Uomo e cane: dal legame affettivo agli apporti referenziali sulla salute della persona


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Il presente articolo pone l’attenzione sulla relazione interspecifica, quel tipo di legame che coinvolge individui di specie differente.

In particolare verrà fatto riferimento al cane al fine di definire il possibile contributo alla salute della persona, attraverso il modello biopsicosociale, approfondendo quindi i benefici nelle aeree: biologica, psicologica e sociale.

Verranno in seguito riportate alcune ricerche con i cani per fronteggiare lo stress.

In ultimo partendo dal presupposto che gli animali d’affezione non siano fautori di miracolose guarigioni, si parlerà di Pet therapy, delle tipologie di intervento e possibili campi di applicazione.

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«[…] Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?” “[…] Vuol dire ‘creare legami’[…]”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica al mondo» (De Saint-Exupéry, 2003, 91-92).

Formare legami affettivi e attaccamenti è una particolarità tipica degli esseri umani, sia bambini che adulti, e rappresenta un bisogno profondo che affonda le sue radici nella nostra storia biologica e nell’evoluzione della nostra specie (Hinde, 1982; Ainsworth, 1989; Suomi, 1999).

Come la volpe lascia intendere al piccolo principe: essere in relazione con l’altro sottende un valore unico.

La relazione non è da intendersi unicamente con individui della stessa specie e appartenenti ad un gruppo sociale. Noi esseri umani “Homo sapiens sapiens” condividiamo questo bisogno di stringere legami con molte altre specie animali. I legami affettivi e l’attaccamento si creano tra individui che appartengono alla stessa specie legami intra-specifici ma è possibile, e tutt’altro che infrequente, che questi legami coinvolgano individui appartenenti a specie diverse legami inter-specifici e anche filogeneticamente distanti formando relazioni intense, durevoli e affettivamente significative (Prato Previde, Valsecchi, 2011).

Fino a non molto tempo fa, l’idea di studiare la relazione uomo-animale non veniva considerata per diverse ragioni tra cui il ritenere l’animale come essere irrazionale e come un bene materiale piuttosto che un essere vivente con cui entrare in relazione.

Recentemente la visione è decisamente cambiata ed è nata una nuova disciplina scientifica che propone un nuovo modo di pensare la complementarità di uomo e animale: la zooantropologia.

L’oggetto di studio della zooantropologia riguarda le caratteristiche dell’interazione uomo-animale ed i contributi che l’uomo può ricevere dalla diversità animale (Marchesini, 2005).

Grazie al dialogo con l’animale, l’uomo acquisisce dei contenuti ispirativi referenze capaci di favorire alcuni processi di cambiamento. Parliamo di relazione quando l’interfaccia è dialogica quando tra i due interlocutori si svolge un processo di interscambio (reciprocazione) e una progressione di ruoli, vale a dire quando i due interlocutori si mettono nella condizione di incontrarsi.

La zooantropologia individua un vero e proprio dialogo tra umano e non umano e ritiene che l’uomo abbia costruito gran parte dei propri predicati come la musica, la danza e la tecnica attraverso la referenza eterospecifica.

Sostiene inoltre che la relazione sia multidimensionale e che quindi è importante che vengano analizzati non solo i due termini del rapporto ma anche il tipo di legame che essi instaurano (Marchesini, 2015)

É possibile però che le persone non sempre abbiano piacere di entrare in contatto con l’animale.

A questo proposito la zooantropologia ha studiato e individuato le potenziali disposizioni che il referente umano può avere nei confronti dello stimolo animale. Tra queste troviamo (Marchesini, 2005):

  • La zooapatia, cioè una forma di totale disinteresse verso lo stimolo animale, l’animale è percepito come qualcosa di estremamente irriverente;

  • La zoopoiesi, in cui si assiste ad una tendenza a negligere l’autenticità dell’animale, quindi quest’ultimo non è riconosciuto nella sua diversità e nelle sue caratteristiche specie-specifiche;

  • La zooempatia, propria di quelle persone che nutrono un interesse verso l’altro animale sostenuto dall’accettazione della diversità animale e dalla curiosità di conoscerla nel rispetto delle caratteristiche specifiche;

  • La zoomania, in cui l’interesse verso l’animale è talmente alto che la persona investe tutte le proprie energie affettive e/o relazionali verso il partner non umano;

  • La zoofobia, in cui lo stimolo animale è percepito come un potenziale pericolo;

  • La zoointolleranza in cui la persona percepisce le caratteristiche dell’animale come aberranti e intollerabili provando ribrezzo generale verso tutto il non-umano.

Con lo scopo di evidenziare gli apporti benefici di questa relazione interspecifica, la disposizione della persona nei confronti dello stimolo animale deve essere di carattere zooempatico.

La possibilità di sperimentare nuove disposizioni emozionali e cognitive è data dall’accettazione e la consapevolezza di avere di fronte a sé un essere non-umano. Dal suo canto, riconoscendo l’eterospecifico come un vero e proprio referente, un’interazione corretta ed equilibrata implica anche che l’animale coinvolto accetti, ricerchi e gradisca l’interazione ravvicinata dell’uomo.

La relazione tra uomo e cane è stata studiata non solo con questionari ma anche osservando direttamente il comportamento verbale e non verbale dei proprietari di cani nei confronti dei loro animali (Prato Previde, Valsecchi, 2007). Per fare ciò è stato utilizzato il test della Strange Situation focalizzandosi sul comportamento dei padroni, uomini e donne, e valutando eventuali differenze di genere in condizioni standardizzate e adatte ad attivare comportamenti di attaccamento nel cane e di accudimento nel proprietario.

Il comportamento dei proprietari è stato studiato al momento delle separazioni e negli episodi di riunione col cane, evidenziando diversi comportamenti relativi al gioco, nell’accudimento e conforto e alla comunicazione verbale. Lo studio ha chiaramente dimostrato che i proprietari rispondevano ai comportamenti di attaccamento esibiti dal proprio cane durante le separazioni e le riunioni manifestando accudimento e conforto. Non sono emerse differenze di genere nel fornire conforto fisico (coccolare, accarezzare, tenere vicino ecc.) o nel promuovere il gioco, ma le donne parlavano significativamente di più durante le riunioni e al momento delle separazioni.

Inoltre utilizzavano molto di più il “motherese”, una modalità di comunicazione semplificata e melodica ritenuta tipica degli umani nella comunicazione con i piccoli della propria specie, e che può essere considerata come una forma di comunicazione non verbale che veicola emozioni e affettività piuttosto che specifici significati (Fernald 1994, Monnott 1999, Falk 2004).

Questi risultati hanno avvalorato l’ipotesi che il comportamento dei proprietari sia di tipo parentale e che comportamenti specie specifici (linguaggio compreso) si siano evoluti per proteggere, confortare e calmare i bambini in momenti di stress e paura vengano attivati nell’interazione con altre specie con comportamenti e caratteristiche simili.

Il concetto attuale di salute vede il corpo come un’unità che deriva dalla complessa relazione delle sue parti (fisica, psicologica e sociale) e l’origine della malattia viene definita come una disarmonia della relazione con se stessi, con gli altri e l’ambiente. In un simile contesto, gli animali possono offrire un importante contributo all’uomo, agendo come moderatori tra questa disarmonia e la salute.

Per quanto riguarda i benefici fisici «Diverse ricerche hanno dimostrato che la presenza di un cane interviene favorevolmente sulla pressione arteriosa dell’uomo» (Ballarini, 1995, 149).

Nello specifico Friedmann condusse una ricerca al fine di scoprire le influenze dell’isolamento sociale nel caso di soggetti infartuati. Studiò quindi per un anno, 92 soggetti ricoverati in seguito ad un attacco cardiaco. Analizzando i dati della ricerca notò l’influenza di un fattore: la sopravvivenza all’infarto risultava significativamente correlata alla presenza nell’ambito familiare di un animale domestico. Questa correlazione, inoltre, era indipendente dalla intensità dell’attaccamento e soprattutto dal tipo di animale posseduto.

Nei primi anni ´80 del secolo scorso Katcher, allora ricercatore presso l’Università della Pennsylvania, si preoccupò di studiare l’influenza della presenza di un animale da compagnia sulle variazioni della pressione arteriosa dell’uomo. Attraverso misurazioni in tempo reale provò che accarezzare un cane o un gatto agiva direttamente sul livello di pressione arteriosa dei pazienti. A seguito di una seduta di circa quindici minuti durante la quale il paziente affetto da ipertensione stava seduto ad accarezzare l’animale, si evidenziavano, infatti, abbassamenti significativi della pressione sanguigna.

Friedmann, nel corso di successive ricerche insieme alla sua equipe, scoprì addirittura, che non era affatto necessario il contatto fisico per ottenere gli effetti calmanti, ma bastava che l’animale fosse presente nella stanza e si dimostrasse tranquillo e rilassato, magari intento a sonnecchiare o a lisciarsi il pelo, per innescare nel soggetto umano molteplici reazioni fisiologiche (Friedmann in Ballarini, 1995):

– Diminuzione della pressione sia diastolica che sistolica;

– Regolarizzazione del battito cardiaco;

– Regolarizzazione e distensione della respirazione;

– Rilassamento generale del tono muscolare e nelle espressioni del viso.

La conclusione cui giunsero questi autori fu che, vista l’incidenza dell’ipertensione nei casi dei disturbi coronarici, la presenza di animali domestici o il contatto con essi fosse di grande utilità nel caso di pazienti cardiopatici e potesse essere utilizzata come terapia di supporto a quella farmacologica. Anzi, la presenza di un animale favorirebbe la longevità e diminuirebbe il rischio di patologie cardiovascolari.

Per quanto riguarda invece i benefici psicologici, il cane svolge numerosi funzioni, tra cui:

Rottura delle barriere relazionali e l’insorgere di processi comunicativi soprattutto sul piano non verbale: Vivendo la relazione con il cane abbiamo la possibilità di conoscere meglio noi stessi e di trasferire nelle nostre relazioni interpersonali quanto di buono questa esperienza ci offre. Il rapporto con l’animale diviene lo specchio dei nostri atteggiamenti relazionali per quanto riguarda la capacità di contenerci con la nostra sfera dell’istinto e di individuare emozioni che ritroviamo contestualizzate in tutte le nostre relazioni. «I cani ci ricordano che condividiamo con loro la vita sulla terra, e ci aiutano a riconoscere i nostri limiti, a coltivare l’empatia e la compassione. Il cane esprime le emozioni in maniera autentica e diretta, senza finzioni, e per questo suscita in noi forti e intensi sentimenti» (Bruni, 2009, 91). Il rapporto con il cane ci pone nel presupposto di dover comunicare, nel senso più atavico del termine, sulla relazione, e questo esercizio ci permette di acquisire una maggiore sensibilità emotiva.

Incremento del proprio vissuto di autostima legato al senso di responsabilità e di cura nei confronti di un altro essere vivente; i rituali e le abitudini quotidiane, come passeggiate, cure, alimentazione, accrescono in chi si occupa di un cane un senso personale di responsabilità e di utilità, quindi di autoefficacia. La nostra capacità di offrire cure dipende dalle esperienze vissute nella famiglia d’origine e dal modello di attaccamento acquisito attraverso tali esperienze (Ivi). La relazione con un cane può potenzialmente avere una funzione preventiva circa i problemi di eccessiva timidezza in confronto alle potenziali conseguenze della relazione con un cane: l’individuo timido ha generalmente paura di esprimere le proprie opinioni davanti ad altre persone, non riuscendo così efficacemente a difendere i propri diritti. Di conseguenza il soggetto si trova ad avere pochi amici, in quanto non si apre alle confidenze ed amplia la propria prossemica personale ad un raggio più ampio del consueto (Ibidem). Nel rapporto con il cane questo confine, immaginario e reale allo stesso tempo, svanisce e l’animale viene lasciato accedere alla zona intima (da 0 a 45 cm) in modo totalmente spontaneo e naturale, poiché esso non viene percepito come un intruso, non rappresenta una minaccia alla nostra identità e all’intimità della nostra persona, sia che si avvicini per annusarci, che si strusci sul nostro corpo, chiedendolo di accarezzarlo, o che ci salti a dosso scodinzolando. Il contatto con l’animale è quindi (salvo particolari fobie) un contatto sereno, spontaneo, generalmente ben accetto e corrisposto perchè non può essere frainteso (Ballarini, 1995).

Autenticità del rapporto non mediato da norme sociali o convenzioni; generalmente, le relazioni umane sono caratterizzate da dinamiche guidate da norme che definiscono i comportamenti socialmente attesi e quelli non accettabili. Alcune di queste norme sono abbastanza chiare e sono presentate in modo altamente formalizzato, altre sono più implicite e non sono mai definite in maniera formale. Gran parte del comportamento sociale è caratterizzato da regole precise di gruppo, con il compito di andare a definire quale è il comportamento che la società si aspetta da un individuo e quali sono invece i comportamenti che verrebbero letti come devianti (Pedon, 2011). Il rapporto con il cane si presenta come uno spazio parallelo intimo, in cui la persona può far emergere se stessa, in modo trasparente e autentico e senza la pressione di vincoli ed aspettative da parte del cane. La persona è libera di poter esprimere se stessa e di non sentirsi vincolata dai giudizi e dalle opinioni altrui.

Sostegno emotivo ruolo di ammortizzatori nelle situazioni stressanti, come l’elaborazione di un lutto; tutto ciò avviene principalmente grazie alla potenzialità dell’animale di sintonizzarsi sulle emozioni del padrone. Parliamo, dunque di empatia, cioè, secondo Galanti (2001), della abilità di comprendere il modo di essere nel mondo di un altro dal di dentro, riuscendo ad immedesimarsi nella sua condizione e a penetrare la sua dimensione di interiorità. Come riportato in precedenza, il modo di approcciarsi del cane risulta essere spontaneo e del tutto empatico. Questo modo di approcciarsi del referente animale alla vita, alle persone e all’ambiente circostante rappresenta un importante incentivo che può essere estremamente stimolante nei casi di esperienze emotivamente traumatiche, come il caso di elaborazioni di lutto.

– Sensazione di totale accettazione, manifestazione incondizionata di affetto;

Gli animali vivono sempre nel qui et ora e aderiscono alla loro natura.

Ciò può essere letto come insegnamento alla persona che si trova a condividere del tempo con l’animale in quanto l’atteggiamento di quest’ultimo nei confronti del mondo circostante, può essere di riflesso, funzionale per lo sviluppo e al rinforzamento del senso del sé della persona. I cani possono dunque fungere da facilitatori, per il proprietario della promozione dell’autostima

Il contatto con l’animale ci riconduce ai nostri istinti e ci aiuta ad ascoltare le nostre emozioni, ad avere fiducia nelle nostre reazioni autentiche e a ritrovare una nostra armonia interiore.

Per quanto riguarda i benefici sociali; nel 1975 Mugford e MrComisky, si occuparono di studiare il rapporto uomo-animale, descrivendo la capacità di favorire i contatti tra gli individui posseduta dagli animali da compagnia, definendo questi ultimi «lubrificanti sociali». Qualcun altro li ha definiti «catalizzatori» o «facilitatori» (Ballarini, 1995, 91). Particolarmente rilevanti, gli studi condotti da Messent alla fine della seconda metà del ‘900. La ricerca condotta da questo studioso si divide principalmente in tre fasi distinte, in primo luogo, “Messent ha osservato sette soggetti mentre camminavano lungo un percorso prefissato, nell’Hyde Park di Londra, e nella zona circostante. Queste persone dovevano camminare sullo stesso percorso una volta con i loro cani, una volta senza, mentre il comportamento veniva registrato da osservatori che le seguivano a una distanza di circa dieci metri. Tutte le persone incrociate durante le “passeggiate” erano estranee, poiché i soggetti scelti non frequentavano il parco. Messent ha potuto così constatare l’effetto della presenza del cane sulla reazione dei passanti: solo il 2% delle persone che incrociavano aveva interagito con i soggetti quando questi erano senza cani, mentre quando il cane era presente almeno il 22% delle persone dedicava attenzione al cane e/o al padrone (Ivi).

Dalla ricerca è emerso che la sola variabile che influenzava la durata della conversazione era che le persone incontrate avessero oppure non avessero un cane: Il dialogo con chi possedeva un cane era significativamente più lungo. Viene dunque definita questa caratteristica di facilitazione sociale e si attua quando il cane agisce attraverso diversi meccanismi tra cui troviamo (Ballarini, 1995):

– Novità e Interesse: in un’alta percentuale di casi il cane, il suo movimento e la sua fisionomia solleticano l’interesse, costituiscono un forte stimolo continuo dell’attenzione, perciò un animale attivo può rappresentare un comune punto di interesse.

– Meccanismo Innato: nello stesso modo in cui le caratteristiche del bambino evocano certe risposte universali di attenzione e di premure, piccoli e morbidi animali possono innescare analoghe risposte comportamentali nelle persone

– Azione rompighiaccio: un cane può sollecitare una interazione, per esempio avvicinandosi ad una persona, saltando in braccio a una persona o in generale richiedendo attenzioni, creando così una situazione capace di aprire un varco nella diffidenza della gente.

La parola stress è entrata ormai nel linguaggio quotidiano e rimanda l’idea di una condizione in cui l’individuo è sottoposto per un certo periodo di tempo ad un dispendio di energie, fisiche, psichiche ed emotive superiore al livello considerato da lui accettabile, quindi assume una connotazione negativa. In realtà si differenzia tra eustress e distress: con il primo termine ci si riferisce al grado di stress che non danneggia ma anzi contribuisce a migliorare la salute degli individui mantenendo l’attenzione e la concentrazione, con il secondo invece si fa riferimento ad un accumulo di stimoli stressori che genera una risposta eccessiva sia a livello fisiologico che a livello psichico (Selye, 1974).

Verranno di seguito riportate delle interessanti ricerche che coinvolgono il cane nell’attenuazione dello stress.

In uno studio preliminare pubblicato nella rivista International Journal of Workplace Health Managment (2012), sono state riscontrate delle differenze mettendo a confronto gruppi di dipendenti che portavano i propri i cani in ufficio, dipendenti che non portavano i propri cani e un gruppo che non possedeva cani. Lo studio si è svolto presso la compagnia Replacements, un’azienda dog friendly con sede a Greensboro e 550 dipendenti. Nella sede sono circa venti i cani che sono presenti ogni giorno. Durante la settimana lavorativa, i dipendenti scelti per l’indagine hanno consentito agli scienziati di prelevare loro campioni di saliva. Inoltre, nel corso della giornata compilavano delle schede di indagine. Nella prosecuzione del loro lavoro, i ricercatori hanno confrontato i dati psicofisici relativi a coloro che portano i cani sul luogo di lavoro, con i loro colleghi senza animali, valutandone diversi fattori: stress, soddisfazione, impegno e supporto organizzativo.

I ricercatori, confrontando i livelli di cortisolo presente nei campioni di saliva, hanno notato che si trattava di dati assai diversi. Lo stress, diminuiva considerevolmente nei dipendenti con il cane, ma aumentava per chi non aveva animali, o lasciava a casa il suo amico a quattro zampe. Si è visto che lo stress teneva ascendere se questi decidevano di portarli con se. «Anche se preliminare, spiega Randolph T. Barker, professore di Management e principale responsabile della ricerca, questo studio fornisce la prima misurazione dell’effetto esercitato dai cani dei lavoratori nell’ambiente di lavoro. Questi animali nei luoghi di lavoro possono fare una differenza positiva» (Barker et al, 2012, 17). Inoltre, gli scienziati hanno notato come gli impiegati senza cane cercassero l’animale degli altri, durante la pausa, e cercassero di costruire un rapporto con lui.

Rispetto alle opinioni degli intervistati, i commenti sono stati spesso positivi. Alcuni hanno detto che «gli animali da compagnia nei luoghi di lavoro possono essere un bonus per sollevare il morale dei dipendenti», altri che «è un grande antistress», che «favoriscono e aumentano il lavoro di squadra con i colleghi.

La presenza di un animale si rivela dunque come incentivo al benessere dei dipendenti. Si tratta di un rimedio allo stress immediatamente disponibile, che può «migliorare il livello di soddisfazione organizzativa e la percezione di sostegno» (Barker et al, 2012, 20).

Chi ha detto che passeggiare faccia bene solo al cane?

Lo studio condotto da Campbell e colleghi (2016) dimostra che portare a spasso il cane giova anche alla salute del padrone. Nonostante nella quotidianità sia difficile trovare del tempo per dedicare uno spazio per una passeggiata con il nostro amico a 4 zampe.

In questo studio viene esplorata proprio la percezione della salute e benessere legati alle passeggiate con il cane. Questa indagine è stata condotta in una piccola città universitaria nella Nuova Zelanda con un clima temperato e un numero relativamente elevato di zone per passeggio per i cani. I partecipanti (otto donne e due uomini), di età compresa tra 33 e 55 anni, sono stati inclusi nello studio. Hanno camminato con il proprio cane regolarmente (da zero alle quattordici volte durante la settimana). Sono stati identificati dei temi che corrispondono al “benessere psicologico”: il legame emotivo con il cane, il benessere nella passeggiata con il cane e la riduzione dello stress. Attraverso i seguenti metodi: intervista (19 interviste) e analisi partecipativa.

Il risultato di questo studio è che il legame emotivo tra cane e umano è un importante slancio motivazionale nell’attività fisica e nella riduzione dello stress. Da queste interviste è emerso che trascorre del tempo all’aperto per i partecipanti a questo studio comportava una soddisfazione personale e un senso di motivazione nel rapporto di cura del proprio cane allontanando così pensieri negativi. Mi viene da dire: «Si può fare» spiega una partecipante (Campbell et al, 2016).

Il cane rappresenta fonte di motivazione per gli esseri umani nel camminare con il potenziale beneficio di ridurre la tensione emotiva e lo stress, rafforzando in questo modo il senso di benessere psico-fisico della persona. Una volta fuori per una passeggiata, le interazioni (sia sociali e ambientali) sperimentate hanno contribuito al benessere psicologico e alla riduzione dello stress per la persona.

L’ultimo intervento che ritengo interessante riportare riguarda la valenza della referenza animale nel contesto universitario. Gli effetti dello studio universitario generalmente comportano che lo studente sia assiduamente messo alla prova attraverso esami, prove scritte ed orali, preparazione di tesi, e sappiamo quanto queste situazioni possono arrecare stati di tensione e stress per l’individuo. Lo stress, spesso può arrivare a condizionare negativamente anche i risultati degli esami, poiché l’ansia e la tensione a volte raggiungono livelli tali da inficiare sulla concentrazione e sull’attenzione dello studente. In Scozia è stato promosso un progetto per diminuire lo stress da esami: nella Aberdeen University, per attenuare l’ansia, gli stati emotivi negativi, la tensione, è stata allestita una così detta puppy room, cioè una stanza in cui gli studenti posso passare del tempo accarezzando e giocando con dei cuccioli di cane di svariate razze. L’entusiasmo coinvolgente dei cuccioli funge da potenziale e forte anti-stress, in virtù delle caratteristiche precedentemente esposte, che aiuta i ragazzi a rilassarsi e allentare la tensione accumulata prima degli esami, il tutto nel rispetto anche del benessere dei cuccioli stessi che sono seguiti e salvaguardati da figure professionali. L’affetto incondizionato e travolgente dei cuccioli invade di positività la sfera emotiva degli studenti, i quali possono sentirsi immediatamente sollevati, ritrovare quindi un equilibrio psico-fisico soddisfacente.

(www. thenationalstudent.com, 2013).

Il coinvolgimento dell’animale in ambito clinico è stato spesso considerato quasi del tutto marginale, catalogato come appartenente a un mondo fantastico e di appiglio emotivo che poco aveva a che fare con la scienza ufficiale. Attualmente la psicologia e la medicina ufficiale hanno cominciato ad interessarsi delle dinamiche sottostanti al rapporto uomo-animale e a scoprirne le importanti implicazioni in termini di salute fisica e mentale. (Giusti, La Fata, 2004)

La definizione del termine Pet therapy risale ad un’origine anglosassone. «Pet» è utilizzato sia come sostantivo per indicare l’animale domestico, da affezione, sia come verbo (to pet), con il significato di accarezzare o coccolare. «Therapy», letteralmente terapia, è utilizzato come secondo termine in parole composte tipo physiotherapy, psychoterapy, ecc.

Il primo ad utilizzare questa espressione fu un neuropsichiatra Boris Levinson che stava attraversando una fase di perplessità e incertezza nella sua carriera, in quanto soffriva la mancanza di modelli standard efficaci di cura per i suoi pazienti. In quel periodo, aveva in cura un bambino sofferente di una grave forma di autismo che era stato sottoposto a ogni genere di trattamento, anche quelli più estremi, senza alcun risultato. Accadde che un giorno i genitori accompagnassero il figlio a una seduta con un leggero anticipo rispetto all’orario prefissato. In quel momento, il neuropsichiatra era talmente impegnato nella redazione di uno scritto che fece accomodare la famiglia nello studio dimenticandosi del tutto di Jingles, il suo cocker, che solitamente non faceva uscire durante le visite. Non appena vide quel bambino, il cane, che era disteso tranquillamente ai piedi del medico, si diresse verso di lui e cominciò a leccarlo. Il piccolo non mostrò alcun segno di timori nei riguardi dell’animale e, tra lo stupore generale, si fece annusare e ne fu così conquistato e attratto che cominciò a toccarlo dolcemente. Al termine dell’incontro manifestò quello che probabilmente era il primo desiderio della sua vita: ritornare nello studio di Levinson per poter giocare di nuovo con Jingles. Nelle sedute successive, come Levinson racconta nel su articolo «the dog as co-therapist» (1961), che il bambino continuò a giocare con il cane, permettendo allo psichiatra di inserirsi nel gioco e di instaurare così un buon rapporto con il suo piccolo paziente. La presenza di un animale, osservava Levinson, rendeva più semplice per il bambino, che era spesso intimidito dalla comunicazione diretta con il terapeuta, l’espressione delle proprie difficoltà, che egli riusciva in questo modo a comunicare in maniera indiretta, e cioè attraverso l’animale, proiettando su questo le proprie sensazioni altrimenti non comunicabili, tutto ciò in un continuo scambio di manifestazioni affettive e ludiche che rendevano piacevole l’incontro terapeutico. A seguito di questo avvenimento, il neuropsichiatra cominciò a utilizzare in maniera più sistematica gli animali da compagnia, cane o gatto a seconda del tipo di paziente, e sviluppò la teoria della «pet oriented child psychoterapy», basata sull’idea che il bambino si identifica frequentemente con l’animale, il quale diventa così un oggetto transazionale (Bowlby 1982) e grazie a questo tipo di proiezione riesce a parlare più facilmente della sua vita e delle sue inquietudini.

Ad oggi, esistono tre tipologie di intervento: le AAA (le attività assistite con gli animali), le AAT (le terapie assistite con animali) e le AAE (l’educazione assistita con gli animali).

Gli acronimi utilizzati sono quelli adoperati dalla comunità internazionale per indicare le specificità operative e applicative dei programmi assistiti con gli animali. Di ciascuno di essi, sarà fornita una descrizione specifica.

Le AAA (attività assistite con gli animali) sono interventi di tipo ricreativo e/o educativo che hanno come obiettivo il miglioramento della qualità della vita.

Tali interventi implicano il coinvolgimento di animali in possesso di determinati requisiti psicofisici e attitudinali, e sono condotti da professionisti con una formazione specifica. Gli animali e i loro conduttori devono anche superare una prova attitudinale che ne provi le capacità di interazione con gli esseri umani in contesti diversi, nel rispetto e nella tutela del loro benessere e delle loro doti caratteriali. I programmi possono essere svolti in strutture di vario genere ed essere indirizzati sia a singoli soggetti, sia a gruppi di persone più o meno numerosi.

Per definizione, i programmi AAA non sono necessariamente legati ad una terapia, e non sono dunque presentati subordinatamente alle condizioni mediche dell’utente. Dovrebbero essere dipendenti ad una fase progettuale e organizzativa che tenga conto delle esigenze e del benessere degli utenti e degli animali coinvolti. All’interno di tale fase andranno definiti gli obiettivi di riferimento per lo svolgimento del programma stesso. I programmi di AAA devono essere condotti da personale (educatori, insegnanti, ecc.) opportunatamente formato, in stretta collaborazione con conduttori professionisti. Generalmente, le AAA vengono proposte a piccoli gruppi di utenti, senza l’attivazione di richieste specifiche. Ciò permette di valutare eventuali situazioni individuali particolari, come ad esempio la paura dell’animale e la necessità di un relativo programma di desensibilizzazione. Programmi AAA sono anche particolarmente indicati per setting variabili, dove non è possibile una ripetizione prolungata di pattern di interazione (per il semplice fatto che i fruitori cambiano ogni volta) o stabilire obiettivi individuali a lungo termine (ad esempio, perché il contesto consente solo occasionalmente le visite degli animali). Un esempio potrebbe essere l’attività svolta presso gli ospedali pediatrici all’interno di spazi condivisi (Pergolini, Reginella, 2009).

Le AAT (terapie assistite con gli animali) sono interventi con obiettivi specifici predefiniti, in cui un animale che risponde a determinate caratteristiche è parte integrante del trattamento. L’AAT è diretta da un professionista con esperienza specifica nel campo, nell’ambito dell’esercizio della propria professione. Nello specifico, i programmi di AAT hanno come scopo il raggiungimento di obiettivi di tipo terapeutico attraverso l’interazione fra pazienti e animali selezionati in base a specifiche attitudini psichiche, morfologiche e caratteriali, e che abbiano seguito precisi percorsi di educazione e addestramento affiancati da conduttori professionisti, opportunamente formati. Tali interazioni avvengono il più delle volte all’interno di un setting istituzionale per un lasso temporale e secondo una linea di intervento prestabiliti in fase progettuale.

Le visite previste nei programmi di AAT vanno effettuate sempre e solo in presenza di operatori di riferimento (educatore, psicologo, infermiere), sotto il coordinamento e la supervisione di professionisti della salute e del benessere umano (medico, psicologo, ecc)

Tali programmi, inoltre, richiedono un’accurata fase progettuale personalizzata per ogni singolo paziente e vanno costantemente valutati e documentati.

Alla luce della definizione delle AAT sopra fornite, secondo cui sono programmi terapeutici veri e propri, rivolti a fasce di età che vanno da quella evolutiva fino alla geriatrica, che vedono il coinvolgimento dell’animale domestico come mezzo privilegiato e facilitatore relazionale, risulta evidente che i loro contesti di applicazione sono innumerevoli. (Pergolini, Reginella, 2009):

I programmi di AAE (educazione assistita con gli animali) sono interventi di tipo educativo e/o ludico- ricreativo effettuati con l’ausilio degli animali. Anche in tali programmi l’animale svolge una funzione allo stesso tempo di mediatore fra educatore/insegnante e utente, catalizzatore dell’attenzione e modello comportamentale. Questi programmi hanno obiettivi specifici, che rientrano nell’ambito educativo, e vengono proposti e attuati dagli educatori e/o insegnanti in collaborazione con i conduttori e con professionisti della salute e del benessere animale. Le AAE sono proposti in ambiti scolastici e rivolti a soggetti in età scolare e prescolare. È possibile impostare programmi di AAE anche a prescindere dalla costante presenza fisica dell’animale, sebbene lo stimolo derivante da essa è spesso un fattore determinante per la loro buona riuscita, in quanto la presenza e l’interazione con l’animale favoriscono la focalizzazione dell’attenzione.

A questo punto della trattazione ritengo utile citare alcuni articoli della Carta Modena (2002) uno degli strumenti più conosciuti che tutela i principi della Pet Therapy, stilata con il patrocinio del Ministero della Salute, della Federazione Nazionale Ordine dei Medici Veterinari e tutti quegli enti che lavorano in questo settore.

Art. 1 – Si riconosce il debito ontologico dell’uomo nei confronti dell’alterità animale; in particolare si ribadisce la necessità di preservare tale referenza. Il rapporto con l’animale domestico costituisce un valore fondamentale per l’uomo e il processo di domesticazione da riconoscersi come patrimonio dell’umanità.” così cita il primo articolo del documento, aprendo poi a tutti gli altri articoli, più specifici.

Art. 5 Bioetica animale – Ogni progetto operativo deve riconoscere l’animale come paziente morale nel rispetto di alcuni interessi specifici e imprescindibili riferibili alla senzienza, al benessere, all’espressione delle preferenze, all’integrità genetica. L’animale non va considerato né in modo reificatorio né attraverso proiezione antropomorfica. Agli animali coinvolti nei progetti di Pet therapy dovrà essere assicurata una corretta tutela del benessere a fine carriera.”

Art. 9 Benessere animale – L’animale va mantenuto nelle condizioni compatibili con le sue caratteristiche fisiologiche e comportamentali e salvaguardato da qualunque trauma fisico e psichico. Deve poter usufruire di adeguati periodi di riposo e poter trarre benefici dall’attuazione dell’attività svolta”

Questo è importante per riflettere sul valore non solo del fruitore ma anche dell’animale coinvolto in questi progetti.

Andiamo a definire alcuni dei possibili campi di applicazione.

In particolare nell’infanzia, il cane interviene nella dimensione ludica che favorisce in terapia benefici indirizzati in modo particolare al bambino. Quando il bambino cresce, esiste un gioco dalla valenza simbolica, ovvero giocare portandosi dietro un giocattolo legato ad un filo. Infatti, quando il bambino impara a camminare, diventa consapevole del fatto che è in qualche modo, separato dalla madre, proiettando sul filo la propria separazione e quindi, cercando un compromesso tra la propria indipendenza, mediante il camminare e l’esplorare, e il rimanere legato alla madre, trascinandosi dietro l’oggetto legato. Il cane a differenza del giocattolo inanimato, mettendo alla prova il suo giovane padrone, tenderà a voler raggiungere la propria libertà correndo in avanti e indietro, a volte rallentando e lasciandosi trascinare: questa è la metafora dell’arduo compito della separazione. Nella Pet therapy, dunque, il cane ripresenta questo gioco simbolico, assumendo così un ruolo decisivo nel contributo al bambino. Il bambino così, mediante la relazione con l’animale, soprattutto tramite il gioco, apprende ad esprimere in modo sano le proprie emozioni e a regolare se stesso alle nuove situazioni, conoscendo ciò che lo circonda, sviluppando una propria gestualità, mettendo in atto nuovi meccanismi di relazione, apprendendo le regole sociali e soprattutto comunicando (Ballarini, 1995).

In ambito clinico si è visto come gli animali e in particolare il cane, siano degli ottimi assistenti terapeutici per i bambini con sindromi psicologiche. A tal proposito, gli psicologi Campbell e Katcher nel 1992, in una loro ricerca mostrarono come in un trattamento, condotto dal terapeuta mediante il supporto di un cane, bambini con gravi deficit cognitivi riuscissero ad avere incrementi dell’attenzione e delle interazioni nei confronti del cane e del terapeuta; alcuni di essi aggiunsero addirittura al loro vocabolario alcune parole nuove; ed acquisirono dei segnali comunicativi non verbali per richiamare l’attenzione del terapeuta a quattro zampe (Campbell, Katcher cit. in Ballarini, 1995).

Numerose ricerche hanno avvalorato come il supporto di un animale nel trattamento terapeutico stimoli lo sviluppo e l’arricchimento dei meccanismi di relazione del comportamento sociale, attraverso l’uso della comunicazione non verbale fra l’animale e il piccolo paziente. Infatti ciò che si dà per scontato in una comunicazione fra due esseri umani è proprio l’aspetto non verbale di essa, mentre assume un ruolo rilevante nel rapporto con l’animale, attraverso i gesti, le posture, le mimiche e gli atteggiamenti (Ballarini, 1995).

Un altro possibile intervento con il cane è negli anziani.

I programmi di AAA/AAT, tramite l’interazione e lo svolgimento di compiti elementari con cani selezionati e appositamente addestrati, consentono di mantenere o anche di sviluppare abilità utili a promuovere l’autonomia personale e il recupero dell’autostima attraverso la restituzione di un’immagine si sé come persona competente. I programmi di attività e di terapie assistite con gli animali rivolti ad anziani si svolgono prevalentemente presso case di riposo o centri diurni. Riflettendo sullo stato sociale ed emozionale di un anziano istituzionalizzato, ci si rende conto che depressione, emarginazione, senso di inutilità e impotenza spesso predominano. La debolezza fisica, la diminuzione delle possibilità di socializzazione e di contatto con l’ambiente esterno, i deficit della memoria e la lontananza dagli affetti limitano processi e azioni vitali, provocando nell’anziano una carenza, se non una totale privazione di affetto. Risentono dunque il distacco dai familiari e dalla propria casa in cui hanno vissuto la maggior parte della loro vita e questo comporta un senso di solitudine e abbandono; in aggiunta, si sentono disorientati per la perdita delle consuetudini dei punti di riferimento della vita quotidiana e si trovano costretti a riordinare e modificare le proprie abitudini (Pergolini, Reginella, 2009).

Gli anziani istituzionalizzati presentano quindi difficoltà di dialogo, sia all’interno del gruppo che con il personale di servizio; si chiudono in loro stessi; sono passivi, apatici e privi di motivazioni; sono spesso demotivati e poco collaborativi durante lo svolgersi delle attività di animazione come giochi di gruppo e lettura dei giornali. È in questi casi che la relazione con il cane si rivela particolarmente utile.

Fra i programmi che è possibile impostare all’interno di istituzioni che ospitano persone anziane vengono segnalate da Pergolini e Reginella (2009):

– AAT all’interno di percorsi riabilitativi motori. Accarezzare e coccolare un animale permette un effetto di rilassamento, anche a livello muscolare, ciò permette al fisioterapista di procedere ad una mobilizzazione degli arti meno dolorosa per il paziente. Spazzolare un animale o giocare con esso fornisce una valida motivazione a seguire esercizi e movimenti altrimenti noiosi o fastidiosi.

– AAE/AAT con pazienti affetti da demenza o di Alzheimer. Nel corso dello svolgimento di questi programmi, i pazienti vengono invitati a compiere semplici attività di relazione e cura dell’animale (ad esempio, accarezzarlo, spazzolarlo, offrigli cibo e acqua, portarlo a passeggio). Durante queste fasi è molto importante l’interazione con l’operatore e il conduttore dell’animale, i quali, attraverso il dialogo con il paziente, cercano di fargli verbalizzare le azioni compiute per mantenerlo in contatto con la realtà.

Per quanto riguarda gli interventi con il cane in situazioni di disabilità, la Pet therapy deve affiancarsi come co-terapia senza variare i programmi dei professionisti. Il criterio su cui si basa l’intervento di Pet therapy con disabili è impostato in modo tale che vi siano degli obiettivi specifici che si possono raggiungere in base alle esigenze del paziente che viene trattato. Tenendo conto della sua storia, della sua patologia, dell’età, del sesso, di quelli che sono gli altri interventi riabilitativi e educativi che il paziente svolge. (Del Negro, 2004)

Importante prestare attenzione all’ambiente in cui si intende svolgere un’attività. Non è difficile capire quanto sia importante che l’ambiente sia accogliente. Spesso invece i luoghi di terapia, gli ambulatori medici e i reparti di lungodegenza non lo sono. Il più delle volte sono stanze asettiche privi di colori, suoni e arredate solamente con le attrezzature per la terapia.

Dunque l’integrazione dell’animale può contribuire a rendere accogliente e stimolante il tempo trascorso.

Nel campo della disabilità, emergono anche progetti di Educazione assistita con gli animali in classi scolastiche con la presenza di una o più persone che presentano una qualche forma di disabilità. L’animale viene coinvolto in questo caso come catalizzatore dell’attenzione e mediatore relazionale, allo scopo di favorire l’integrazione nell’ambiente scolastico e nella classe di queste persone, attraverso l’influenza positiva che esso può avere sui processi cognitivi e di crescita di tutti gli alunni coinvolti nel progetto. Nel campo delle attività assistite con gli animali in situazioni di disabilità un nome importante è quello della Lega del Filo D’Oro, nata ad Osimo nel 1964 per merito dell’iniziativa di una persona sordo-cieca e di un gruppo di volontari sensibili alle necessità di persone pluriminorate. Difatti, l’associazione si occupa di assistere, educare, riabilitare e agevolare l’inserimento in società di persone sordo-cieche o con minorazioni plurime delle AAT con bambini con disabilità gravi. L’associazione esplica obiettivi specifici, che individua in: fisici, di salute mentale, educativi, motivazionali. Questi vengono perseguiti grazie alla collaborazione di esperti in diversi campi che entrano a far parte di un’equipe multi professionale e multidisciplinare (Pergolini, Reginella, 2009).

Conclusioni

Rispetto quanto spiegato, si può osservare l’esistenza di un potenziale referenziale insito nell’animale. Il legame affettivo tra l’uomo e il cane non solo può generare uno scambio empatico ma è anche un supporto alla salute della persona nel momento in cui ci sia una consapevolezza di aver di fronte a sé un essere diverso dalla propria specie (disposizione zooempatica) e quando tale incontro è motivato da un reciproco desiderio di conoscenza.

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