliniche private e/o convenzionate, cooperative di servizio in ambito psichiatrico e società di consulenza per la cura delle patologie mentali. A entrambi i gruppi è stato somministrato un questionario al fine di indagare le caratteristiche delle vittime, dei persecutori e quelle correlate alla campagna di stalking (Ibidem).

Nel campione composto da professionisti che operano nel settore pubblico (246 psichiatri, di cui 112 maschi e 134 femmine) sono state riscontrate 25 vittime di molestie assillanti (10,16%), di cui 13 donne (5,28%), con un’età media di 44 anni, e 12 uomini (4,87%), con un’età media di 47 anni. In tutti i casi lo stalker ha utilizzato come modalità di persecuzione il telefonare ripetutamente alla segreteria del centro ambulatoriale, in 18 casi l’appostarsi nelle vicinanze del luogo di lavoro, in 3 casi l’appostarsi nei pressi dell’abitazione e in 2 casi il cyberstalking. Sono stati dichiarati 5 casi di aggressioni fisiche, 3 nei confronti di vittime uomo e 2 verso vittime donne. In seguito alle molestie, 4 vittime hanno cambiato sede di lavoro e in 9 casi è stato necessario l’invio a un altro collega (Ibidem).

Gli stalker che hanno perseguitato i professionisti di questo campione erano in 13 casi di sesso maschile, con un’età media di 42 anni, e in 12 casi di sesso femminile, con un’età media di 38 anni. Hanno condotto lo stalking verso vittime del sesso opposto, per una durata media di 12 mesi per entrambi i sessi. Per la diagnosi psichiatrica sono stati utilizzati i criteri del DSM-IV-TR (American Psychiatric Association, 2000) ed è emerso che le donne stalker avevano un disturbo di personalità del cluster B, con prevalenza di tratti borderline e psicosi schizofrenica, mentre gli uomini stalker avevano in 8 casi una diagnosi di schizofrenia paranoidea, in 3 casi un disturbo di personalità e in 2 casi un disturbo dell’umore ad andamento bipolare in episodio di eccitamento (Pomilla, D’Argenio, Mastronardi, 2012).

Nel campione composto da professionisti che operano nel settore privato (233 psichiatri, di cui 112 maschi e 120 femmine) sono state riscontrate 45 vittime di molestie assillanti (19,3%), di cui 19 donne (8,15%), con un’età media di 38,5 anni, e 26 uomini (4,87%), con un’età media di 45 anni. C’è stata una maggiore varietà in questo campione per quanto riguarda le modalità di persecuzione: in tutti i casi telefonate/sms reiterate al telefono dello psichiatra, in 38 casi appostamenti nelle vicinanze del luogo di lavoro, in 10 casi appostamenti nei pressi dell’abitazione e in 11 casi cyberstalking. Sono stati riscontrati anche danni ai beni di proprietà della vittima in 7 casi. Aggressioni fisiche sono state evidenziate in 8 casi, 3 da parte di uomini e 5 da parte di donne. Per quanto riguarda i provvedimenti presi dalle vittime, 7 hanno cambiato sede di lavoro e in 5 casi è stato necessario l’invio a un altro collega (Ibidem).

Gli autori delle molestie erano in 19 casi di sesso maschile, con un’età media di 42 anni, e in 26 casi di sesso femminile, con un’età media di 33 anni. Anche in questo campione lo stalking è stato condotto verso vittime del sesso opposto, ma con una durata media di 12,1 mesi per gli uomini e 21,54 mesi per le donne. Delle molestatrici assillanti, 17 avevano una diagnosi relativa a un disturbo di personalità del cluster B con prevalenza di tratti borderline e in 2 casi una diagnosi di disturbo bipolare in fase maniacale; i molestatori maschi avevano in 7 casi una diagnosi di schizofrenia paranoidea, in 11 casi di disturbi di personalità e in un caso di disturbi dell’umore ad andamento bipolare in episodio di eccitamento (Ibidem).

Gli Autori di questo studio affermano che «la maggiore familiarità e vicinanza del rapporto che un professionista del settore privato instaura con il proprio paziente è condizione predisponente al verificarsi di comportamenti di persecuzione» (Ivi, 50), come si evince dai 46 casi di vittimizzazione riportati nel campione degli operatori privati contro i 25 casi del campione di soggetti operanti nel settore della sanità pubblica. Questo, continuano gli Autori, sottolinea «come la necessità di maggior tutela sia necessaria in questo campo, proprio perché i professionisti operano in maggiore indipendenza dalle tutele che i colleghi del settore pubblico possono avere dalle stesse strutture cui afferiscono» (Ibidem). Inoltre, da alcune informazioni aggiuntive richieste nell’indagine, è emersa tra i professionisti di entrambi i campioni, una scarsa informazione e formazione circa il fenomeno dello stalking.

Analisi critica del fenomeno

Alla luce dei dati ottenuti dalle ricerche sopra descritte, appare evidente che quella degli Health Care Professionals è una categoria professionale particolarmente esposta al rischio di divenire vittima di stalking.

Dagli studi emerge che nella maggioranza dei casi l’autore delle molestie a danno dei professionisti della cura è un paziente o un ex-paziente, solo in alcuni casi si tratta di un familiare di un paziente o di un collega. Circa la prevalenza di stalker di sesso femminile o maschile i dati non sono omogenei e anche per quanto riguarda le età, esse sono variamente rappresentate. Per quanto concerne la presenza di disturbi psichiatrici, è stata riscontrata nelle varie ricerche la presenza negli stalker di diverse patologie, di frequente sono stati rilevati negli autori dello stalking disturbi di personalità, soprattutto appartenenti al gruppo B del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), ma anche disturbi dell’umore, disturbi psicotici, abuso di sostanze. Oltre a queste patologie, sono state riscontrate anche storie di comportamenti aggressivi, suicidari o autolesionistici. Ho già precisato che lo stalking è un fenomeno eterogeneo e che per questo è complicato individuare sempre la presenza di una vera e propria psicopatologia negli autori delle molestie, e che, anzi, la presenza di un quadro psicopatologico riguarda solo una piccola percentuale di costoro. L’elevata presenza di disturbi psichiatrici riscontrata dalle ricerche negli stalker che colpiscono i professionisti della salute, va sicuramente attribuita al fatto che gli autori delle molestie sono nella maggior parte dei casi pazienti delle loro vittime, e quindi individui che spesso soffrono di difficoltà psicologiche e relazionali. Le motivazioni più frequenti riscontrate nei vari studi sono state il risentimento e la rabbia in risposta a qualche forma di presunto maltrattamento, la ricerca di una maggiore intimità con la vittima, l’infatuazione, la presenza di credenze deliranti, ma anche la mancata accettazione della cessazione del rapporto terapeutico. Sandberg, McNiel e Binder (2002) nella loro ricerca hanno riscontrato che gli eventi che sono stati percepiti dai pazienti come forme di maltrattamento e che hanno innescato la campagna di molestie sono stati l’essere ricoverati o dimessi non volontariamente, ricoveri caratterizzati da isolamento e contenzione del paziente, esiti indesiderati di valutazioni psicologiche o psichiatriche e la limitazione del setting e del rapporto terapeuta-paziente su un piano esclusivamente professionale. Facendo riferimento alla classificazione di Mullen et al. (1999, 2000), le tipologie di stalker maggiormente riscontrate sono state quelle del “cercatore di intimità”, del “rancoroso” e dell’“incompetente”. I comportamenti di molestie più comuni sono stati quelli di comunicazione e di controllo, come telefonare, inviare lettere, sms o e-mail, pedinamenti e appostamenti sul luogo di lavoro o nei pressi dell’abitazione e minacce. Con minore frequenza sono stati riscontrati danneggiamenti ai beni di proprietà della vittima e aggressioni fisiche. C’è concordanza tra i dati delle varie ricerche nel rilevare che le molestie più rappresentate sono quelle di profilo psicologico, mentre i maltrattamenti e le violenze appaiono rappresentate con una percentuale minore. Questo può essere da attribuire alla maggior presenza di stalker di tipo “cercatori di intimità” e “incompetenti” (i quali raramente mettono in atto comportamenti violenti) e alla scarsa presenza di stalker “predatori”. Gli stalker “rancorosi” minacciano e sono inclini a danneggiare beni di proprietà della loro vittima, ma raramente procedono all’aggressione vera e propria (Mullen et al., 1999).

Per quanto riguarda le vittime, le conseguenze fisiche ed emotive riscontrate nei professionisti vittime di stalking sono state pressoché le stesse rilevate dagli studi sulla popolazione generale, sia dal punto di vista psicologico (paura, ansia, rabbia, irritazione, senso di impotenza), che dal punto di vista fisico (stanchezza, disturbi del sonno, variazioni di peso) e sociale (modificare le abitudini di vita quotidiana, rafforzare la sicurezza nella propria abitazione, cambiare luogo di residenza, ridurre le attività sociali). A queste conseguenze però si aggiungono quelle che le molestie assillanti hanno comportato nell’attività professionale della vittima: sono state frequentemente riportate modifiche nella pratica lavorativa, come ad esempio perdere giorni di lavoro, cambiare il proprio stile di trattamento, aumentare la sicurezza sul luogo di lavoro e cambiare sede, fino al punto di arrivare non solo a prendere in considerazione di lasciare la propria professione, ma di abbandonare realmente la pratica clinica. A tal proposito, uno dei partecipanti alla ricerca di Gagliardi et al. (2013), a seguito delle molestie subite da parte di un familiare di un paziente all’interno di una struttura pubblica, ha dichiarato: «ora svolgo la libera professione e tento di non rendermi ricattabile con comportamento alcuno. Sono particolarmente attenta alle dinamiche perverse prima di accettare un trattamento» (Ivi, 459). Forse ancora più significative sono le parole espresse da un professionista intervistato nell’indagine di Hudson-Allez, secondo il quale lo stalking subìto ha cambiato il suo stile professionale facendolo divenire «un terapeuta più sicuro, ma non un terapeuta migliore» (cit. in De Fazio, Sgarbi, 2012, 112). Lo stalking è quindi un evento distruttivo, che ha il potenziale di devastare le vite professionali e personali dei professionisti che lo subiscono, ma anche del paziente/stalker e delle altre parti coinvolte, come colleghi e familiari (Pathé, Meloy, 2013). Circa le strategie di coping più comuni messe in atto dai professionisti vittime di stalking, troviamo: cambiare numero di telefono, aumentare le precauzioni sul lavoro e/o a casa, informare altre persone (colleghi, supervisori, amici, parenti), evitare o scoraggiare il contatto con il paziente, ma anche affrontare lo stalker chiedendogli di porre fine ai comportamenti molesti. Sono basse invece le percentuali di coloro che si sono rivolti alle forze dell’ordine, ai centri antiviolenza o a un avvocato. Questo potrebbe essere un segno di scarsa o limitata fiducia nelle istituzioni preposte al controllo sociale e al sostegno delle vittime. Allo stesso tempo sono anche probabili vissuti di vergogna e imbarazzo che caratterizzano le vittime e che inibiscono in qualche modo le denunce (Grattagliano et al., 2014). Alcuni Autori (McIvor, Petch, 2006; Gagliardi et al., 2013) ritengono che vi sia una certa riluttanza nel rivelare la propria condizione di vittima di stalking da parte di chi è abituato a considerare la propria professione in termini di aiuto, soprattutto se il molestatore è un paziente affetto da un disturbo mentale. Diversi studi tra quelli sopra descritti prevedevano una richiesta di informazioni ai partecipanti (vittime e non), finalizzata a valutare la conoscenza e la consapevolezza del fenomeno e delle strategie di difesa e fronteggiamento. Dalle loro risposte si è rilevato che spesso i professionisti della cura sono poco informati sullo stalking e sulle sue conseguenze, nonché sulle strategie di coping adeguate e funzionali. Non va sottovalutato che gli operatori sanitari possono sviluppare un certo grado di tolleranza per i comportamenti antisociali o minacciosi, a causa della loro prevalenza nella pratica quotidiana. Questo può portarli a minimizzare le molestie assillanti, nella speranza che si risolvano spontaneamente o che possano essere gestite all’interno della relazione terapeutica (McIvor, Petch, 2006). Inoltre, questa percezione può essere rafforzata dal fatto che, data la loro presunta competenza nella gestione del comportamento disturbato, i professionisti della salute mentale possono essere più inclini al senso di colpa e all’auto-rimprovero in queste situazioni, e queste valutazioni immeritate possono essere sostenute dagli atteggiamenti di alcuni colleghi (Pathé, Meloy, 2013).

La maggior parte degli studi di stalking e molestie che hanno coinvolto le professioni d’aiuto si sono concentrati su popolazioni di professionisti operanti nell’ambito della salute mentale, sia pubblico che privato. Dalle ricerche si deduce correttamente che diversi professionisti della salute mentale (psichiatri, psicologi, psicoterapeuti) sono particolarmente vulnerabili alle intrusioni indesiderate da parte dei loro pazienti. Questa esposizione non è sorprendente, data la natura della relazione terapeutica e la maggiore probabilità che ha questa categoria di professionisti rispetto ad altre discipline e rispetto alla maggior parte della popolazione generale, di incontrare individui seriamente mentalmente disturbati e instabili, con una maggiore propensione a impegnarsi nel comportamento di stalking (Ibidem).

Lo stalking è un rischio professionale comune per gli Health Care Professionals, eppure è ancora poco indagato e sottostimato. I professionisti ricevono scarsa formazione riguardo il concetto di stalking e la sua gestione, nonostante la loro professione li renda più vulnerabili a diventarne vittime. Proprio per questo sono necessari interventi volti al riconoscimento del comportamento di stalking e alle strategie di gestione del rischio (McIvor, Petch, 2006).

Prevenzione e formazione per i professionisti della cura

Un dato importante che è emerso dalle diverse ricerche in materia di molestie assillanti a danno dei professionisti della cura, è la mancanza di una preparazione specifica per affrontare le situazioni di stalking e la carenza di servizi di aiuto. Ad esempio, nello studio di Gagliardi et al. (2013) sono stati raccolti numerosi commenti circa il fatto che lo stalking sia un fenomeno tanto frequente quanto sottovalutato, come dimostra ad esempio la mancanza di informazione circa i servizi dedicati a chi si trova a essere vittima di molestie. Nello studio di Purcell, Powell e Mullen (2005), molti dei professionisti vittime di stalking hanno affermato che nulla nel loro corso di studi o nel loro training li aveva preparati ad affrontare tale drammatica esperienza. In linea con queste dichiarazioni, un primo provvedimento adeguato potrebbe essere quello di inserire nei diversi percorsi formativi informazioni sullo stalking e sulle modalità di prevenzione, gestione e difesa. Una maggiore conoscenza e consapevolezza del fenomeno, non solo può aiutare i professionisti a individuare i pazienti a rischio di comportamenti molesti e a gestirli adeguatamente, ma può far sì che essi siano meno inclini a colpevolizzarsi, attribuendo tali atteggiamenti ai propri errori, e a minimizzare la natura e le conseguenze del comportamento di stalking. Inoltre, aumenterebbe la probabilità che le vittime ricerchino sostegno e assistenza, piuttosto che isolarsi, salvaguardando così la propria vita personale e professionale (Gagliardi et al., 2013).

Data la natura della relazione d’aiuto che caratterizza i contesti lavorativi dei professionisti della cura e visto che i possibili pazienti/stalker non sembrano avere caratteristiche distintive specifiche, lo stalking non può essere del tutto evitabile nelle professioni d’aiuto. Tuttavia, è possibile ridurre i rischi e le conseguenze dannose adottando alcune misure di sicurezza (Pathé, Meloy, 2013). È importante proteggere la propria privacy, ad esempio limitando il più possibile le informazioni personali di dominio pubblico e riducendo al minimo l’uso di siti di social network; chiarire ai pazienti quali sono i confini della relazione e assicurarsi che il rapporto si mantenga sempre su un piano rigorosamente professionale, così da evitare una possibile confusione fra coinvolgimento professionale e personale (De Fazio, Sgarbi, 2012); non ignorare mai l’emergere di comportamenti di stalking da parte dei propri pazienti e informare i colleghi e le altre parti interessate (come supervisori e familiari) di ciò che sta accadendo (Pathè, Mullen, Purcell, 2002), non solo per ricevere aiuto e sostegno, ma anche perché le molestie potrebbero coinvolgere terze persone; se si è preoccupati per possibili comportamenti di molestie assillanti da parte di un paziente sarebbe utile cercare di incontrarlo quando altri colleghi o altri membri del personale si trovano nelle vicinanze (Ibidem); se i comportamenti molesti persistono bisogna cercare di evitare ogni occasione di rapporto, incontro, discussione e negoziazione, così da non “premiare” gli sforzi dello stalker (De Fazio, Sgarbi, 2012). A tal proposito è importante prendere in considerazione l’invio del paziente a un altro professionista se la situazione lo richiede (Pathè, Mullen e Purcell, 2002) e considerare azioni legali, nonché il rivolgersi alle forze dell’ordine se il paziente rappresenta una grave minaccia nei propri confronti (Pathé, Meloy, 2013). Inoltre, la formazione, anche se adeguata, dei professionisti della salute non li esime da reazioni di stress o meccanismi di coping disadattivi, per cui è ragionevole cercare aiuto e sostegno da parte di un altro professionista, piuttosto che ignorare o minimizzare il proprio vissuto o ricorrere all’auto-terapia (Ibidem).

Per quanto concerne le strategie di difesa, è possibile identificarne alcune più efficaci di altre, ma non esistono strategie valide sempre e comunque, in quanto, a seconda della specifica situazione e dei soggetti coinvolti, un determinato provvedimento può risultare adeguato o controproducente. Sandberg, McNiel e Binder (2002) affermano che, in base alle loro indagini, ciò che risulta utile è avere a disposizione un vario repertorio di risposte.

Purtroppo l’esperienza di vittima di molestie assillanti sembra essere vissuta, nella maggioranza dei casi, in modo solitario e privato, elemento che risulta quasi paradossale nel caso di coloro che operano nel campo delle professioni d’aiuto. Questo comporta il rischio di sottovalutare e amplificare i fenomeni di molestia e di violenza, nelle loro svariate molteplici manifestazioni. A tal proposito potrebbe essere d’aiuto divulgare i dati sulla natura e sull’incidenza del fenomeno, così da aiutare le vittime a uscire dal proprio isolamento e a cercare un aiuto competente, in modo da non procrastinare una situazione che può portare a conseguenze dannose (Acquadro Maran, 2012). È importante attivare delle campagne di sensibilizzazione, informazione e formazione rivolte ai professionisti della salute (fisica e mentale), del settore sia pubblico che privato, che riguardino le caratteristiche del fenomeno e le modalità più adeguate per prevenirlo, fronteggiarlo ed evitare i rischi (Grattagliano et al., 2014). Un’attività di sensibilizzazione e di informazione, svolta sia a livello generale che a livello dei professionisti della cura, si configura come un passo necessario per costruire un bagaglio di conoscenze adeguate sullo stalking utili a progettare e a migliorare strategie efficaci di prevenzione (Grattagliano et al., 2012). Sarebbero anche utili «politiche che tutelino adeguatamente questi operatori nel trattamento di casi particolarmente critici e rischiosi, con percorsi operativi che consentano interventi a più livelli e favoriscano confronti e scambi di esperienze con équipe differenti per tipologia e specializzazione» (Grattagliano et al., 2014, 278).

Alla luce di queste considerazioni e dei risultati emersi dai vari studi e ricerche, sarebbe opportuno e utile indagare ulteriormente alcune variabili, come le caratteristiche del professionista/vittima, del paziente/stalker e della relazione che intercorre tra i due soggetti, le quali potrebbero risultare importanti fattori di rischio per l’evolversi di una campagna di molestie, nonché identificare quei fattori che possono costituire un rischio per episodi di violenza e aggressione in questi particolari casi di stalking. Questo potrebbe essere utile al fine di implementare interventi preventivi, di aiutare i professionisti a identificare precocemente situazioni rischiose e di garantire una maggiore tutela a chi vive nella condizione di vittima di stalking.

Conclusioni

Ciò che è emerge dalla presente trattazione è che sebbene lo stalking sia un fenomeno complesso e di difficile analisi data la molteplicità delle sue caratteristiche, manifestazioni e conseguenze, per cui non è possibile identificare una specifica tipologia di stalker, di vittima e di comportamenti molesti, è possibile individuare delle categorie a riguardo, che possono essere tenute in considerazione per affrontare e gestire tale fenomeno e per fornire informazioni utili per ulteriori approfondimenti in merito. Infatti, è proprio per la sua complessità che lo stalking andrebbe esaminato attraverso un approccio multifattoriale e multidisciplinare, al fine soprattutto di fornire aiuto e supporto a entrambi i protagonisti delle molestie assillanti.

Per quanto riguarda le implicazioni dello stalking nei riguardi dei professionisti della cura, le diverse ricerche compiute in Italia e in altri Paesi dimostrano che tra le categorie vittimologiche maggiormente a rischio di stalking vi sono proprio le professioni d’aiuto e in particolare coloro che si occupano della salute mentale. La ricerca è attualmente ancora in corso per misurare empiricamente la portata e le caratteristiche di tale problema nella categoria professionale degli Health Care Professionals, ma ciò che risulta ormai chiaro è che le molestie assillanti ai danni di questi professionisti rappresentano una realtà che non va sottovalutata; le intrusioni, le intimidazioni e le molestie ripetute non devono essere considerate da questi professionisti come parte del proprio lavoro e coloro che si trovano a esserne vittima non devono subire critiche o svalutazioni, ma dovrebbero piuttosto ricevere solidarietà e sostegno. Le conseguenze dannose che lo stalking comporta, unite ai vissuti di minimizzazione e solitudine, possono avere serie ripercussioni sul corretto svolgimento della propria professione, oltre che sulla salute della vittima. Diventa quindi estremamente importante indirizzare gli sforzi di ricerca futuri verso lo sviluppo di strategie di gestione e di politiche sul posto di lavoro specifiche per questa particolare categoria vittimologica.

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