Il paradosso dell’esistenza: madri che uccidono


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Il presente lavoro si propone di analizzare il feno­meno del figlicidio. Si vuole fare una distinzione tra infanticidio, figlicidio e neonaticidio, ricorren­do a quanto affermato dagli articoli del Codice Penale.

Per comprendere il fenomeno si farà riferimento agli studi di Philip Resnick (1969), uno tra i prin­cipali studiosi in merito all’argomento. Il suo pun­to di vista sarà integrato con i contributi di altri studiosi, come Bramante (2005) e Craig (2006).

La riflessione si sviluppa a partire dal periodo del­la maternità. Tale periodo è spesso idealizzato e considerato idilliaco. “Comunque avvenga il con­cepimento e quale che sia il destino del neonato, la gravidanza è un’esperienza squisitamente fem­minile” (Leff, 1993, 10). A tal proposito, questa esperienza rappresenta, sicuramente, una fase di sviluppo per la donna ma, allo stesso tempo, un momento di crisi, capace di rendere traballante il senso della propria identità. Bibring (1959) parla di crisi maturativa, un punto di svolta irreversibile nel ciclo vitale di una donna. Tale crisi, però, ha una doppia valenza, da una parte può comportare l’acquisizione di un livello più maturo di integra­zione, dall’altra può portare ad un’estrema vulne­rabilità, con impliciti rischi di distorsioni psicopa­tologiche (Ammaniti, 1995).

Lo studio si basa su una serie di interrogativi: Cosa spinge una madre ad uccidere il proprio fi­glio?” “Esistono dei fattori di rischio che si posso­no anticipare e un profilo tipo di queste donne? “È possibile attuare degli interventi preventivi?” “Quali sono le terapie e i programmi di rein­serimento sociale per queste madri?”

In riferimento a tali interrogativi l’obiettivo che si intende perseguire è quello di fornire una panora­mica degli studi che hanno preso in esame tale fe­nomeno, delineandone le caratteristiche salienti e ricorsive. Inoltre, iscrivendo tale fenomeno all’interno dell’esperienza della gravidanza e della maternità, un ulteriore scopo è quello di mettere in luce alcune linee guida alla base di interventi preventivi che possano accompagnare costruttiva­mente l’esperienza della maternità, nonché di in­terventi di reinserimento di chi ha già fatto espe­rienza di un tale crimine.

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L’opinione comune vede la gravidanza come un periodo scontatamente felice. In realtà, una visio­ne realistica dei fatti presuppone di guardare alla gravidanza come un momento di crisi e, come ogni crisi che posa definirsi tale, impone la riorganizzazione di una nuova identità, quella ma­terna.

Stern (1995) fa notare che “l’assetto materno” emerge gradualmente durante la gestazione e nei mesi successivi al parto. In diverse ricerche, Stern ha chiesto ad alcune donne quando hanno comin­ciato a sentire di essere diventate mamme, presup­ponendo che la risposta più frequente sarebbe sta­ta quella relativa al momento del parto. In realtà, lo studioso arrivò alla conclusione che la maggior parte delle donne “diventa mamma” nell’arco di diversi momenti: la nuova identità può sbocciare in un qualunque momento durante la gravidanza, per stabilirsi con maggiore precisione dopo la na­scita del bambino e continuando a svilupparsi an­che dopo diversi mesi dalla gravidanza, “quando la mamma si rende conto di essere diventata tale ai suoi occhi” (Stern, 1995, cit. in Consoli, 2016, 4).

Il diventare madri necessita di uno specifico “la­voro della maternità” (Benvenuti, Rossi Monti, Pazzagli, 1981) che comporta per la donna una serie di compiti psicologici, relazionali e pratici. La donna deve confrontarsi con l’immagine della propria madre, con il rapporto con il padre, con il partner, con il suo corpo, con la sessualità e con la procreazione. Tutto ciò genera uno stato di crisi che può portare a nuovi e più maturi equilibri, op­pure a gravi fratture del precedente equilibrio.

Il cammino della gravidanza non è uguale per tut­te le donne ma è un percorso fortemente indivi­dualizzato che dipende dalle caratteristiche sog­gettive, dall’ambiente familiare e sociale che cir­conda la donna, oltre che dal suo sistema di cre­denze.

Lo stato psichico della maternità, spesso, rischia di restare nascosto o soffocato dal monitoraggio sanitario-preventivo che accompagna tutta la gra­vidanza, periodo durante il quale si costruiscono i fondamenti della futura relazione madre-bambi­no” (Pazzagli et al, 2011, 5).

Therese Benedek (1956) definisce la gravidanza come un evento psicosomatico che genera modifi­cazioni sia fisiologiche che psicologiche. In termini psicodinamici, le neo-mamme, in questa fase di vita, rivivono il processo di separazione-individuazione dalla madre e sperimentano una duplice identificazione con la madre e con il feto: sono, allo stesso tempo, figlie delle loro madri e madri dei loro figli.

Leff (1983) ci parla di gravidanza come “vicenda interna”, dando voce al punto di vista soggettivo della futura madre e individuando tre stili materni che influenzano la relazione madre-bambino:

  • Stile della facilitazione: la gravidanza vie­ne considerata il momento culminante dell’identi­tà materna. Per questo motivo la donna è disposta a sacrificare la propria realizzazione personale e professionale per il nascituro;

  • Stile della regolazione: la gravidanza è un fastidio necessario per avere un bambino. La don­na riduce al minimo i cambiamenti nel proprio sti­le di vita e vuole affermare ad ogni costo la pro­pria indipendenza;

  • Stile della reciprocità: la donna è consape­vole dell’ambivalenza e delle contraddizioni inte­riori tipiche della gravidanza. Questo stile si col­loca in una posizione intermedia tra i primi due. La donna sarà felice dell’attesa ma proverà anche dei rimpianti e delle paure per i cambiamenti ine­vitabili che l’attendono.

È importante precisare che i tre stili non sono ca­ratteristiche fisse della personalità ma si basano sullo stato attuale della realtà psichica della futura madre (Leff, 1983).

Ammaniti et al. (1995) definiscono tre categorie delle rappresentazioni materne:

  • Rappresentazioni materne integrate/equi­librate: la futura mamma possiede un quadro ric­co e coerente della propria esperienza della gravi­danza, riesce a mantenere un senso di sé stabile e definito e mostra una buona capacità di adattarsi al cambiamento;

  • Rappresentazioni materne ristrette/disin­vestite: la futura madre mantiene un forte control­lo di sé, affrontando la gravidanza con una certa piattezza emotiva;

  • Rappresentazioni materne non integrate/ambivalenti: la futura madre non riesce ad organizzare la propria esperienza in un quadro comprensibile e comunicabile. Presenta un forte coinvolgimento emotivo ma con emozioni contra­stanti di gioia oppure di rabbia e depressione.

Anche i cambiamenti fisici e ormonali contribui­scono allo sviluppo del nuovo “assetto materno”: molte donne sono soggette a brusche cadute di progesterone che le rende vulnerabili ad un umore mutevole. I mutamenti che coinvolgono l’imma­gine corporea possono rappresentare un fattore di rischio per l’acquisizione dell’identità materna: tanto più sono rapidi i cambiamenti fisici e tanto più inibiscono una corretta elaborazione dell’immagine corporea.

Soprattutto nella fase post-parto, la donna prende consapevolezza della sua mutata forma fisica e teme che il cambiamento sia irreversibile (Mian, 2015).

Gli “altri significativi” per la futura mamma sono di vitale importanza: al partner spetta il compito di sostenere il percorso della gravidanza, favorire la relazione madre-bambino, attraverso il soste­gno alla propria compagna, l’accudimento e la collaborazione.

Al ruolo che svolge il padre nel contribuire alla creazione di un clima tranquillo e confortevole, si affianca quello degli altri familiari, che con la loro presenza, le loro parole e i loro comportamenti, possono fornire disponibilità e supporto alla cop­pia.

Fondamentale è il compito delle donne della fami­glia: madre, suocera, zie, cugine più anziane che devono accompagnare la futura madre nelle emozioni totalmente nuove e, a volte, destabiliz­zanti che sta vivendo.

L’interazione di tutti questi elementi può portare allo sviluppo dinamico della nuova identità mater­na o a brusche rotture psicopatologiche.

La letteratura classifica tre forme psicopatologi­che relative alla gravidanza e alla maternità.

Il maternity blues è considerato uno stato di reatti­vità emozionale, relativamente lieve e a risoluzio­ne spontanea. Insorge 2/3 giorni dopo il parto, si risolve spontaneamente entro le prime due setti­mane successive al parto e si manifesta con un’incidenza del 50-80%.

La madre può sentirsi affaticata, in ansia, inade­guata rispetto al proprio ruolo.

Sebbene la sintomatologia possa essere dolorosa non si riflette sulle capacità della mamma di pren­dersi cura di sé e del proprio bambino (Di Paolo, 2016). Tuttavia, “nelle donne affette da maternity blues rispetto a quelle non affette è stato riscon­trato un rischio di sviluppare depressione postpar­tum di 3.8 volte maggiore” (Reck et al., 2009 cit. in Anniverno et al., 2010, 7).

La depressione post-natale (DPN) è considerata dal DSM-5 (2014) come un episodio depressivo maggiore che si verifica entro le prime quattro settimane successive al parto. Si può manifestare a diversi livelli di gravità: lieve, moderata o gra­ve.

Tra i sintomi tipici di questa manifestazione psi­copatologica troviamo: marcata perdita di interes­se per quasi tutte le attività quotidiane, faticabili­tà, mancanza di energia, sentimenti di autosvalu­tazione, sensi di colpa, ricorrenti pensieri di mor­te, incapacità di pensare e concentrarsi.

La depressione post-partum colpisce il 10-15% delle donne durante il primo anno di vita del bam­bino, con maggiore frequenza 4-6 mesi dopo il parto” (Anniverno et al. 2010, 19).

La psicosi puerperale è la più grave delle forme psicopatologiche del post-parto ed è considerata un insieme di psicosi funzionali innescate dalla maternità (Caroti et al. 2007). Insorge tra il primo giorno e la sesta settimana di post-partum, verifi­candosi nello 0,1-0,2% delle donne in gravidanza.

La psicosi puerperale rappresenta a tutti gli effetti un’emergenza psichiatrica (Anniverno et al. 2011). “Un elevato rischio di suicidio e figlicidio persiste quando il focus dei deliri e delle allucina­zioni è sul bambino, percepito dalla mamma come un’entità malevola e minacciosa” (Stone et al. cit. in Anniverno et al. 2011, 20).

Lo scarso contatto con la realtà, inoltre, fa sì che la donna non riconosca di avere una patologia grave e, non di rado, rifiuta il trattamento.

Figlicidio, infanticidio, neonaticidio: definizio­ne e aspetti giuridici

Nessun crimine come l’omicidio di un figlio da parte della propria madre lascia così inermi. Come può l’atto d’amore per eccellenza e, cioè quello di dare vita, essere infranto da un atto dia­metralmente opposto ed innaturale che, invece, la vita la toglie? In sostanza come si può annientare ciò che si è generato, ciò che è sangue del proprio sangue?

Infanticidio! Sogno o son desto? È davvero pos­sibile un tale atto? Accade veramente? Accade questo crimine inaudito […] Nessun essere uma­no in senno uccide la carne della propria carne”. È così che Johan Heinrich Pestalozzi (1779) apre la sua opera Sull’infanticidio (edizione italiana, 1999, 5).

Lo stesso autore motiva il gesto con la mancanza di senno. Ci troviamo, però, di fronte ad un feno­meno complesso e variegato: limitarsi a parlare di malattia mentale è riduttivo, aggrava il rischio di stigmatizzazione ed etichettamento e fornisce una letture dei fatti superficiale (Pestalozzi, 1999).

Molto spesso, si tende a dimenticare che si tratta di donne lasciate sole con le proprie paure e, an­che se circondate da familiari e amici, questi sono assenti dal punto di vista affettivo, ignorando e minimizzando i vissuti della mamma.

Come punto di partenza, occorre, quindi, fare una distinzione tra i vari termini che nel gergo comu­ne, spesso, sono usati in modo intercambiabile.

Neonaticidio, infanticidio e figlicidio sono tre categorie di delitti molto diverse sotto il profilo giuridico, sotto l’eventuale psicopatologia dell’autore e sotto il profilo della relazione tra au­tore e vittima” (Consoli, 2016, 5).

Il termine infanticidio dal latino Infantis e cidim o caedium, significa l’uccisione di chi non ha an­cora l’uso della parola, indicando, quindi, l’ucci­sione del feto durante la gravidanza o subito dopo il parto” (Di Blasio, 2016, 14).

L’articolo 578 del Codice Penale parla di “infanti­cidio in condizioni di abbandono materiale e mo­rale” e afferma: “la madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il par­to, o del feto durante il parto, quando il fatto è de­terminato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusio­ne da quattro a dodici anni”. L’articolo 578 del Codice Penale, quindi, considera la colpevolezza della madre in misura attenuata rispetto all’omici­dio (Di Blasio, 2016), per il quale sono previste pene non inferiori ai 21 anni, e attribuisce alla condotta infanticida il limite temporale relativo a quello stato di turbamento emotivo che segue il parto. Il figlicidio, tradizionalmente, nella cultura giuridica, indica l’uccisione del figlio da parte di un genitore, sia esso padre o madre (Mergazora Betos, 1999).

Il figlicidio è considerato un aggravante dell’omicidio semplice (Articolo 575 del Codice Penale): esso viene contemplato come fattispecie penale di omicidio aggravato dal legame di paren­tela” (Consoli, 2016, 3).

Infine, in criminologia si applica un’ulteriore di­stinzione con il neonaticidio che ricorre nell’immediatezza della nascita (Di Blasio, 2016). Esiste, inoltre una variante dell’infanticidio, defi­nita feticidio quando l’uccisione avviene durante il parto (Consoli, 2016).

L’infanticidio, deve essere letto in un’ottica del tutto slegata rispetto agli sfondi politici, sociale e culturali della società che guardano a queste don­ne con disprezzo.

L’associazione generale dell’infanticidio con il crimine, la malattia dopo il parto, la popolazione e la selezione del sesso parla di ingiusta discrimina­zione nei confronti delle donne e dei bambini. Noi, come società globale, siamo in grado di fare di gran lunga un lavoro migliore per proteggere la maternità” (Spinelli, 2005, 24).

Oltre l’istinto materno, le cause scatenanti

Le motivazioni che portano una donna e una ma­dre a commettere il più orribile tra i crimini vanno dalle più banali e inquietanti (madri che uccidono i figli perché colpevoli di aver rovinato il proprio corpo) a quelle più complesse (donne che ripro­pongono sui loro piccoli le violenze che esse stes­se hanno subito).

Tra le cause principali troviamo:

  • Relazioni primarie: una “madre buona” ha avuto essa stessa una buona madre che ha saputo trasmetterle il sentimento della maternità. Nei casi di madri che hanno compiuto un figlicidio questo non avviene ma, al contrario, queste donne speri­mentano sentimenti di diffidenza, perdita della sti­ma di sé, immaturità cronica che interferiranno nella relazione con il proprio figlio (Consoli, 2016). Nei casi più tristi si tratta di madri vittime loro stesse di violenze e abusi durante l’infanzia che ripetono sul proprio figlio ciò che esse stesse hanno subito. Queste donne non riescono a perce­pire il figlio per come realmente è, proiettano su di lui sentimenti di odio e rancore, nutriti, in real­tà nei confronti del “genitore cattivo”;

  • Psicopatologia: depressione con progetto di suicidio allargato, disturbo paranoide, disturbo schizo-paranoide, disturbo borderline sono tra le psicopatologie più acute di cui può soffrire la donna al momento dell’atto. Difficilmente l’infan­ticidio appartiene alla sfera della depressione post-partum;

  • Abuso di sostanze: l’assunzione o l’asti­nenza da sostanze può provocare irritabilità, ecci­tazione, stati depressivi e/o disforici. Nei casi in cui viene fatta una doppia diagnosi di malattia mentale e di tossicodipendenza si possono scate­nare scompensi psicotici, come eccitazione ma­niacale, deliri, allucinazioni che possono culmina­re nell’atto infanticida;

  • Eventi di vita stressanti: la mamma può trovarsi ad affrontare episodi di perdita, separa­zione, allontanamenti di persone significative, de­cessi in famiglia, mutamenti economici, insorgen­za di malattie… Queste situazioni altamente stres­santi si verificano pochi mesi prima del delitto ma non sono in rapporto causale diretto con l’atto in­fanticida.

Analisi psicologica del fenomeno: le motivazio­ni

Nivoli (2002) elenca alcune tra le motivazioni principali:

  • L’atto impulsivo delle madri che sono so­lite maltrattare i propri figli: le Battering Ma­thers possono reagire alle urla e ai pianti dei figli in maniera impulsiva e aggressiva, arrivando an­che a percuoterli mortalmente. Spesso, si tratta di donne con disturbi di personalità, in associazione a scarsa intelligenza e a situazioni familiari alta­mente problematiche;

  • L’agire omissivo delle madri passive e ne­gligenti nel ruolo materno: queste madri vivono le esigenze del bambino come qualcosa che com­plica drammaticamente la loro vita. Sono donne che possono manifestare chiari sintomi psicotici. Il bambino muore per essere trascurato in quelle che sono le sue esigenze fondamentali (es. ali­mentazione insufficiente);

  • Le madri che trasformano i loro figli in capri espiatori di tutte le loro frustrazioni: ci sono donne, affette da malattie mentale, che per­cepiscono il bambino come fonte di frustrazione e come un vero e proprio persecutore;

  • Le madri che prodigano cure affettuose al figlio ma in realtà lo stanno uccidendo solamen­te: ci sono madri che cercano di ottenere a tutti i costi l’attenzione di medici I figli di queste donne vanno incontro alla morte per le gravi lesioni pro­vocategli, ad esempio usando una terapia farma­cologica allargata e somministrando ai bambini farmaci che sono stati prescritti a loro stesse (Ni­voli, 2002, cit. in Cavallone, 2016). Si parla di “Sindrome di Munchhausen per procura” ed è molto difficile individuare donne affette da questa sindrome perché alla presenza di altri si mostrano estremamente affettuose.

La classificazione di Philip Resnick

Philip Resnick nel 1969 ha operato una delle più importanti revisioni della letteratura sul figlicidio. Egli ha raccolto 155 riferimenti pubblicati tra il 1751 e il 1967. Lo studioso fu il primo a coniare il termine “neonaticidio”, per descrivere l’uccisione di un neonato entro le 24 ore di vita (Friedman, Horwitz, 2005). Grazie a questo lavoro ambizio­so, Resnick ha sviluppato una classificazione del figlicidio, basandosi sulle maggiori motivazioni sottostanti all’agito materno, suddividendole in 5 categorie:

Nel figlicidio altruistico la mamma vuole salvare il proprio bambino da sofferenze acute causategli da gravi patologie. In casi del genere si parla di “omicidi compassionevoli” che vanno distinti da quelli “pseudo-compassionevoli” dove la madre uccide un figlio bisognoso di cure particolari per liberarsi da un penoso e grave fardello; Nel figli­cidio psicotico la madre agisce sotto l’influenza di un grave disturbo psicopatologico che compor­ta un distacco dalla realtà. Nella maggior parte dei casi, i figlicidi psicotici vengono commessi senza che ci sia premeditazione: queste mamme manife­stano deliri, solitamente, entro un giorno dal reato (Bourget, Grace, Whitehurst, 2007).

Resnick (1969), inoltre, ci parla di figlicidio del “bambino non voluto”. In questo triste caso, la madre non desidera il bambino e non riesce a sta­bilire un legame con lui. La donna agisce con lu­cidità e collega la gravidanze e la nascita a eventi traumatici della propria vita.

Nel figlicidio accidentale il bambino muore per le lesioni inferte dalla madre. “La madre affetta dalla sindrome del bambino maltrattato (Battered Child Syndrome) è abitualmente avversa alle vio­lenze sul figlio ma ne causa la morte in occasione di un gesto impulsivo” (Mastronardi et al. 2012, 14).

Infine, nei casi di figlicidio vendicativo la madre vuole vendicarsi dei torti, reali o presunti, subiti dal partner. Il bambino viene visto come un “arma vendicativa” con cui far soffrire il padre, soprat­tutto dopo le separazioni conflittuali.

Un identikit”

Bramante (2004) ha condotto uno studio su 80 pe­rizie effettuate dal 1967 al 2003 sull’intero territo­rio italiano. Grazie al suo interessante studio, pos­siamo ricavare un profilo delle donne che uccido­no i propri figli:

  • La fascia di età con la percentuale maggio­ri di casi è quella che va dai 18 ai 32 anni, per poi decrescere;

  • Si tratta di donne con un basso quoziente intellettivo correlato ad un basso livello di istru­zione: il 42% delle donne figlicide ha conseguito solamente il diploma di scuola media inferiore e il 25% di queste donne si è fermata all’istruzione elementare;

  • Il 58% delle donne che commette il crimi­ne sono casalinghe (spesso per imposizione del partner);

  • Nel 52% dei casi la vittima non ha né fra­telli né sorelle;

  • Il 74% di queste donne al momento dell’uccisione è affetta da disturbi depressivi, il 55% da psicosi e l’11% da sindrome dissociativa. Tuttavia una buona percentuale di figlicidi (29%) viene compiuto in assenza di uno specifico distur­bo mentale;

  • Nel 69% dei casi nella storia pregressa di queste donne vi erano stati episodi allarmanti;

  • Il 35% delle madri figlicide nel periodo precedente al delitto ha subito ricoveri per tentato suicido o tentato omicidio del figlio.

Fattori di rischio

  • Condizione socioeconomica bassa: Di­versi studi rivelano una relazione tra il figlicidio materno e lo stress dovuto alla condizione econo­mica (Haaoasalo, Petaja, 1999, cit. in Friedman e Horwitz, 2005). Spesso, si tratta di madri che vi­vono in condizioni di isolamento sociale, sono economicamente svantaggiate, non hanno un la­voro e si occupano esclusivamente dei figli;

  • Scarso sostegno parentale: sono madri single che vivono con genitori o altri parenti ma in un contesto di scarsa o assente comunicazione. Hanno ricevuto un’educazione rigida, improntata sugli ideali religiosi condivisi dalla famiglia (Green, Manohar, 1990, cit. in Craig, 2004). Se­condo Resnick (1969), avere un figlio illegittimo è una delle ragioni principali per cui una donna nubile arriva a commettere un crimine così atroce come il neonaticidio.

  • Vittime di abusi e violenze: spesso, si tratta di madri negligenti e abusanti, che hanno problemi di dipendenza e abusi di sostanze e che in passato sono state esse stesse vittime di abusi e violenze.

L’infanticidio: aspetti statistici in Italia

Secondo uno studio del professor Vincenzo Ma­stronardi (2012), docente di psichiatria presso l’Università La Sapienza di Roma, dal 1970 ad oggi, circa 500 bambini in Italia sono stati vittime della furia dei genitori.

Cavallone (2008) nella sua ricerca osserva che, nelle donne rispetto agli uomini è nettamente pre­valente il reato di figlicidio e infanticidio: Nel caso specifico di figlicidio nel 18% dei casi il de­litto è commesso dal padre mentre nel 54% dei casi sono le madri a commetterlo. Nei casi di in­fanticidio, invece, nel 37% dei casi l’atto è stato commesso dalla madre.

Solo nel 3% dei casi, i figlicidi materni sono com­messi con un’arma di cui si servono più comune­mente i padri.

Un dato rilevante è l’età delle piccole vittime: in più della metà dei casi le madri uccidono i neonati o i figli entro l’anno di vita. Le vittime da 0 a 6 anni sono state uccise dalle madri nel 90% dei casi. Le piccole vittime sono prevalentemente ma­schi, sia nei casi di figlicidio materno, sia in quel­lo paterno.

Nel 4% dei casi la madre che commette l’atto è minorenne.

Per quanto riguarda il comportamento successivo al delitto, nel 13% dei casi si assiste ad un suici­dio da parte della madre e nel 19% dei casi ad un tentativo di suicidio.

Nel 39% dei casi la madre presenta una malattia mentale, in particolar modo, nel 61% dei casi è affetta da depressione e nel 13% dei casi sono ri­portate delle psicosi.

La maggioranza degli infanticidi avviene nel Nord Italia con il 48.9% dei casi, segue il Centro con il 24.3%, Il Sud con il 17.8% e, infine, le Iso­le con il 12% (Cavallone, 2008).

La prevenzione primaria

I risultati delle ricerche più recenti sui programmi di prevenzione hanno messo in luce la necessità di andare al di là di una definizione troppo ristretta di prevenzione, sottolineando l’esigenza di adotta­re e pianificare interventi che includano la preven­zione della salute e il miglioramento delle compe­tenze genitoriali, al fine di ridurre i fattori di ri­schio e di aumentare quelli di protezione (Amma­niti et al. 2007). Nell’evento della nascita sono coinvolte almeno tre dimensioni: medica, relazio­nale e intrapsichica (Basiliotti, 2016 cit. in Bec­ciu, Colasanti). La prima negli ultimi anni ha as­sunto un’importanza crescente riportando ingenti risultati nella lotta alla mortalità. La dimensione medica è estremamente importante, soprattutto se si prendono in considerazione gli studi di Craig (2004), secondo i quali il 95% delle donne che commette infanticidio partorisce in casa e solo il 15% di queste riceve cure prenatali. Alla dimen­sione medica, è importante associarvi anche quel­la relazionale e quella intrapsichica per poter ga­rantire, non solo la sopravvivenza fisica della ma­dre e del neonato, ma anche il benessere psichico che emerge dal soddisfacimento dei loro bisogni di sicurezza, condivisione, comprensione, fiducia e contatto (Basiliotti, 2016 cit. in Becciu, Colasanti).

Una prevenzione che possa dirsi efficace deve es­sere accompagnata da una corretta informazione per aumentare la consapevolezza e l’abilità delle donne a riconoscere gli stati emotivi tipici della maternità. Nell’ambito degli interventi preventivi quelli che sembrano essere maggiormente efficaci sono proprio quelli centrati su strategie di tipo educativo che includono lavori sulla genitorialità, sul supporto e sull’ascolto empatico.

Gli interventi preventivi più efficaci prendono in considerazione il contesto relazionale attuale, ma anche altri aspetti, tra i quali l’impatto delle rela­zioni passate del genitore con i propri genitori, così come studiato dalle ricerche sull’attaccamen­to.

Un intervento precoce basato sulla relazione geni­tore-bambino può ridurre lo stress e il conflitto, rafforzando il processo di interazione. Al contra­rio, un conflitto o un fallimento nella relazione bambino-caregiver può causare stress e generare emozioni negative (Ammaniti et al. 2007), portan­do anche a delle conseguenze gravi.

Il supporto psicologico in gravidanza e nei pri­mi mesi di vita del bambino

Secondo secondo Leff (1993), i vantaggi del so­stegno psicologico in gravidanza sono molteplici. È possibile ricevere in trattamento persone che altrimenti non avrebbero chiesto aiuto e, spinte dall’esigenza di essere delle buone madri, posso­no protrarre il trattamento anche nella fase post-natale. Il sostegno in gravidanza può aiutare a sa­nare alcune ferite derivate dall’infanzia e offrire l’occasione per rompere la trasmissione di model­li transgenerazionali disfunzionali, elaborando problematiche che riemergono riacutizzate in que­sto periodo, invece di riprodurle nella generazione successiva.

Inoltre, nell’ambito della prevenzione primaria, vengono in nostro aiuto l’Educazione Perinatale e la Psicologia Perinatale che accompagnano i sog­getti nel delicato passaggio dalla diade alla triade familiare, aiutando i genitori a comprendere il loro ruolo futuro, incrementando la comunicazio­ne nella rete familiare e migliorando l’ambiente che circonda la famiglia.

I primi mesi di vita del bambino sono un periodo che può presentare difficoltà e problematiche, specie se la diade madre-bambino non riceve un sostegno sufficiente. Nei casi in cui emergono queste difficoltà una strategia che si è rivelata molto utile è quella della Home Visitation, collo­qui psicologici domiciliari che aiutano la neo mamma a sentirsi compresa e accolta empatica­mente, rafforzando così il senso di autocontrollo e l’autostima della mamma che potrà così identifi­care in modo adeguato i bisogni del bambino, i segnali emotivi e i comportamenti che mette in atto (Flore, 2016).

Anche la creazione di reti sociali naturali intorno alla mamma si è rivelata una strategia vincente: la formazione di persone vicine chiamate “facilitato­ri” (familiari, amici, colleghi, puericultrici…) rap­presenta un sostegno fondamentale per le neo­mamme in quanto permette loro di affrontare il loro ruolo materno con serenità, superando falsi miti sulla maternità e le aspettative sterili.

Interventi rieducativi per il reinserimento so­ciale: le attività dell’OGP di Castiglione delle Stiviere

A livello riabilitativo, l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere è una struttura moderna e unica nel suo genere in Italia, in quanto basa il trattamento su un percorso riabi­litativo del paziente, più che sulla punizione per il crimine commesso (Calogero et al. 2012). L’OGP di Castiglione ospita 7 madri figlicide, le così det­te “madri Medea” che hanno ucciso i propri figli in preda a gravi patologie mentali.  

Per essere ammesse a all’OGP bisogna rispondere a tre requisiti: queste donne devono essere dichia­rate incapaci di intendere e di volere, giudicate so­cialmente pericolose e aver stabilito un nesso cau­sale tra malattia e reato.

La sua peculiare caratteristica esclusivamente sa­nitaria, senza la presenza di agenti di polizia peni­tenziaria, offre una sistemazione dignitosa ai pa­zienti psichiatrici autori di reato. Gli obiettivi principali dell’OGP sono: il recupero della salute mentale mediante miglioramento clinico dei sintomi, l’attenuazione della pericolosità sociale e una “dimissione sicura”, basandosi sui principi di dignità, rispetto, responsabilità” (Calogero et al. 2012, 137).

L’OGP offre alle sue pazienti terapie di compen­sazione come il lavoro, corsi educativi, formazio­ne lavorativa e corsi ricreativi per sviluppare nuo­ve modalità comunicative, come il teatro e la pit­tura.

Tra gli obiettivi principali dell’OGP vi è il recu­pero della salute mentale, l’attenuazione della pe­ricolosità sociale, la riacquisizione di una certa autonomia psicofisica e un passaggio meno trau­matico possibile nel contesto socio-territoria­le.

Nella scuola dell’OGP si insegnano cose “prati­che”, relative alla vita quotidiana: saper andare in banca, pagare le bollette, imparare a gestire le pic­cole somme di denaro che vengono affidate ad ogni singola paziente.

Il reinserimento sociale avviene in modo del tutto graduale, iniziando con piccoli compiti: fare la spesa, praticare tirocini nei ristoranti o nei negozi, fino ad ottenere un lavoro retribuito.

Particolare attenzione, inoltre, è posta nei con­fronti dei familiari: le visite sono permesse tutti i giorni e si possono consumare insieme i pasti, proprio perché mantenere una rete familiare che funga da sostegno è il primo passo per un lungo e difficile reinserimento sociale (Cavallone, 2008).

CONCLUSIONI

Comprendere una madre che uccide è sicura­mente molto difficile e il movimento che porta verso di lei assai laborioso […] Nella situazione di infanticidio, il bambino muore per non essere esistito nella testa di sua madre, per non essere stato aspettato” (Marinopoulos, 2005, 33-35). Molto spesso, la madre prende coscienza della vita di suo figlio solo dopo la sua morte.

Lo sconcerto che causa tanta violenza è tale da non permetterci spesso un esame critico. “Accet­tare di guardare in faccia con lucidità questi para­dossi materni è un processo illuminante, giusto e necessario, che permetterà al nocciolo duro della maternità di rivelarsi e queste rivelazioni fonde­ranno le nostre azioni e le nostre pratiche sociali” (Marinopoulos, 2005, 36).

Un passo importante è quello di sviluppare un senso di responsabilità collettiva con il quale combattere il giudizio riduzionista che vede que­ste donne come mostri da allontanare necessaria­mente dalla società, arrivando ad una comprensio­ne profonda del fenomeno.

Una prevenzione efficace, infatti, presuppone consapevolezza e conoscenza, non in forma astratta ma fondata su dati reali e attendibili. Pre­venire significa andare al di là dell’immagine di­storta che, spesso, propongono i media.

È vero sono atti imperdonabili ma non bisogna dimenticare che è l’atto ad essere disumano e non la madre.

Riconsiderare la concezione della maternità è, al­lora, un buon passo avanti, abbandonando il mito idilliaco della maternità e aprendosi ad una nuova visione di questa esperienza che porta con sé mo­menti di crisi e di crescita, di gioia e di vulnerabi­lità. Il sentimento della maternità non è affatto scontato: per essere madre non basta mettere al mondo un figlio. La madre deve vivere la propria condizione con senso di sicurezza e fiducia, deve avere alle spalle una storia familiare positiva ed essere circondata da un ambiente sano. “Il bambi­no può nascere alla vita solo se è portato dalla vita” (Marinopoulos, 2005, 37).

Lo scopo di questo lavoro è stato quello di fornire un approfondimento su tale fenomeno nel tentati­vo di suggerire una chiave di lettura diversa da quella che solitamente dà la società o l’opinione pubblica che molto spesso emettono sentenze basandosi su stereotipi e pregiudizi. Solitamente, si trascura il fatto che si tratta di donne che vivono situazioni di sofferenza, di abbandono, di violenze psicologiche, di miseria e solitudine.

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