Psiconcologia

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Il presente articolo si propone di esplorare la disciplina della psiconcologia, che si pone come interfaccia tra l’oncologia da un lato e la psicologia e la psichiatria dall’altro. Viene preso in considerazione il vissuto del malato, i cambiamenti che la realtà individuale e relazionale subiscono a causa della malattia e le conseguenze psichiche che ne derivano. L’obiettivo è quello di promuovere la necessità di un approccio multidisciplinare in cui, accanto alle risorse della chirurgia, della chemioterapia, della radioterapia e dei trattamenti di supporto, il sostegno psicologico dei piccoli pazienti e delle loro famiglie abbia lo spazio sufficiente ad affrontare non solo la malattia e il suo trattamento, ma anche il rientro nella vita normale una volta conseguita la guarigione.

Introduzione

Anche se meno diffusi che nell’età adulta i tumori sono dopo gli incidenti, la più frequente causa di morte dei bambini. Circa 1400 nuovi casi di malattia neoplastica all’anno vengono segnalati sul territorio nazionale.

Qualunque sia la diagnosi, la prognosi, la risposta alle terapie, non esistono tumori di limitato rilievo. Il cancro rappresenta sempre per il paziente e per la sua famiglia una prova esistenziale sconvolgente.

In analisi di tutto ciò, affiora chiaramente l’esigenza che i modelli terapeutici tengano conto dell’unità della persona malata (mente-corpo), nonché della necessità per ciascun individuo di essere curato in tutti gli aspetti della patologia. Secondo tale prospettiva, le ricerche in campo psiconcologico, contribuiscono a rappresentare con maggiore sensibilità le reciproche influenze tra malattia organica e disagio psicologico.

La psiconcologia si propone infatti di promuovere approfondimenti teorici e applicativi clinici mediante il contributo di differenti discipline: la medicina oncologica, la psicologia e la sociologia. Il fine della psiconcologia è sostenere un processo di cura, complessivamente inteso del paziente neoplastico, attraverso un approccio multidisciplinare.

La neoplasia oggi e il contributo della psiconcologia

La parola cancro reca con sé ancora molti significati illogici, che evocano un presagio di sciagura e di catastrofi esistenziali. Per molto tempo, il cancro non è stato una malattia come le altre, da curare e da cui si può guarire, ma una sorta di anticamera di morte, sinonimo di grande dolore e d’incalcolabile sofferenza. Nonostante allo stato attuale la bibliografia in campo oncologico sia ampia, non appare sottolineato in modo sufficiente che di cancro non sempre si muore.

Infatti, oggi, grazie alla ricerca e alle sempre maggiori competenze e conoscenze sulle cause del cancro e sui modi con cui esso cresce e si propaga nell’organismo, è stata intrapresa la strada che renderà il cancro una malattia sempre più curabile, cioè una malattia per la quale esistono terapie efficaci, dove tenendo sotto controllo i sintomi si permetterà al paziente di vivere una vita il più possibile normale (Guarino, 2006).

Dunque di cancro si vive e spesso si guarisce, ma le possibilità di guarigione e l’esito positivo del decorso della malattia sono rapportati, non solo al coinvolgimento attivo del paziente ma soprattutto alla necessità di considerare il cancro in una visione ampia e multiforme del problema. La neoplasia si organizza, infatti, come l’elemento scatenante di una crisi globale, di una trasformazione dell’ambiente psicologico e dell’ambiente sociale, tale da determinare un clima paralizzante d’isolamento e assumendo un significato di minaccia alla propria esistenza, integrità, identità e ruolo. Quando arriva il cancro, occorre “allacciare le cinture”, come recita il titolo del film di Ferzan Ozpetek: perché la diagnosi di tumore irrompe nella vita di una persona come una tempesta in un mare calmo, come un fulmine a ciel sereno.

Il rischio è di venire completamente travolti da questo evento traumatico, che non costituisce una vicenda esclusivamente personale: esso riguarda infatti la totalità dei sistemi sociali in cui l’individuo è coinvolto ed in prima istanza la sua famiglia.

Qualunque sia la diagnosi, la prognosi, la risposta alle terapie, non esistono tumori di limitato rilievo. Il cancro rappresenta sempre per il paziente e per la sua famiglia una prova esistenziale sconvolgente.

In analisi di tutto ciò, affiora chiaramente l’esigenza che i modelli terapeutici tengano conto dell’unità della persona malata (mente-corpo), nonché della necessità per ciascun individuo di essere curato in tutti gli aspetti della patologia. Secondo tale prospettiva, le ricerche in campo psiconcologico, contribuiscono a rappresentare con maggiore sensibilità le reciproche influenze tra malattia organica e disagio psicologico.

La psiconcologia si propone infatti di promuovere approfondimenti teorici e applicativi clinici mediante il contributo di differenti discipline: la medicina oncologica, la psicologia e la sociologia. Il fine della psiconcologia è sostenere un processo di cura, complessivamente inteso del paziente neoplastico, attraverso un approccio multidisciplinare.

Il sostegno psicosociale rappresenta un elemento costitutivo del trattamento del paziente oncologico e rientra nelle responsabilità di ciascuna figura terapeutica: del medico di medicina generale, del medico oncologo, dell’infermiere, dello psichiatra e dello psicologo, dell’équipe curante nel suo complesso.

Gli interventi psicosociali in oncologia sono approcci strutturati finalizzati a favorire il corso della malattia e a migliorare la capacità di adattamento psicologico e sociale dei pazienti” (Hurny, Adler, 1989, 20).

La ricerca in psiconcologia, mediante un’analisi del funzionamento sociale e relazionale dei pazienti, permette di indagare su come è stata alterata, a seguito dell’evento cancro, la struttura relazionale del paziente, che include la situazione familiare, la partecipazione ad attività socioculturali e l’organizzazione generale della vita.

Definizione e criteri fondamentali di psiconcologia. Principali campi di intervento.

La psiconcologia si pone come interfaccia da un lato dell’oncologia dall’altro della psicologia e della psichiatria ed analizza in un’ottica transculturale due rilevanti dimensioni legate al cancro (Holland et al., 1990):

  • l’impatto psicologico e sociale della malattia sul paziente, la sua famiglia e l’équipe curante;

  • il ruolo dei fattori psicologici e comportamentali nella prevenzione, nella diagnosi precoce e nella cura delle neoplasie.

La psiconcologia considera l’interdisciplinarietà e l’integrazione disciplinare come requisiti essenziali per la concretizzazione di un sistema di cura che sostenga la globalità dei bisogni del malato; promuovendo un approccio di tipo psicosociale al paziente.

I suoi obiettivi di ricerca e di applicazione clinica riguardano quattro principali settori (Grassi et al., 1996):

  • La prevenzione e la diagnosi precoce. Si tratta di un ambito di studi molto vasto, all’interno del quale collochiamo l’analisi delle variabili psicologiche e sociali capaci di condizionare a vari livelli l’esposizione degli individui a fattori di rischio per le neoplasie e l’analisi delle variabili che interferiscono nella prevenzione e nella diagnosi precoce dei tumori.

  • La valutazione della morbilità psicosociale in oncologia e la sua prevenzione. Qui si inseriscono le ricerche finalizzate ad indagare la prevalenza dei sintomi indicativi di sofferenza psicologica nei pazienti oncologici e nei loro familiari e le eventuali relazioni con diversi fattori: caratteristiche di personalità, strategie di coping, la storia psicologica precedente, il supporto sociale.

  • Gli interventi psiconcologici. Oltre che degli aspetti psicologici che contribuiscono a definire la qualità di vita della persona malata e dei suoi familiari, quest’ambito di indagine e di applicazione si occupa di studiare l’efficacia degli interventi psicoterapeutici, psicofarmacologici e riabilitativi e di analizzarne le caratteristiche.

  • La formazione. Tale ambito riguarda da un lato gli operatori sanitari, con l’obiettivo di proporre nuovi modelli di relazione e più efficaci modalità di comunicazione con i malati e le loro famiglie, dall’altro la preparazione specialistica degli psicologi e degli psichiatri impegnati professionalmente in tale settore.

I principali campi di intervento sono: il paziente, la famiglia e gli operatori.

Le azioni rivolte al paziente riguardano alcuni punti di seguito elencati (Guarino, 2006):

– La comunicazione di prima diagnosi o di recidiva: rappresenta un momento particolarmente difficile da un punto di vista emotivo, sia per il paziente che per il medico. Il primo momento di disorientamento o incredulità può far emergere vissuti individuali o collettivi di “catastrofe”, di “condanna irreversibile”. In seguito, un senso di “rabbia” nei confronti del “destino” o degli operatori può condurre a momenti di ansia, confusione, scarsa aderenza ai trattamenti. La capacità del medico di valutare i momenti, le parole, le reazioni esplicite e no, l’iter e le modalità di comunicazione, dovrebbero avviare un processo di “alleanza terapeutica” atto a migliorare l’aderenza ai trattamenti e attivare le risorse emotive del paziente.

Il sostegno a fronte della trasformazione del corpo: la malattia, ma anche i trattamenti possono modificare l’immagine corporea, con ripercussioni psichiche individuali, familiari e sociali. L’intervento psicologico dovrà avvenire sia in maniera preventiva, con un’adeguata informazione, sia favorendo l’espressione e l’ascolto delle reazioni emozionali del paziente, sia con azioni di sostegno all’elaborazione e alla messa in atto di meccanismi di riorganizzazione.

Il sostegno durante la cure palliative: è importante che il passaggio dal trattamento antiblastico specifico al trattamento palliativo sia graduale, condiviso, conosciuto e accettato dal paziente. Il supporto trasversale all’interno dell’equipe oncologica e palliativista, il supporto dello psiconcologo anche nell’affrontare il dolore, l’attenzione al supporto spirituale saranno volti a confermare la continuità delle cure, a sostenere la famiglia, ad accompagnare il paziente fino agli ultimi momenti di vita.

Il secondo campo d’azione è la famiglia. L’intervento psiconcologico non può prescindere da una valutazione dell’impatto della malattia sul sistema familiare del paziente e verso i caregiver, al fine di attivare risorse di supporto adeguate e favorire un adattamento quanto più adeguato alla nuova situazione di vita (Buckman, 1994).

Le azioni rivolte alla famiglia riguardano:

– l’attivazione di percorsi di supporto verso la famiglia mirati a valutare la qualità del sistema di supporto familiare e sociale dei pazienti;

– fornire supporto psicoeducazionale per preparare la famiglia a svolgere adeguatamente il ruolo assistenziale; fornire consulenze mirate ai caregiver;

– fornire interventi psicoterapeutici a livello familiare, lungo l’intero percorso di cura;

– fornire indicazioni utili all’equipe al fine di favorire una buona alleanza terapeutica con le figure di riferimento coinvolte nel percorso di cura ecc.

Infine, la malattia neoplastica nella sua complessità di approccio genera negli operatori, sanitari e no, un’indispensabile necessità di training psicologico.

Lo psiconcologo, oltre a percorsi di sostegno per pazienti e familiari, individua momenti formativi per gli operatori, la cui risultante dovrebbe essere la migliore percezione del proprio lavoro e delle motivazioni, l’aiuto nella gestione di rapporti emozionalmente pesanti e complessi, il riconoscimento reale e tempestivo dei bisogni del paziente e dell’unità familiare e l’apprendimento di strategie d’intervento ecc.

Accanto a momenti formativi strutturati teorico-pratici è necessario garantire uno spazio periodico e permanente, per la discussione di casi clinici e per il supporto dello stress degli operatori, nell’ottica della prevenzione del burn-out.

Modelli di intervento psiconcologico e obiettivi principali

La specificità della psiconcologia consiste nel suo rivolgersi ad un paziente il cui disagio psicologico non dipende primariamente da un disturbo psicopatologico ma è generato dalla situazione traumatizzante della malattia. Ciò implica il riferimento ad alcuni concetti psicologici fondamentali (Guarino, 2006)

Il concetto di crisi, considerato come “momento di cambiamento”, nell’ambito del quale possiamo distinguere tre momenti:

1. l’esplicitazione del problema (qui troviamo: il cambiamento nel rapporto con se stessi e con gli altri, la consapevolezza della propria vulnerabilità e dell’eventualità della propria morte), che ha il valore di una richiesta di aiuto e testimonia il fatto che le circostanze oltrepassano le capacità di autogestione del problema da parte del soggetto;

2. la mobilitazione della rete sociale prossima al paziente (familiari, curanti);

3. lo sviluppo di un nuovo equilibrio attraverso l’individuazione di soluzioni adattive e l’accettazione del cambiamento.

Il concetto di coping, proposto dalla psicologia cognitiva anglosassone deriva dal verbo inglese «to cope», traducibile in italiano come «far fronte» e viene usato in ambito psicologico per indicare la capacità degli individui di mantenere l’adattamento psicosociale durante periodi stressanti (Holahan, Moos e Schaefer, 1996).

Gli interventi psicosociali sono “quei tentativi sistematici diretti ad influire sul comportamento di coping mediante strumenti educazionali e psicoterapeutici” (Massie et al, 1989, 460) e gli obiettivi generali sono: la diminuzione dei sentimenti di alienazione e di disperazione tramite il confronto con altri pazienti; la riduzione dell’ansia e dello stress relativi alla cura; il superamento della mancanza di informazione e/o della disinformazione; l’incremento dell’adattamento alla malattia, del controllo personale e delle capacità di problem solving.

Sulla base di tali obiettivi gli interventi vengono distinti in (Guarino, 2006):

interventi educazionali che consistono in approcci direttivi, che hanno come principale obiettivo quello di dare informazioni o chiarimenti sugli aspetti medici della malattia, diagnosi e cura, e sugli aspetti psicologici, relativi al coping e agli stati affettivi. Tali interventi possono essere puramente informativi, attraverso l’uso di diapositive, videocassette, dépliant e opuscoli, oppure includere tecniche cognitive e di problem solving finalizzate alla gestione dello stress e delle modalità di adattamento alla malattia. L’approccio educazionale si rivolge principalmente ai pazienti con diagnosi recente di cancro, ma può essere anche diretto ai familiari o al personale sanitario;

interventi psicoterapeutici sono rivolti ai pazienti e ai familiari e si avvalgono di metodi psicodinamici e di investigazione per esaminare e comprendere le reazioni emozionali. Mentre gli interventi educazionali possono essere forniti da diverse figure operanti in ambito oncologico (psicologi/psichiatri, infermieri, volontari ed ex-pazienti), gli interventi psicoterapeutici sono di competenza specifica di professionisti della salute mentale, psicologi e psichiatri, con formazione psicoterapeutica.

Dopo il cancro: interventi psicologici di prevenzione e aspetti psicosociali

Circa 25 milioni di persone nel mondo convivono con un tumore in fase di cura o di remissione oppure considerato cronicizzato o guarito. In Europa, l’attenzione è stata prevalentemente rivolta alla sopravvivenza a lungo termine e sono stati definiti “lungo sopravviventi” quanti hanno superato da almeno tre o cinque anni la fase dei trattamenti e dei controlli più stretti. La letteratura internazionale riporta che il 70-80% delle persone con un passato oncologico ha una qualità di vita non inferiore a quella delle persone che non hanno vissuto questa esperienza; tra esse, una percentuale elenca effetti positivi: rinnovata spiritualità, maggiore autostima e positività, maggiore valorizzazione delle relazioni con gli altri ecc. Tuttavia, il restante 20-30% riporta una lista di effetti negativi, tardivi o a lungo termine, in conseguenza di malattia e trattamenti (Tamburini et al., 2000, ).

Una diagnosi di tumore rappresenta certamente un trauma, una fonte di stress di grande entità e oltre a determinare una reazione immediata, per il suo protrarsi a lungo nel tempo può favorire l’instaurarsi di un disagio più duraturo, dando come esiti talvolta dei sintomi psicopatologici di vario tipo.

Si tratta, in effetti, di un evento in grado di superare le capacità adattive dei soggetti coinvolti e le loro usuali abilità di coping. Le ospedalizzazioni frequenti, le procedure mediche e i trattamenti dolorosi, le limitazioni fisiche e le restrizioni nella vita sociale, si pongono come ulteriori fonti di stress e pertanto di rischio psicopatologico.

I fattori di rischio sono quegli elementi del comportamento individuale, dell’ambiente sociale e della risposta interpersonale in cui la loro assenza non esclude la comparsa della malattia, ma la loro presenza aumenta notevolmente il rischio di malattia (D’Alessio et al., 1995).

Se, dunque, è utile conoscere i fattori di rischio e le loro possibili conseguenze, è altrettanto importante conoscere la competenza e la vulnerabilità del soggetto oncologico, al fine di aumentare la sua resilience, competenza intrinseca del paziente o favorita da fattori ambientali protettivi.

Con il termine resilience si fa riferimento alla “capacità di recupero come risposta interna di una persona ad affrontare le situazioni difficili della vita e la cui assenza viene generalmente definita sindrome di «Charlie Brown» che consiste in un sentimento di impotenza che fa sentire il soggetto incapace di controllare le situazioni e quindi alla continua ricerca di aiuto e sostegno” (Schettini, cit. in Iavarone e Iavarone, 2004, 49).

A livello individuale agire in un’ottica preventiva vuol dire innanzitutto riconoscere le potenzialità del soggetto e le sue risorse, sostenerle e rafforzarle: gli interventi saranno cioè mirati all’empowerment personale. Quando la terapia volge al termine, possono presentarsi manifestazioni di orgoglio e gioia, al confine dell’euforia, ma anche ansia e paura delle recidive (Eiser, 1994).

In questa fase di sospensione della terapia, la vita può raggiungere un certo equilibrio, ma ad esempio all’interno di una famiglia, la percezione reciproca dei membri di questa e molte loro abitudini, vanno ricostruite. La realtà della malattia continua comunque ad essere presente. Il rapporto con gli altri può essere difficile: parenti e amici possono allontanarsi di fronte alla paura della morte o per l’imbarazzo di non sapere cosa dire: questo può portare a un senso di delusione, di isolamento e di ritiro. Altri sentimenti frequenti sono il senso di inadeguatezza per il futuro e allo stesso tempo la difficoltà di integrare il passato.

Oggi di cancro si può vivere e sempre più a lungo. Ma come può essere vissuta la vita da chi ha alle spalle una diagnosi di cancro? La necessità di doversi occupare anche degli aspetti umani e psicologici della persona che si trova ad affrontare una delle esperienze tra le più destabilizzanti, sta diventando un obiettivo fortemente e concretamente condiviso da pazienti, medici e psicologi che riconoscono le potenzialità di questa preziosa integrazione della “cura della malattia” e della “cura della persona”.

Interventi di assistenza psicologica, programmi riabilitativi e strategie preventive, compresi adeguamenti negli stili di vita (nutrizione, esercizio fisico, astensione da fumo e alcool), devono accompagnarsi a servizi di tipo informativo e assistenziale anche riguardo ad aspetti lavorativi o assicurativi.

Apportare modifiche ristabilendo un’attenzione verso il proprio benessere fisico, psico-emotivo e relazionale, tenendo aperto il canale della comunicazione; riconoscersi in un corpo cambiato, rivivendo con serenità la propria sessualità, sono i primi passi per riconquistare la “normalità” perduta.

Il bambino malato e il suo vissuto nel reparto oncologico

I tumori infantili sono piuttosto rari, ma negli ultimi anni si osserva un notevole aumento del numero dei bambini e di adolescenti che si ammalano di tumore.

Contemporaneamente, però, la mortalità per questo tipo di patologia diminuisce sempre più grazie ai progressi dell’oncologia pediatrica, quella branca della medicina che si occupa dello studio e della cura dei tumori in pazienti di età compresa tra i 0 e 20 anni. La percentuale delle guarigioni supera oggi il 60-70%.

Negli ultimi trent’anni, l’acquisizione di nuovi farmaci, il miglioramento delle strategie terapeutiche e i progressi della terapia di supporto hanno migliorato la prognosi di molti tumori pediatrici. Una delle differenze tra il cancro dell’adulto e le neoplasie infantili è proprio la migliore risposta al trattamento da parte di quest’ultimo. Il tumore, dunque, non è più una malattia senza speranza di sopravvivenza per i bambini che ne sono colpiti, piuttosto è una malattia con rischio di morte, ma con possibilità di cura (Peyron, 1996).

Le fasi della malattia: problematiche psicologiche

Una diagnosi di tumore provoca una crisi esistenziale. La prima reazione è per lo più di shock e sgomento, spesso un vero e proprio trauma, seguito poi dal bisogno di riorientamento. I primi cenni di stress compaiono già con i primi sintomi e con i primi sospetti di malattia (Spencer et al., 2001).

Secondo la teoria di Piaget il concetto di malattia evolve con lo sviluppo del concetto di causalità. Per i bambini di 2-6 anni la malattia è dovuta a un fenomeno naturale o a oggetti vicini: il meccanismo causale sottostante perlopiù non è esplicitato oppure è espresso in termini magici e fiabeschi. Inoltre, la condizione di malattia può essere vissuta come un evento aggressivo esterno, talora conseguente a colpe reali o fantastiche: nel piccolo alberga la convinzione che ogni trasgressione, anche se fatta segretamente, è soggetta a punizione (Satta, 1989). Infatti, fino ai 6-7 anni qualsiasi affezione accompagnata da dolore fisico viene vissuta come proveniente dall’esterno, non localizzata all’interno dell’organismo.

Vi è nella mente di molti bambini la credenza, fermamente radicata, che le malattie siano autoindotte, ben meritata punizione per ogni sorta di cattiverie, disobbedienze, trascuranza delle regole, delle proibizioni, di illecite pratiche fisiche. (…) Mentre tali rappresentazioni errate, pur suscitando turbamento, possono restare di scarso significato per il bambino fisicamente sano, diventano importanti per il bambino gravemente malato, poiché minano la sua forza di combattere la malattia creando un atteggiamento falso, masochistico e morbosamente passivo verso la sofferenza” (Freud, Bergman, 1974, 62).

La malattia sconvolge l’esistenza del bambino a partire dalle sue abitudini quotidiane e dal rapporto con le figure di riferimento. I frequenti e lunghissimi periodi in ospedale, le restrizioni spesso conseguenti ai trattamenti, riducono le opportunità del bambino di socializzare, giocare, esplorare e sviluppare le relazioni con gli altri (Eiser, 1994).

Alcuni autori (Di Cagno et al., 1986) hanno identificato atteggiamenti più comuni nelle varie fasi della malattia. Ad esempio, abitualmente la comunicazione della diagnosi porta ad una regressione del bambino e, in particolar modo della madre, ad un rapporto simbiotico. Il piccolo paziente diventa sempre più insicuro a seguito dell’ospedalizzazione, dei trattamenti e del dolore fisico, cercando così una maggiore protezione nel caregiver. In questa fase, si instaura spesso una forte dipendenza che può manifestarsi con il rifiuto del cibo e con il bisogno di essere lavato, vestito, imboccato, ecc. (Di Cagno, Ravetto, 1980).

In base a ciò si è notato che bambini di età inferiore ai quattro anni sopportano meglio la malattia, in quanto la regressione conseguente è per loro più consona. Per i bambini di età maggiore, dopo un’aggressività iniziale, si manifestano l’accettazione e la regressione.

In tema di accettazione da parte del piccolo malato, ampiamente dibattuta, è l’informazione da dare al bambino circa la propria malattia e la sua evoluzione. Come affermato anche da Last e van Veldhuizen (1996), il diritto del bambino di essere informato, sebbene riconosciuto come principio dell’oncologia pediatrica, non è ancora entrato nella pratica clinica. Questi ricercatori hanno dimostrato che i bambini che hanno ricevuto, durante la fase iniziale della malattia, più informazioni riguardanti la diagnosi e la prognosi sono significativamente meno ansiosi e meno depressi. Come evidenziato da Barakat et al. (1995), il tentativo degli adulti di proteggere il bambino non informandolo è comunque fittizio.

I bambini percepiscono la gravità della situazione sentendosi ingannati e talvolta, continuando a fingere di non sapere nulla per proteggere i genitori. Nella fase della remissione dei sintomi vi è un calo dell’ansia e un ritorno alle attività abituali, ma spesso si sviluppano meccanismi di difesa verso il futuro, vissuto come incerto. L’equilibrio ottenuto con la remissione si spezza nel momento in cui la malattia ricompare (recidiva). Così la speranza di guarigione medica scompare, il bambino si sente ingannato e utilizza spesso come capro espiatorio le figure genitoriali. Nella fase terminale anche il bambino molto piccolo percepisce che sta per morire. Egli può dimostrare la sua consapevolezza sia direttamente sia attraverso il gioco, sperimentando una profonda perdita di controllo e ritraendosi dal mondo esterno. In questo momento l’irritabilità è una reazione comune, infatti il bambino può parlare molto poco e volere evitare ogni contatto fisico. Per questo è ancora più indispensabile la vicinanza della figura materna, che rassicuri il bambino che non verrà abbandonato e che sarà fatto il possibile per difenderlo dal dolore e dalla solitudine (Satta, 1989).

Lo sviluppo cognitivo del bambino durante e dopo la malattia

Il bambino con malattia oncologica è molto spesso costretto a lunghi periodi di ospedalizzazione, isolamento e deprivazione. Gran parte della maturazione cerebrale avviene durante il primo e il secondo anno di vita. La lunga ospedalizzazione in questo periodo può provocare una limitazione delle esperienze che impedisce al bambino quasi tutte le attività quotidiane esplorative sensomotorie necessarie alla sua età. Anche per i bambini più grandi può verificarsi una situazione di privazione collegata ad esempio alla scarsa frequenza scolastica (Adduci, Poggi, 2011).

I trattamenti a cui il bambino viene sottoposto, inoltre, possono avere importanti effetti collaterali che incidono anch’essi sulle sue funzioni cognitive. Nonostante il livello intellettivo resta preservato si possono osservare specifiche difficoltà attentive e delle funzioni esecutive, in bambini affetti da leucemia, trattati con chemioterapia. Ad esempio un trattamento di lunga durata con steroidi, può provocare deficit cognitivi e neuropsicologici, causando spesso difficoltà rilevanti che necessitano un intervento riabilitativo (possono trattarsi di problemi di: memoria, di comprensione di testi scritti, di calcolo matematico e di memoria di cifre.

Gli studi che analizzano il funzionamento cognitivo si concentrano su pazienti off- therapy e sopravvissuti, anche se tuttavia alcuni di essi hanno dimostrato che alterazioni delle funzioni cognitive sono osservabili già durante il trattamento (Scrimin, 2004).

In generale il QI nei sopravvissuti a lungo termine è entro i limiti normali, tuttavia la radioterapia cranica, l’età alla diagnosi e la presenza di recidive rappresentano fattori di rischio. Nello studio delle singole funzioni si è riscontrato che le aree maggiormente compromesse sono l’attenzione, la comprensione, l’abilità aritmetica, la memoria visiva e verbale, il ragionamento causale e la coordinazione visuo-motoria (Benedito Monleone et al., 2000).

I problemi neurocognitivi più comuni legati al tumore e ai suoi trattamenti sono i deficit dell’attenzione. Questo dato ha importanti implicazioni dato che i processi attentivi sono essenziali per l’apprendimento e secondo recenti studi sono associati anche a un peggiore adattamento emotivo e sociale (Lai, 2002).

L’impatto psico-sociale del cancro sui pazienti e le loro famiglie

La patologia oncologica colpisce non soltanto l’individuo che ne è affetto, ma anche i membri della famiglia. Infatti la famiglia è il luogo delle relazioni affettive più strette e la comparsa o la presenza di una malattia cronica di questa gravità la sconvolge immancabilmente. La situazione generata dalla malattia tumorale comporta una serie di crisi associate ai primi sintomi, alla diagnosi, alle cure, al ritorno a casa, alla fase terminale e alla morte. Da un lato la famiglia si confronta con la paura, con la tristezza, con l’alternarsi di momenti di speranza e di disperazione; dall’altro essa costituisce un’organizzazione dinamica e strutturata, caratterizzata da una ripartizione di ruoli e di responsabilità (Razavi, 2000).

All’inizio la diagnosi di cancro getta la famiglia in una crisi emotiva acuta. Questa crisi è scatenata principalmente dalla minaccia di perdere un congiunto e dalla rimessa in discussione dei fantasmi d’immortalità del paziente e della sua famiglia (Cohen et al., 1981).

La maggior parte delle famiglie riesce a far fronte alla diagnosi di tumore malgrado la sofferenza prodotta. La qualità dell’ambiente è importante: un ambiente familiare caratterizzato da coesione e da un basso livello di conflitti si accompagna a un livello di sconforto meno elevato e ad una migliore capacità di adattamento dei suoi membri rispetto a una famiglia caratterizzata da legami distanti e da un elevato livello di conflitti.

Il paziente oncologico in stato di sconforto, in un ambiente familiare caratterizzato da relazioni che non danno sicurezza, non si sente né accettato, né confortato. Sembra inoltre che i parenti in generale si concentrino sulle proprie emozioni, tenendo il malato a distanza o adottando comportamenti critici e di controllo nei suoi confronti. In un contesto di relazioni rassicuranti, invece, si possono sviluppare una modalità di comunicazione chiara e coerente, una condivisione della preoccupazione e una percezione comune della realtà. Queste caratteristiche favoriscono una relazione partecipativa di fronte ai cambiamenti che la malattia richiede (Razavi, 2000).

La figura dello psicologo nel reparto di oncologia pediatrica

L’assistenza e la cura in oncologia implicano l’individuazione di tutti i bisogni del paziente, che non sono esclusivamente medici, ma anche psicologici, relazionali, sociali e spirituali. Soprattutto in ambito pediatrico, anche se lo scopo principale è la guarigione dal tumore, non si può perdere di vista l’obiettivo a più lungo termine che è lo sviluppo, al più alto livello possibile, del bambino (Di Maggio, 2006).

È sempre complesso entrare in ospedale, in un reparto. L’unità operativa rimanda sempre l’immagine di ciò che è tecnico, oggettivo: i valori, gli esami, gli interventi chirurgici; bisogna essere pratici, veloci, non bisogna perdere tempo. Lo psicologo proviene da un’altra dimensione, il luogo dove il tempo deve esserci anche se non c’è, il luogo dove si crea lo spazio mentale, il luogo dell’attesa nella ricerca dei significati (Di Maggio, 2006).

Ferenczi afferma che “per la medicina, con la sua divisione in tanti settori specialistici, l’ammonimento della psicoanalisi di curare in ogni forma di malattia non solo la malattia, ma anche il malato, è stata una vera benedizione; il principio è sempre stato riconosciuto, ma raramente messo in pratica per mancanza di un adeguato sapere psicologico. Con una certa esagerazione si potrebbe dire che fino a oggi la medicina ha sempre curato il paziente come se questo non avesse niente nella testa e le forze razionali- superiori non intervenissero nella battaglia degli organi contro la malattia” (Ferenczi, 1972).

Il ruolo dello psicologo in un reparto non è per niente facile perché deve affrontare la realtà della malattia e la possibilità effettiva della morte, deve accettare con cognizione la propria inettitudine sulle malattie del corpo, deve sviluppare la capacità di tollerare le situazioni dolorose per continuare a pensare e non agire (Juraga, in Lugones, 2002).

La mente dello psicologo, ma anche la mente degli infermieri e di tutte le figure che operano in reparto, è continuamente esposta a elementi beta e quindi sempre pressata a un lavoro di rielaborazione e trasformazione in una sorta di permanente attività di digestione e di disintossicazione. Spesso infatti lo psicologo incontra, e si scontra talora, con lo stereotipo dello «psicologo immune» ovvero dello psicologo che non soffre, che non ha momenti di cedimento, che non si irrita. E tutto questo proprio «perché è uno psicologo». In realtà questa visione assomiglia molto di più a una sorta di figura idealizzata, una specie di Superman o di Wonderwoman senza macchia e senza paura, senza angosce e dubbi (Di Maggio, 2006).

Il lavoro dello psiconcologo è a più livelli e rivolto a diversi soggetti: l’individuo, il gruppo e le istituzioni. Egli comunica con sanitari e non sanitari, genitori ed eventualmente bambini (Oppenheim, 2003).

Nello specifico, lo psicologo svolge una funzione di: accettazione e adattamento alla diagnosi, facilitando la relazione terapeutica con l’equipe curante; di sostegno alla coppia e di facilitazione del dialogo con il bambino; di sostegno rispetto alla gestione dei rapporti familiari e sociali; di elaborazione del lutto; di collaborazione e di integrazione con l’équipe medica e infermieristica.

Lo psicologo contribuisce, dunque, alla realizzazione di un modello di cura che comprenda l’ascolto, maggiore attenzione alle esigenze personali e alla sofferenza emotiva del paziente, rendendolo più partecipe al proprio percorso terapeutico. Il lavoro col paziente e i familiari, d’altra parte, oltre ad offrire sostegno, favorisce la comprensione delle esigenze terapeutiche (e organizzative), con l’obiettivo di migliorare l’aderenza alle cure e mantenere, per quanto possibile, un’accettabile qualità della vita (Di Maggio, 2006).

La comunicazione: dalla diagnosi al percorso terapeutico in oncologia

Comunicare e comunicazione sono termini che etimologicamente rimandano alla parola latina communis, composta dal prefisso cum, con, indicante lo stare insieme, e munis, cioè svolgere una funzione. Com-munis rimanda a ciò che è comune e condiviso, in opposizione a ciò che è proprius, perciò non condivisibile per sua natura con altri. Nella sua accezione più ampia, come sottolinea Galimberti (1992), il termine viene impiegato in ambiti diversi, quali quelli della biologia, della cibernetica,della etologia, intesa come lo studio del comportamento animale nelle condizioni più prossime a quelle dell’habitat naturale, per indicare lo scambio di messaggi tra soggetti, organismi e macchine (Galimberti, 1992).

Quando si parla di comunicazione, ci si riferisce all’azione di mettere in comune, trasferire o trasmettere dei messaggi che portano ad una reciproca conoscenza e scambio di sentimenti e/o pensieri. Questa può essere esplicita o implicita: essa si realizza anche quando non vi è scopo precostituito, ossia quando non vi è consapevolezza dell’intento di comunicare (Nanetti, 2003).

Quando si parla di comunicazione in oncologia pediatrica si fa riferimento alle interazioni tra staff medico-infermieristico e genitori, tra équipe e bambini e tra genitori e bambini.

È necessario perciò considerare le capacità comunicative, così come l’organizzazione affettiva e le possibilità di comprensione della realtà di ognuno di questi attori.

In un reparto come l’oncologia pediatrica prima ancora dei contenuti risultano cruciali le capacità comunicative degli operatori: un’elevata competenza linguistica che permette di adeguarsi all’interlocutore; l’abilità nel controllare che gli elementi non verbali non creino dubbio o confusione; l’ascolto inoltre, connesso a un atteggiamento empatico, è uno dei mezzi più efficaci per trasmettere un messaggio di accoglimento fisico ed emotivo (Axia, Capello, 2004).

Annunziata (2004) definisce la conversazione come una situazione relazionale che il medico co-costruisce con il paziente, dove l’uno riconosce qualcosa all’altro e dove c’è uno scambio di competenze e ruoli: il medico ha la sua preparazione tecnico- scientifica che il paziente gli riconosce, il paziente ha la sua competenza sui sintomi, sul suo disegno di vita, che il medico deve riconoscergli.

La comunicazione della diagnosi ai genitori del bambino malato

Giungere all’identificazione della malattia rappresenta un momento di svolta per i genitori, tuttavia la comunicazione della diagnosi costituisce un momento particolarmente delicato. In quel momento il medico definisce la patologia, la prognosi e il programma di trattamento. Inoltre la comunicazione può avvenire secondo modalità differenti, in relazione al tipo di malattia, all’età, alla storia differente di ciascuno, alle modalità e ai tempi con cui si è instaurato il quadro clinico.

Per realizzare un colloquio efficace nel momento della comunicazione della diagnosi è necessario tenere conto dei principali vissuti e meccanismi difensivi, sollecitati nei genitori, dalla notizia.

Secondo Eiser (1994), pochi genitori in questo primo momento riescono a porre ulteriori domande, perché non sanno cosa chiedere o credono di non aver capito o, ancora, per paura di mostrare la loro ignoranza. In un secondo momento, invece, essi si preoccupano non solo delle probabilità di sopravvivenza ma anche del futuro possibile in caso di guarigione.

In particolare le madri sono interessate alle complicazioni a lungo termine e a gli effetti collaterali delle terapie, mentre i padri desiderano piuttosto conoscere i dati statistici sulla prognosi.

L’impossibilità medica, di spiegare l’eziologia della maggior parte dei tumori dell’infanzia genera ansie ulteriori e non permette di affrontare e superare i frequenti sensi di colpa. La diagnosi di cancro, infatti, sfida il ruolo di nutrizione e protezione dei genitori e implica perciò “la perdita della propria immagine di genitori in grado di tutelare la vita che hanno generato” (Massaglia, Bertolotti, 1998, 18).

Il percorso emotivo successivo alla comunicazione della diagnosi risulta caratterizzato da tre fasi (Guarino, 2006):

– Lo shock, che rende i genitori incapaci di affrontare la situazione di emergenza. Irrealtà, incredulità e rabbia sono le tre caratteristiche predominanti di questa fase.

– Dopo questo primo momento si realizza l’accaduto e vengono messe in atto strategie d’intervento. I meccanismi di difesa più frequentemente utilizzati sono: la negazione (ostinarsi ad affermare che il problema non esiste), la richiesta di pareri diversi o il tentativo di approfondimento personale.

– Il passo successivo è quello dell’accettazione. L’accettazione della diagnosi di cancro implica la morte del figlio idealizzato e con essa l’abbandono dei progetti su di lui: la dimensione del futuro diventa inimmaginabile, il presente viene completamente occupato da questa realtà. È l’inizio della fase di adattamento e riorganizzazione che conclude il lutto. La collaborazione attiva dei genitori riduce il senso di frustrazione e migliora l’efficacia delle cure.

La comunicazione della diagnosi al bambino malato. La carta di EACH

Comunicare la malattia, naturalmente in rapporto alla reale gravità della medesima, viene frequentemente vissuto come “dare (o ricevere) cattive notizie” e comporta dunque alti livelli di ansia per tutti i partecipanti all’incontro. La “comunicazione della diagnosi” rappresenta, per i pazienti e i familiari, il momento conclusivo di un iter più o meno breve, spesso carico di ansia per l’attesa dei risultati degli accertamenti. Chi ha il compito di definire la diagnosi e chiarire i vari ambiti terapeutici e prognostici può trovarsi in difficoltà ad affrontare tali ansie, o provare egli stesso emozioni profonde, non sempre consapevoli o riconoscibili. Tale momento si configura dunque come assai delicato, soprattutto in ambito pediatrico, ove quasi sempre il rapporto col paziente è mediato dai genitori e i sentimenti e le emozioni, che gli appartengono, a volte sembrano difficilmente accessibili. Letteratura ed esperienza clinica evidenziano quanto sia determinante una comunicazione sincera con il paziente e con i genitori e quanto ciò sia fondamentale per lo stabilirsi di un rapporto di fiducia e l’avvio dell’alleanza terapeutica. Il diritto dei genitori a essere informati riguardo la diagnosi e la prognosi della malattia del loro bambino è ormai consolidato, diversamente dal diritto del bambino stesso, nonostante sia stato riconosciuto dal 1988 con la stesura della Carta di Each – European Association for Children in Hospital.

La carta di EACH riassume in 10 punti i diritti del bambino in ospedale (Guarino, 2006):

  1. il bambino deve essere ricoverato in ospedale soltanto se l’assistenza di cui ha bisogno non può essere prestata altrettanto bene a casa o in trattamento ambulatoriale;

  2. il bambino in ospedale ha il diritto di avere accanto a sé in ogni momento i genitori o un loro sostituto;

  3. l’ospedale deve offrire facilitazioni a tutti i genitori che devono essere aiutati e incoraggiati a restare. I genitori non devono incorrere in spese aggiuntive o subire perdita o riduzione di salario. Per partecipare attivamente all’assistenza del loro bambino i genitori devono essere informati sull’organizzazione del reparto e incoraggiati a parteciparvi attivamente;

  4. il bambino e i genitori hanno il diritto di essere informati in modo adeguato all’età e alla loro capacità di comprensione. Occorre fare quanto possibile per mitigare il loro stress fisico ed emotivo;

  5. il bambino e i suoi genitori hanno il diritto di essere informati e coinvolti nelle decisioni relative al trattamento medico. Ogni bambino deve essere protetto da indagini e terapie mediche non necessarie;

  6. il bambino deve essere assistito insieme ad altri bambini con le stesse caratteristiche psicologiche e non deve essere ricoverato in reparti per adulti. Non deve essere posto un limite all’età dei visitatori;

  7. il bambino deve avere piena possibilità di gioco, ricreazione e studio adatto alla sua età e condizione, ed essere ricoverato in un ambiente strutturato arredato e fornito di personale adeguatamente preparato;

  8. il bambino deve essere assistito da personale con preparazione adeguata a rispondere alle necessità fisiche, emotive e psichiche del bambino e della sua famiglia;

  9. deve essere assicurata la continuità dell’assistenza da parte dell’équipe ospedaliera;

  10. il bambino deve essere trattato con tatto e comprensione e la sua intimità deve essere rispettata in ogni momento.

La diagnosi è certamente una linea di divisione che separa il prima e il dopo e catapulta il bambino in una realtà irreversibilmente alterata.

Se da un lato l’impatto che la comunicazione della diagnosi e della prognosi può avere sul bambino è un fattore da non trascurare, dall’altro è ormai provato che «non dire» non protegge il bambino, ma anzi lo rende più vulnerabile, perché lo lascia solo di fronte allo sconvolgimento e all’angoscia.

Barakat et al. (1995) sottolineano che il bambino malato che non chiede informazioni sulla sua situazione e il suo futuro, spesso, con questo atteggiamento sta proteggendo i suoi genitori dall’angoscia, anche se appare inconsapevole della sua condizione.

Nella situazione di non comunicazione ogni intervento terapeutico, in quanto improvviso e non spiegato, è sentito come intrusione aggressiva che scatena vissuti persecutori nei confronti dell’ospedale e dei medici.

A differenza, il personale medico e infermieristico che riesce a comunicare col bambino sostiene di poter seguire meglio i piccoli pazienti che conoscono la malattia (Massaglia & Bertolotti, 1998). Certamente il contenuto dell’informazione va adeguato all’età dell’interlocutore, alle caratteristiche della sua personalità alla fase e alle caratteristiche della malattia. Inoltre, nella comunicazione con il bambino, bisogna anche considerare la sua maturità cognitiva ed emotiva, la struttura e il funzionamento della famiglia, il background culturale e la storia di eventuali precedenti separazioni (Axia, 2004).

La comunicazione della diagnosi va pensata come un processo che richiede tempo: nell’informare il paziente, il medico non deve modificare o tradire la realtà, ma deve avere presente quali sono gli aspetti più utili e quali quelli più traumatizzanti per il paziente.

La verità parte da una realtà obiettiva, che è la malattia del paziente, ma la conversazione deve adattarsi alla personalità di quel paziente, riempiendo gli spazi lasciati vuoti dai dati “freddi” della patologia (Annunziata, 2004).

Gli sconvolgimenti emotivi, soprattutto nell’infanzia, sono difficili da combattere, perché alimentati dalla confusione tra pericoli reali e pericoli immaginari. Per questo è necessario lavorare su due fronti (Guarino, 2006):

  • da una parte la realtà può essere chiarita informando il bambino in maniera completa e onesta, nei limiti della sua comprensione sulla situazione cui andrà incontro;

  • dall’altra, il bambino deve essere guidato verso una disposizione d’animo tale da poter verbalizzare le fantasie terrorizzanti, così da potersi rassicurare, onde diminuire la confusione e ridurre il potere degli elementi inconsci deformanti.

Un bambino malato si sentirà pronto a raccontare le sue perplessità e le sue paure solo dopo che avrà visto un adulto affrontare per primo l’argomento con lui (Capurso e Rocca, 2001).

Le attività ludiche e gli interventi distrazionali in oncologia

Il gioco è un’attività particolarmente importante per il bambino, così come lo è il disegno, poiché attraverso questi strumenti può esprimere se stesso, le sue emozioni, i suoi vissuti. Questi strumenti vengono a rappresentare un materiale ancora più prezioso, quando si lavora con bambini che vivono disagi e sofferenze profonde. In questo il proporre attività ludiche nei reparti ospedalieri ha due importanti finalità: offrire la possibilità di trascorrere il tempo in maniera piacevole e usufruire dell’opportunità di esprimere pensieri, dubbi, preoccupazioni legate all’età, ma anche all’esperienza difficile e dolorosa che tali pazienti si trovano a vivere (Di Maggio, 2006).

Come spiega Gamba, “il gioco è un bisogno fisiologico, nella misura in cui lo si considera come una naturale espressione di quel lavoro di «digestione», di assimilazione e accomodamento che il bambino fa intorno alle sue esperienze (1998, 144). Inoltre il gioco può essere un’occasione di socializzazione: giocando può conoscere coetanei, ma anche avvicinarsi ai medici e agli infermieri, ma soprattutto nel momento del gioco il bambino può essere se stesso, perché è certo di non venir giudicato.

L’organizzazione del gioco in ospedale deve prendere in considerazione diverse aspetti (Guarino, 2006):

  • Spazio. L’ideale sarebbe avere delle vere e proprie ludoteche all’interno del reparto, spazi esclusivamente dedicati al gioco.

  • Tipologie di gioco. Si possono organizzare giochi di gruppo e di movimento anche con materiale sanitario, che ha una forte valenza educativa e può coinvolgere tutto il reparto.

  • Accortezze legate alla malattia. Lo stato di salute del singolo e le limitazioni cui deve attenersi regolano la tipologia dei giochi proponibili e il grado di coinvolgimento raggiungibile (Bronzino, Russo, 2001).

  • Figure professionali. Il gioco non deve essere considerato solo un’attività di svago, ma anche una possibilità educativa e per questo deve essere controllata dall’adulto. In questo contesto si inseriscono gli interventi distrazionali, cioè quelle attività organizzate e svolte da figure professionali, finalizzate a favorire la rifocalizzazione cognitiva del bambino davanti all’ansia, allo stress, alla paura o al dolore.

Questi interventi, che possono essere considerati come tecniche dinamiche e non interventi specialistici di psicoterapia, sfruttano diversi canali sensoriali e possono assolvere funzioni diverse a seconda del mezzo utilizzato.

Comicoterapia: l’utilizzo dell’ironia e della comicità in ambito ospedaliero, specialmente pediatrico, è una realtà ormai consolidata anche in Italia. Secondo Bruschettini et al. (2001) l’humor è un modo per guardare la realtà con occhi diversi e un modo per riconsiderare le nostre esperienze. In questo senso dovrebbe diventare uno stile di vita: la comicità proietta una luce nuova sui problemi della vita quotidiana, fornendo una nuova percezione di ciò che accade.

Arte-terapia: in questa attività la relazione paziente-operatore si realizza attraverso la mediazione di un prodotto grafico che traduce le sensazioni del suo autore. Inoltre, si facilita il contato con il proprio corpo e si permette al bambino di sperimentarsi attivo e competente.

Musicoterapia: l’uso creativo della musica e degli elementi musicali (armonia, melodia, ritmo, timbro) per affrontare i bisogni fisici, emotivi, psicologici e spirituali di persone di tutte le età.

Pet-therapy: indica una serie complessa di utilizzi del rapporto uomo- animale in campo medico e psicologico. Nel contatto tra l’animale e la persona trattata avviene uno scambio di stimoli e di emozioni, facilitato dal fatto che non è necessario il linguaggio verbale. Nel caso di interventi con bambini le attività ludiche e ricreative organizzate in compagnia e con lo stimolo degli animali, il dare loro da mangiare, il prenderli in braccio per accarezzarli, hanno lo scopo di riunire i bambini, farli rilassare e socializzare.

Bambini guariti: la condizione di sopravvissuti

«E vissero felici e contenti». Non è sempre così, neppure dopo aver sconfitto draghi e streghe cattive. I giovani adulti sopravvissuti a un tumore infantile, secondo alcune ricerche, si prendono ancora poca cura della propria salute e fanno più fatica dei loro coetanei a trovare una posizione sociale, un buon lavoro, un amore duraturo. Colpa degli strascichi di terapie abbastanza pesanti da aver salvato loro la vita, colpa a volte, di un trauma mai superato e di un sistema sanitario distratto.

Nell’ambito della letteratura riguardante l’adattamento allo sviluppo della malattia, il tumore rappresenta un evento traumatico, e i sopravvissuti sperimentano ripetutamente condizioni di forte ansia relativa sia alla malattia che alla terapia medica. Si possono manifestare alcuni sintomi della PTSD (Sindrome post- traumatica da stress), dall’evitamento dell’esperienza tumorale, alla sua intrusione nelle attività quotidiane, fino ad arrivare all’ipervigilanza. La tendenza a fuggire l’esperienza tumorale può portare a costruire una visione breve del futuro, con atteggiamenti nei sopravvissuti a non considerare e non esplorare scelte alternative. Stuber et al. (1997) hanno riportato che il PTSD tra i sopravvissuti ai tumori pediatrici è stato identificato da valutazioni retrospettive della terapia descritta come “spaventosa” e minacciosa per la vita, dal livello generale di ansia, dalla storia di altre esperienze stressanti e dal sostegno sociale. Numerosi studi hanno indicato che i sopravvissuti al cancro pediatrico hanno subito delle discriminazioni a livello lavorativo, sono stati scartati dall’esercito e hanno avuto minore successo nel lavoro, soprattutto per quanto riguarda le donne (Zebrack et al.,2002). I sopravvissuti al cancro hanno frequentemente modificato i loro obiettivi scolastici e lavorativi, hanno ripetuto l’anno, hanno saltato giorni di scuola ed hanno avuto altri problemi scolastici e di apprendimento (Gray et al.,1992).

Altri ricercatori si sono incentrati sull’impatto a lungo termine che il trattamento tumorale ha sullo sviluppo dell’identità e sul concetto di sé. Madan- Swain et al. (2000) hanno evidenziato che i sopravvissuti adolescenti mostravano maggiori possibilità degli adolescenti in salute di palesare un’identità ostacolata, caratterizzata da un’accettazione a priori di valori e credenze proposti da adulti significativi senza una iniziativa indipendente nella scoperta di punti di vista diversi.

Cure palliative: quando muore un bambino

Gran parte della società in cui viviamo compie un grosso sforzo per ignorare la realtà della morte. Le domande dei bambini sulla morte sono, invece, frequenti e naturali; d’altra parte le favole, i cartoni animati e i giochi fanno spesso riferimento alla morte. Per assurdo, mentre la morte virtuale entra costantemente nella vita dei bambini, si fa di tutto per allontanarli dalla morte reale impedendo loro di partecipare e prepararsi emotivamente a questi momenti, dolorosi quanto inevitabili (Santrock, 2006).

I bambini sotto i 2 anni non sanno cosa sia la morte, ma rispondono in modo emotivamente intenso alle separazioni e agli stati emotivi negativi dei genitori. In età prescolare, invece, credono che la morte sia uno stato temporaneo e reversibile. Ed infine per i bambini in età scolare il concetto di morte si sviluppa parallelamente a quello di vita: la morte è da loro percepita come evento reale e permanente, anche se essi sono incapaci di rendersi conto della propria mortalità (Barakat et al., 1995).

La scomparsa di un bambino è una delle più grandi tragedie della vita di una persona e in particolar modo, ovviamente, di un genitore. Nel caso di una patologia oncologica essa sopraggiunge al termine di un periodo molto lungo, che ha richiesto adattamenti continui tanto al bambino quanto alla famiglia.

Durante la fase terminale, quando anche i bambini più piccoli sono consapevoli dell’avvicinarsi della morte, la comunicazione aperta e il coinvolgimento più possibile attivo, oltre al mantenimento di una buona rete di contenimento, possono aiutare il piccolo paziente ad affrontare il distacco imminente e il dolore totale. Con la locuzione “dolore totale” si fa riferimento alla sofferenza non solo fisica, ma anche psicologica, emotiva, spirituale, culturale e sociale, sperimentata tanto dal paziente che dalla sua famiglia (Guarino, 2006).

È in questo momento che interviene l’équipe di cure palliative. Questa non può evitare il verificarsi della morte, ma è responsabile di rendere il più possibile sereno e libero da sofferenze questo passaggio, attraverso un efficace controllo dei sintomi fisici e ponendo attenzione ai bisogni esistenziali, emotivi e sociali del bambino e dei suoi familiari.

Le cure palliative nella fase avanzata di una malattia rappresentano una risposta ai due atteggiamenti estremi nell’approccio terapeutico: l’accanimento e l’abbandono terapeutico. La prima difficoltà per un operatore è accettare la realtà della mortalità di un bambino. E ad essa si aggiunge il dover accettare che la propria possibilità di curare sia limitata. D’altra parte, per il genitore, è ancor più incomprensibile e inammissibile accettare la morte del proprio bambino. Il rischio, amplificato dal dato della maggior curabilità dei tumori dell’età evolutiva a livello statistico, è in questi casi di rifiutare l’ineluttabilità della morte intraprendendo percorsi terapeutici fino agli ultimi giorni di vita, perdendo di vista «cosa è meglio per il bambino». Questo perché, nel pensiero comune, la morte precoce è una morte contro natura, è una mostruosità a cui non ci si può rassegnare in quanto rappresenta per noi il fallimento di uno dei compiti più importanti che ci spettano: prendersi cura e far crescere un bambino. Un bambino è il nostro investimento sul futuro, l’unica vera consolazione del nostro stesso dover morire. La sua morte perciò è per noi un doppio scacco (Moneti, 2004).

Morire non è, come crediamo spesso, un evento assurdo, privo di senso. Molte cose possono essere ancora vissute, su un terreno più sottile, più interiore: il terreno della relazione con gli altri. Ecco perché la morte mi colpisce, perché mi permette di puntare dritto al cuore dell’unica domanda: che senso ha la mia vita? Così, dopo anni di assistenza a coloro che definiamo «moribondi» e che invece sono vivi fino all’ultimo, mi sento più viva che mai e lo devo a coloro che ho accompagnato negli ultimi istanti e che, nell’umiltà in cui li ha precipitati la sofferenza, si sono rivelati maestri” (De Hennezel, 1996, 68).

Conclusioni

Dalla stesura della tesi emerge chiaramente che il cancro rappresenta a livello sociale l’archetipo della malattia mortale e pertanto determina un particolare disordine emotivo ed esistenziale non solo in chi ne viene colpito, ma anche nelle persone che svolgono una funzione di supporto e di assistenza. Tale malattia si configura come una profonda minaccia che pone pesanti preoccupazioni e incertezze sul futuro, soprattutto se l’innocente colpito è un bambino.

In questo caso non c’è genitore che, messo di fronte alla diagnosi di tumore, non si chieda se in qualche modo è responsabile della malattia del figlio, e questo vale soprattutto se si è perso tempo, magari sottovalutando segni o sintomi che col senno di poi sarebbero potuti essere interpretati come l’esordio.

La comunicazione della malattia, con il conseguente ingresso in ospedale, rappresenta per il bambino una fase molto critica, non solo perché si trova a dover affrontare qualcosa che non conosce, e di cui non sempre viene messo a conoscenza, ma anche perché improvvisamente la sua quotidianità viene sconvolta. I frequenti e lunghissimi periodi in ospedale, le restrizioni spesso conseguenti ai trattamenti, riducono le opportunità del bambino di socializzare, giocare, esplorare e sviluppare le relazioni con gli altri (Eiser, 1994).

Non bisogna dimenticare che un bambino malato è prima di tutto un bambino ed è per questo che l’importanza di un approccio globale, di un’attenzione al prendersi cura, e non solo a curare, è prioritaria in oncologia pediatrica. Questo significa che l’équipe medico-infermieristica e i genitori, insieme a tutti coloro che ruotano intorno a un bambino malato, devono cooperare per preservare il più possibile l’infanzia con tutte le sue caratteristiche (Guarino, 2006).

Guarire da un cancro in età pediatrica è possibile per sei bambini su dieci, in media, ma solo a condizione che tutto funzioni al meglio, non si commettano errori, si aderisca a regole, tempi e modi. Tutto ciò diventa possibile quando la fiducia dei genitori e del bambino nei confronti del team incaricato per le cure, si sviluppa secondo linee armoniche. Serve un team che si allei alla famiglia e rispetti il bambino, conosca il mondo delle emozioni che si scatenano nel processo di cura, sappia contenere e prevedere, sia aiutato a elaborare.

La qualità della relazione di cura può consentire al bambino di sentirsi una persona in uno scambio autentico fondato sulla sincerità e sulla fiducia con l’équipe curante o, al contrario, può facilitare il sentimento di essere ingannato, di essere considerato solo una “malattia da curare” e non un individuo nella sua interezza.


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