La persuasione ed il fanatismo
Il fanatismo
Il termine fanatismo indica un’esaltazione cieca e pericolosa (Arnold, Eysenck, Meili, 1986)
“Per fanatismo si intende la devozione incondizionata a una qualsiasi idea o concezione. Il fanatico è una sorta di ‘esaltato’, completamente privo di dubbi e di spirito critico, intollerante verso le idee degli altri e pronto a usare qualsiasi mezzo affinché si affermino le proprie. Le forme più pericolose di fanatismo si sono prodotte in ambito religioso e politico” (Enciclopedia Treccani, www.treccani.it)
Inizialmente, il termine veniva usato in ambito religioso per indicare uno stato di esaltazione mistica e pericolosa ispirata dalla divinità e che si esplicava principalmente all’interno del tempio (fanum). Dal XVIII secolo questo termine iniziò ad essere usato anche in ambito politico, delineando un tratto comune dei totalitarismi del Novecento: comunismo, fascismo, nazismo; queste ideologie hanno rappresentato l’espressione più laica del fanatismo “che ha sostituito gli eretici e gli infedeli con i dissidenti, gli oppositori, i nemici di classe o di razza”. Esempio terrificante del fanatismo spinto sino alla follia è il tentativo nazista di cancellare l’intero popolo ebraico dalla faccia della Terra. Il fanatismo religioso e quello politico, nel loro ciclico alternarsi storico, hanno espresso ed esprimono ancora oggi, l’esasperazione di un sentimento identificato negli eccessi e nella più rigida intolleranza nei confronti di chi sostenga idee diverse
Paradigmi teorici di riferimento
Il fenomeno del fanatismo nelle sue diverse manifestazioni verrà ora affrontato e spiegato alla luce di alcuni dei principali modelli teorici della psicologia sociale, il cui obiettivo consiste proprio nell’analisi dei comportamenti individuali e di gruppo alla luce dei contesti sociali di appartenenza.
L’intrecciarsi di fattori intraindividuali, intragruppo, intergruppo e culturale (Doise, 1989) rappresenta dunque la focalizzazione con la quale si intende leggere il fenomeno del fanatismo e spiegarne la complessità.
A partire dalla teorie dell’identità sociale come componente essenziale del processo di formazione dell’identità, verranno di seguito approfondite le dinamiche che caratterizzano la formazione e il funzionamento dei gruppi, a cui il fenomeno del fanatismo risulta inevitabilmente associato. Nello specifico si analizzeranno: il fenomeno della polarizzazione di gruppo e della chiusura cognitiva, che porta all’accentuazione delle differenze percettive, attributive e decisionali che caratterizzano la relazione tra l’ingroup (il proprio gruppo di appartenenza) e l’outgroup (il gruppo esterno a cui non si appartiene); il fenomeno dell’obbedienza all’autorità, a partire dallo storico esperimento di Milgram; il processo della deindividuazione, ossia perdita dell’identità personale, legato all’assunzione rigida e acritica dei ruoli sociali assunti, anche questo studiato a partire dall’esperimento di Zimbardo; gli studi classici e moderni sulla persuasione e la manipolazione mentale.
Tali processi sono ritenuti essenziali per dare una cornice teorica esplicativa dei processi affiliativi alla base dell’adesione a movimenti politici e religiosi di stampo estremista e delle loro conseguenze.
La teoria dell’identità sociale e della categorizzazione di sé
La psicologia sociale è interessata primariamente a comprendere come l’esperienza umana (i pensieri, i sentimenti, i comportamenti) possa manifestarsi in contesti di interazione sociale. È in tale prospettiva che diventa possibile concettualizzare il Sè e l’identità come mediatori psicosociali, ovvero processi che prendono forma durante l’interazione sociale e diventano guida delle successive interazioni sociali. Le nozioni di Sé e identità sono quindi espressione di quel processo di autoconoscenza derivante dal complesso scambio tra fattori intraindividuali e ambiente sociale. È dunque possibile definire il concetto di Sè come una rappresentazione cognitiva di se stessi che dà coerenza e significato alla propria esperienza. Essa consente di organizzare le esperienze passate e permette di riconoscere e interpretare gli stimoli rilevanti del proprio ambiente sociale, ossia elaborare le informazioni relative al Sè presenti nelle esperienze sociali (Hewstone, Stroebe, Jonas e Voci, 2010).
Oltre i contenuti che definiscono in modo specifico il concetto di Sè, va considerata la presenza di diverse componenti o aspetti di sé che vengono utilizzati per elaborare le informazioni sul Sè e che caratterizzano nel loro insieme la complessità del Sè, che può essere dunque definita come la funzione congiunta data dal numero di aspetti di sé e dal loro legame reciproco. Gli aspetti del sé possono riguardare le proprie caratteristiche fisiche, i propri ruoli, le competenze, le preferenze, gli atteggiamenti, nonché le appartenenze a gruppi o categorie.
Una componente specifica del concetto di sè è rappresentata dall’identità sociale, ossia quella parte dell’identità personale che deriva dalla consapevolezza di appartenere a categorie o gruppi sociali, insieme al significato valutativo e al rilievo emozionale associato a tale appartenenza (Tajfel, 1982). Tra gli effetti derivanti dall’identità sociale si riscontrano un innalzamento del senso di autostima e autocompiacimento, tanto più marcato quanto più prestigiosa e desiderabile socialmente risulta tale appartenenza, una tendenza all’omologazione e all’uniformità intragruppo e una maggiore discriminazione intergruppi (tra ingroup e outgroup) e altre forme di conflitti tra gruppi. Più nello specifico, la teoria dell’identità sociale propone che le persone, in quanto membri di un gruppo, hanno la tendenza a differenziare positivamente il proprio ingroup dagli outgroup rilevanti.
La teoria della categorizzazione di sé pone ancora più risalto alla distinzione tra identità personale e identità sociale. Mentre l’identità personale fa riferimento alla definizione di sé come individuo unico a seguito di differenziazioni interpersonali o intragruppo, l’identità sociale definisce la definizione di sé come membro di un gruppo a seguito della differenziazione tra ingroup e outgroup (Turner, 1982, Turner, Hogg, Oakes, Reicher, Wethereli, 1987).
Un aspetto importante che viene sottolineato all’interno di tale teoria riguarda la salienza dell’identità, definita come la prontezza ad adottare una particolare identità (sia essa personale o sociale) e il grado in cui tale identità risulta significativa e centrale per la definizione di sé all’interno di un dato contesto sociale. Tale prontezza e centralità dipende dai valori degli individui, dal loro sistema di convinzioni, dalle loro motivazioni e scopi attuali, dalle loro esperienze precedenti e così via. Mentre un’identità personale saliente porta ad accentuare le differenze interpersonali e la coerenza intraindividuale, un’identità sociale saliente ha come effetto un aumento della percezione di sé come simile agli altri membri dell’ingroup e come differente dai membri dell’outgroup. Questi processi, definiti di depersonalizzazione, in caso di identità sociale saliente, e personalizzazione, in caso di identità personale saliente, sono alla base rispettivamente della predominanza di comportamenti di gruppo o di comportamenti individualistici. Il concetto di depersonalizzazione, che dunque indica il prevalere di una identità sociale rispetto all’identità personale, si distingue dal concetto di deindividuazione, di seguito descritto, che invece indica la perdita di identità (Zimbardo, 1969).
La polarizzazione di gruppo, il pensiero di gruppo e la chiusura cognitiva
La teoria della categorizzazione di sé, sopra descritta, permette di spiegare l’impatto dell’identificazione con il gruppo sull’influenza sociale. Quest’ultima rappresenta quel processo attraverso il quale, in modo accidentale o deliberato, la presenza reale o implicita di altri individui o gruppi, influenza l’individuo nel modificare le proprie opinioni o modi di agire.
Secondo la teoria della categorizzazione di sé, nel momento in cui gli individui si identificano con un gruppo, con una forte prevalenza dell’identità sociale, aumenta la tendenza ad uniformarsi alla posizione prototipica del gruppo generando quella che viene chiamata influenza informativa referente. Tale posizione prototipica, a sua volta, massimizza da una parte le somiglianze tra i membri, dall’altra le differenze tra ingroup e outogroup (Hogg, Turner e Davidson 1990; Mackie, 1986). La tendenza ad uniformarsi al proprio gruppo di appartenenza, nasce dal bisogno di avere atteggiamenti coerenti con la propria identità sociale e ridurre la sensazione soggettiva di incertezza relativamente ai propri comportamenti quando si avverte una discrepanza. Tale meccanismo di riduzione della discrepanza risulta anche centrale nel processo della dissonanza cognitiva a sua volta utilizzato per rinforzare il legame con il gruppo di appartenenza (Festinger, 1959).
Un effetto dell’influenza sociale reciproca all’interno dei gruppi è noto con il nome di polarizzazione di gruppo, ossia la tendenza ad assumere posizioni che sono più estreme della media delle posizioni iniziali dei singoli membri, comunque nella direzione già intrapresa dal gruppo (Hewstone, Stroebe, Jonas e Voci, 2010).
Il fenomeno della polarizzazione di gruppo viene spiegato facendo riferimento a tre processi fondamentali. Il primo processo richiama il concetto di influenza informativa resa possibile dal ricorso ad argomentazioni persuasive in grado di favorire una risposta consensuale che rende più estremi gli atteggiamenti. La forza persuasiva delle argomentazioni e la loro ripetizione contribuisce in tal senso allo spostamento verso giudizi più estremi. Un secondo processo si basa sulla teoria del confronto sociale formulata da Festinger già nel 1954. In questo caso la spiegazione, anziché fare ricorso all’impatto dell’influenza informativa, chiama in causa il verificarsi di un’influenza normativa. Secondo questa teoria, i membri di un gruppo, confrontandosi reciprocamente, avvertono il bisogno di sentirsi valutati positivamente e approvati e un modo per ottenere tale approvazione all’interno del gruppo è proprio quello di accentuare quelle risposte che siano ritenute socialmente desiderabili dal gruppo stesso. Un terzo processo, fa di nuovo riferimento al concetto di categorizzazione di sé. Pur ammettendo il peso delle argomentazioni persuasive, si tratta anche in questo caso di una spiegazione normativa che pone tuttavia l’accento non tanto sulle posizioni intragruppo (come nella teoria del confronto sociale) ma sul fatto che l’appartenenza al gruppo crei differenze tra l’ingroup e l’outgroup. La polarizzazione di gruppo si accentua dunque quando è presente un riferimento ad un gruppo esterno, con la tendenza degli atteggiamenti dei membri verso la norma di gruppo percepita, che porta a sua volta ad una definizione più positiva dell’ingroup rispetto all’outgroup (Hogg, Turner e Davidson, 1990). In questo caso la norma del gruppo risulterebbe già in partenza più estrema della media delle norme individuali e ciò risulta tanto più accentuato quanto più saliente è l’appartenenza al gruppo. Ad oggi si ritiene che entrambi i tipi di influenza, informativa e normativa, siano determinanti nel produrre una polarizzazione di gruppo in modo variabile a seconda del contesto e della situazione. In tal senso la teoria della categorizzazione di sé riesce ad integrare gli altri due approcci in quanto riconosce che le argomentazioni degli altri membri dell’ingroup saranno più persuasive di quelle dell’outgroup e riconosce anche l’impatto che essere a conoscenza della posizione dei membri del proprio gruppo possa spingere verso posizioni ancora più estreme se ritenute desiderabili dal gruppo stesso (Hewstone, Stroebe, Jonas e Voci, 2010).
Una forma estrema della polarizzazione di gruppo trova espressione nel pensiero di gruppo che rappresenta la tendenza, soprattutto nei processi decisionali, da parte dei membri di un gruppo coeso, ad orientarsi in modo unanime perdendo di vista la ricchezza di posizioni alternative. Tale tendenza rispecchia in modo evidente quella forma di pensiero convergente che sostiene la tendenza all’omologazione. Il pensiero di gruppo rappresenta anche la forma estrema dell’influenza normativa in cui la ricerca del consenso e della lealtà al gruppo risulta più importante dell’influenza informativa fondata sulla valutazione e l’accettazione del messaggio persuasivo e rinforzando di conseguenza la risposta di acquiescenza da parte dei membri. Alla base del pensiero di gruppo vi sarebbero dunque alta coesione, isolamento del gruppo, la presenza di un leader carismatico, la mancanza di scambio interno al gruppo, la pressione a raggiungere una posizione (Janis, 1982).
Fenomeni come la depersonalizzazione, la deindividuazione, il favoritismo verso l’ingroup, la polarizzazione di gruppo e il pensiero di gruppo possono essere intesi anche come forme di centrismo di gruppo. Esso include una serie di atteggiamenti (opinioni, valutazioni affettive e comportamenti) che rispecchiano il significato e il valore che il gruppo ha per i suoi membri e che si caratterizza per una marcata ricerca di consensualità e omogeneità interne, una tendenza al conservatorismo, la preferenza per una leadership forte e sentimenti positivi verso l’ingroup e negativi verso l’outgroup. A suo rinforzo entra in gioco il bisogno di chiusura cognitiva che regola i processi di assimilazione e mantenimento delle conoscenze di un gruppo (Kruglanski 1989, 2004).
Nello specifico, a livello di formazione di conoscenze, un alto livello di chiusura cognitiva, può determinare un incremento delle seguenti dimensioni del centrismo di gruppo: preferenza per l’uniformità piuttosto che per la differenziazione e pressione che ciascun membro esercita sugli altri verso l’uniformità; prevalenza di fenomeni di autocrazia (il potere è esercitato da una o poche persone); forte attaccamento all’ingroup e rifiuto di gruppi esterni. A livello del mantenimento delle conoscenze acquisite, un alto livello di chiusura cognitiva comporta un accrescimento delle seguenti dimensione del centrismo di gruppo: rifiuto delle opinioni devianti che rappresentino una minaccia al consenso interno all’ingroup con conseguente accettazione e valorizzazione di membri che si mostrino attivamente conformisti; rinforzo di atteggiamenti conservatori e opposizione verso quelli innovativi; tendenza a reprimere in modo ostile ogni forma di violazione normativa che possa minacciare la realtà socialmente condivisa e mantenimento delle norme di gruppo già consolidate; promozione della lealtà verso la cultura del gruppo (Pierro, De Grada, Kruglanski e Mannetti, 2007).
L’obbedienza all’autorità
Nell’ambito degli studi sull’influenza sociale un contributo significativo è derivato dalla ricerca di Milgram (1963, 1974) sull’obbedienza all’autorità, in seguito riproposto per ulteriori manipolazioni delle variabili ritenute fondamentali (Blass, 1999; 2000; Miller, Collins e Brief, 1995). Tale studio, seppur sollevando critiche per alcune questioni etiche, ha avuto il merito di aver posto l’attenzione sulla complessità di quei processi che regolano la risposta ad un ordine proveniente da una persona di status sociale più elevato all’interno di una gerarchia definita. Milgram compì 18 studi, in ciascuno dei quali modificò volutamente alcune variabili per valutarne l’impatto sul livello di obbedienza. Nel primo di questi studi reclutò 40 partecipanti maschi con un annuncio in cui non si accennava alla questione dell’obbedienza. Nel contesto del laboratorio lo sperimentatore spiegava ai soggetti che in modo casuale sarebbe stato assegnato loro il ruolo di insegnante o di allievo (in realtà l’allievo-vittima era sempre un complice dello sperimentatore). L’esperimento consisteva nella somministrazione da parte del soggetto nel ruolo di insegnante, di una scossa elettrica, di intensità crescente, all’allievo ogniqualvolta questi avesse risposto in modo errato in un compito di apprendimento, attraverso un finto generatore di corrente. Le risposte simulate della vittima seguivano una sequenza predeterminata che esprimeva dolore in modo crescente al crescere dell’intensità delle scosse elettriche, così come erano stati ben categorizzati gli ordini che dava lo sperimentatore in modo da risultare sempre più forti e incisivi. Al termine di questo primo esperimento risultò che il 65% dei partecipanti, ossia 26 soggetti su 40 portò a termine l’esperimento mostrando un’obbedienza totale, una percentuale sorprendentemente superiore rispetto a quella riscontrata se i soggetti venivano lasciati liberi di decidere il livello della scossa da somministrare o venivano semplicemente interpellati sulla previsione del loro comportamento in quella situazione sperimentale, ma senza essere sottoposti all’esperimento.
Attraverso la manipolazione di alcune variabili chiave, Milgram riusci inoltre ad individuare in quali circostanze l’obbedienza risultasse più elevata. I fattori risultati più influenti furono: la lontananza della vittima; la vicinanza dello sperimentatore nelle vesti dell’autorità e la legittimazione della stessa; la pressione dei pari. Sebbene siano risultate influenti anche alcune caratteristiche di personalità dei soggetti partecipanti (persone con tendente autoritarie tenderebbero ad obbedire di più), tale protocollo di ricerca ha fondamentalmente sottolineato il ruolo e l’incidenza dei fattori situazionali nella messa in atto di comportamenti distruttivi e lesivi nei confronti di altre persone. Anche in questo caso risulterebbe determinante la presenza di una leadership forte e la pressione all’uniformità esercitata dai pari, soprattutto se agite in un contesto di ridotta libertà reale o percepita e l’altro possa essere considerato come lontano da sé fisicamente o simbolicamente in quanto appartenente a gruppi estranei. L’induzione di un ordine, sortirebbe inoltre, come sottolinea lo stesso Milgram, un effetto di responsabilità diffusa, che se non elimina il senso di sofferenza per quanto impartito ad una vittima, è comunque in grado di ridurre la sottostante dissonanza cognitiva, derivante dall’agire in modo contrario ai propri valori.
La deindividuazione e gli effetti del potere su chi lo esercita
Un ulteriore tassello nella comprensione del comportamento umano in contesti sociali è stato fornito dal celebre esperimento compiuto nei sotterranei dell’università di Stanford in cui fu simulata una vera prigione (Haney, Banks e Zimbardo, 1973). A partire dall’obiettivo di confutare alcuni pregiudizi che caratterizzano la vita del carcere, gli autori strutturarono un pano di ricerca per studiare il comportamento messo in atto da persone non incriminate, né guardie professioniste, una volta calate in tali ruoli. I soggetti, reclutati tra volontari che avevano risposto ad un annuncio, furono dunque assegnati ad uno dei due ruoli con l’obiettivo di verificare se una tale situazione fosse in grado di condizionare il comportamento di tali soggetti. L’esperimento, previsto per un tempo di due settimane, fu in realtà interrotto al sesto giorno per la gravità e la rigidità dei comportamenti agiti dai partecipanti.
Coloro a cui fu assegnato il ruolo di prigionieri cominciarono a breve e in modo crescente a manifestare un peggioramento dell’umore, depressioni, crisi di pianto, rabbia, dolori, ansia e la richiesta sempre più impellente di poter tornare a casa. Questa serie di reazioni, attraverso le quali la persona finiva per perdere il senso della sua identità personale, fu spiegata con il termine di deindividuazione.
Coloro che invece esercitavano il ruolo di guardie, lasciati liberi di decidere e applicare qualunque forma di disciplina ritenessero necessaria, cominciarono in modo progressivo a far sempre più uso di forme di potere coercitivo verso i prigionieri, fino ad arrivare a delle vere e proprie forme di abuso. Con il passare del tempo il comportamento ingiurioso delle guardie tendeva ad accentuarsi e a persistere anche quando i prigionieri avevano smesso di reagire.
Alcune riflessioni furono tratte dall’esperimento circa l’uso e l’abuso del potere in situazioni di questo tipo. In primo luogo che l’accessibilità a strumenti di potere accentua la possibilità che si faccia ricorso al potere. Inoltre maggiore è il potere usato, maggiore è la convinzione di chi lo detiene di poter controllare le azioni della vittima. In condizioni di abuso di potere la vittima è fatta oggetto di svalutazione e tale processo di svalutazione sembra accentuarsi nei casi in cui la vittima sembra non temere di essere punita o quando si mostra compiacente e ossequiosa, elementi questi ultimi interpretati come segnale di debolezza. La svalutazione della vittima aumenta anche all’aumentare della distanza sociale tra il detentore del potere e la vittima. Infine un elemento di rinforzo al perpetrarsi di tale abuso di potere è anche dato dall’accrescimento dell’autostima di colui che ha il potere, il che rende particolarmente difficile decidere di rinunciare a tale ruolo (Gergen e Gergen, 1990).
La comunicazione persuasiva
La persuasione è un processo comunicativo, studiato e codificato dai sofisti retori ed oratori già nella Grecia del V secolo avanti Cristo. Un velocissimo excursus permette di comprendere come il processo persuasivo della comunicazione abbia potuto attingere, nel corso dei secoli, da varie fonti di conoscenza iniziando probabilmente da Corace, per poi complessizzarsi sempre più con Tisia, Gorgia, Lisia, Protagora, Antifonte, fino ad arrivare a Platone ed Aristotele ed al mondo romano con Appio Claudio, Catone e Cicerone. Nel ventesimo secolo la persuasione diventa una necessità politica e sociale, uscendo dagli schemi accademici o scolastici entrando in ambiti di studio e di applicazione sempre più quotidiani e pragmatici.
L’avvento delle Guerre Mondiali ha fatto sì che fossero riutilizzati gli antichi strumenti comunicativi di retori e oratori in un ambito contemporaneo e decisamente più allargato socialmente: con la propaganda politica e militare molti governi del tempo iniziarono a stanziare fondi per la ricerca su un tipo di comunicazione che potesse modificare il pensiero e le motivazioni delle popolazioni. Negli anni ‘40 del 1900, il governo statunitense chiese a Carl Hovland, docente presso l’Università di Yale, di formare un gruppo di psicologi sociali che approfondissero in modo analitico i meccanismi mentali strettamente correlati con la comunicazione persuasiva. In quegli anni nacque un gruppo di studiosi ancora adesso ricordato come “Scuola di Yale” strettamente associata alla nascita delle moderne acquisizioni sulla persuasione.
Secondo gli psicologi sociali della Scuola di Yale (Hovland, 1951, 1953, 1959; Janis, 1953), il cambiamento di atteggiamento proprio della persuasione, viene mediato dall’apprendimento e dal ricordo del contenuto del messaggio, a loro volta facilitati dagli incentivi ad adottare la posizione proposta. I primi studi sistematici sulla persuasione suddividono il flusso di informazioni in classi: l’emittente, il messaggio, il canale comunicativo, il destinatario, il contesto comunicativo. Jerry Mc Guire (1968) ampliò lo studio dell’impatto persuasivo di una comunicazione; secondo questo autore tale impatto può essere inteso come il prodotto di successive fasi dell’elaborazione dell’informazione, il fallimento di una fase interrompe drasticamente la sequenza rendendo inefficace il processo di cambiamento di atteggiamento. Le sei fasi furono identificate così:
1) la presentazione (cioè la mera esposizione del messaggio),
2) l’attenzione (assenza di distrazione),
3) la comprensione ( linguaggio facilmente decodificabile dal destinatario),
4) il cedimento (accordo con l’emittente),
5) la ritenzione (cioè la memorizzazione del messaggio),
6) infine, l’azione (cambiamento conforme all’obiettivo comunicativo).
Da questi approcci iniziali alla cosiddetta “scienza della persuasione”, si passò velocemente a comporre studi e progetti di ricerca su numerosi argomenti, in particolar modo: quanti argomenti dovesse contenere un messaggio persuasivo; quanto veloce dovesse essere un discorso persuasivo; in quale ordine dovessero essere posti gli argomenti di presentazione (effetto primacy ed effetto recency); in che modo usare la comunicazione non-verbale all’interno della comunicazione persuasiva; il peso dell’attendibilità della fonte o l’aspetto fisico del persuasore; l’efficacia dei messaggi intimidatori (uso della paura); l’uso della ripetizione del messaggio.
Un cambio di paradigma importante, nello studio della persuasione si ha con Anthony Greenwald (1968), secondo il quale un messaggio persuasivo attiva nella nostra mente una sorta di discussione tra l’informazione entrante e le conoscenze pregresse; quanto più il messaggio ricevuto richiama pensieri favorevoli tanto più sarà persuasivo. Secondo Greenwald quindi, la ricezione del messaggio è mediata dai pensieri (le risposte cognitive) stimolati dalle informazioni stesse. Questa acquisizione poté aprire la strada alla comprensione di quanto la stimolazione di pensieri ed emozioni possa diventare strumento potente nel raggiungimento dell’obiettivo persuasivo.
Un altro passo importante nello studio della persuasione e del controllo mentale sono state le ricerche di Leon Festinger (1978, 2012). Secondo Festinger i processi mentali delle persone sono guidati dalla motivazione a ridurre gli stati di dissonanza cognitiva, che sarebbero per natura destabilizzanti. L’individuo mira alla coerenza con se stesso, la relazione di dissonanza tra due cognizioni (conoscenze, opinioni, credenze) o una cognizione e un comportamento, genera un disagio che spinge l’individuo a cercare di ristabilire la coerenza modificando l’elemento meno resistente del sistema: la dissonanza aumenta quando l’individuo dopo aver messo atto un comportamento si trova a mutare atteggiamento verso quel comportamento. Poiché l’elemento meno resistente risulterà essere l’atteggiamento, visto che il comportamento è già stato messo in atto, la dissonanza sarà ridotta cambiando i propri atteggiamenti nei confronti del comportamento; la dissonanza cognitiva funziona molto bene in situazioni non coercitive, nel momento in cui vi è costrizione fisica o violenza fisica, essa non avrà l’effetto autopersuasivo conosciuto. In un classico esperimento di Festinger e Carlsmith (1959) veniva chiesto ai soggetti sperimentali di svolgere un compito molto noioso e poi di spiegare lo stesso compito al soggetto seguente descrivendolo come molto interessante. Alcuni soggetti vennero pagati molto, mentre ad altri venne corrisposta una cifra molto bassa. Il risultato fu che i soggetti pagati insufficientemente descrissero il compito come interessante più di quelli pagati molto; una spiegazione data fu che, in chi era stato ben pagato, la dissonanza cognitiva prodotta dal compito noioso e dalla descrizione non vera fu risolta meglio di chi non era stato adeguatamente pagato. Se la ricompensa economica alta fornì una giustificazione a dichiarare il falso, ciò non fu possibile per chi non la ricevette e che per ricreare coerenza decise di cambiare atteggiamento verso il compito. Un’altra spiegazione la fornì Daryl Bem (1967), il quale affermò che spesso gli individui non sono a conoscenza dei propri atteggiamenti e cercano così di identificarli cogliendo elementi esterni da sé, come se fossero nella posizione di osservatori esterni. In sostanza, la conoscenza dei propri atteggiamenti deriverebbe da ricordi di esperienze passate.
Un ulteriore quadro teorico aiuta a spiegare il processo persuasivo sottostante al comportamento sociale che più semplicemente chiamiamo fanatismo. Richard Petty e John Cacioppo (1986, 1996) focalizzarono i loro studi sulle capacità e la motivazione che gli individui mettono in atto nell’elaborare le informazioni che ricevono. Secondo i due psicologi sociali la qualità e la quantità dell’attività cognitiva che ogni persona dedica ad un messaggio persuasivo ha un’influenza rilevante sul processo di persuasione.
Petty e Cacioppo presero in considerazione due processi comunicativi, in particolare: la via centrale e la via periferica. Attraverso la “via centrale” l’individuo valuta in maniera attenta e con concentrazione il peso reale dell’informazione facendo attenzione al contenuto del messaggio persuasivo. Per “via periferica” si intende l’applicazione di processi a basso sforzo cognitivo come il condizionamento, l’identificazione, le euristiche, prestando poca attenzione al contenuto. Seguendo questo filone di studi e, soprattutto, quelli di Shelley Chaiken sulle euristiche (Chaiken, Wood, Eagly, 1996), Robert Cialdini (1999) fissò delle cornici teoriche importanti sul piano operativo. Questo psicologo sociale, studiò molti degli esperimenti fatti nei decenni precedenti alla luce del modello euristico sistematico della Chaiken e di quello dell’elaborazione sistematica di Petty e Cacioppo, evidenziando l’importanza che le euristiche cognitive assumono nelle decisioni degli esseri umani. Le euristiche sono strategie cognitive, scorciatoie di pensiero che permettono alle persone di emettere giudizi sociali molto rapidamente, ricavare inferenze dal contesto, attribuire significato alle situazioni e prendere decisioni a fronte di problemi complessi o di informazioni incomplete. Cialdini notò che pur funzionando bene nella maggior parte delle circostanze quotidiane, le euristiche, in certi casi, possono portare ad errori sistematici. Secondo la Chaiken, e così anche per Cialdini, ad alti livelli di motivazione e capacità, prevale negli individui l’uso della modalità sistematica con attenta analisi del contenuto comunicativo, anche se si continua ad usare in forma minore l’euristica; mentre a bassi livelli di motivazione e capacità di elaborazione del messaggio, prevarrà l’uso della modalità euristica. Ciò significa che nel processo persuasivo e di manipolazione mentale si possono ottenere risultati positivi creando situazioni di basso coinvolgimento cognitivo e bassa motivazione (per esempio con l’uso della paura o stimolando nell’individuo il senso di urgenza): la vittima tenderà a rispondere in automatico seguendo la modalità euristica, tale risposta sarà quindi facilmente prevedibile.
Cialdini individuò anche alcuni principi all’interno dei quali ci si possa aspettare tale prevedibilità (Cialdini, 2005, 2009):
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la reciprocità; quando qualcuno fa un regalo ad un altro, che sia un dono o un favore, si aspetterà qualcosa in cambio (dall’altra parte, il beneficiario si sentirà consapevolmente o inconsapevolmente in dovere di ricambiare). Il principio di reciprocità può essere ritrovato nei processi di affiliazione: dove non c’è reciprocità i legami sono poco stabili perché si crea un basso livello di soddisfazione.
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Impegno-coerenza; dopo aver preso una posizione, una persona tenderà ad acconsentire a richieste di comportamento che siano coerenti con quella posizione.
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Secondo la prova sociale una persona tenderà ad acconsentire ad una richiesta nella misura in cui altre persone simili lo hanno fatto o lo stanno facendo. La prova sociale è considerata prova di verità.
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Nel principio di autorità, l’euristica derivante è che una persona tenderà a seguire i suggerimenti di una autorità che considera legittima. Esempi importanti sono gli esperimenti di Milgram e Zimbardo citati precedentemente
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Amicizia-simpatia; una persona tenderà ad acconsentire alle richieste fatte da amici o da altre persone gradite.
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Nel principio di scarsità ritroviamo come euristica sottostante, il concetto che le persone cercano di assicurarsi le occasioni che scarseggiano. La scarsità aumenta il desiderio di qualcosa perché opera una restrizione alla libertà di poterla avere, richiamando gli studi di Brehm sulla reattanza psicologica. La reattanza psicologica è quella reazione che ogni individuo ha nei confronti di una restrizione (vera o presunta) della libertà personale (Brehm, 1966, 1989; Brehm & Brehm, 1981).
I processi affiliativi e la loro estremizzazione
Dopo aver preso in esame alcuni dei principali processi che regolano le relazioni interpersonali e in modo ancor più preciso il funzionamento dei gruppi e gli aspetti che caratterizzano la comunicazione persuasiva, verrà di seguito proposta una riflessione su come essi possano entrare in gioco nell’influenzare l’affiliazione dei membri ad un nuovo gruppo. Molti dei principali modelli teorici sono stati elaborati per spiegare i processi di conversione a gruppi religiosi anche estremi e devianti rispetto alla società di riferimento, ma i loro principi possono essere generalizzati anche ad altre tipologie di gruppi aventi la medesima caratteristica di presentarsi in contrasto con l’ideologia dominante.
Uno dei modelli classici di riferimento è stato quello di Lofland e Stark (1965), in seguito ripreso da diversi autori e che sottolinea come alla base del processo affiliativo vi siano sia predisposizioni personali che fattori situazionali. Tra i primi si fa riferimento alla presenza di uno stato interno di tensione, la tendenza a cercare risposte ai problemi anche in modo trascendentale, la percezione di sé come cercatore di un credo diverso da quello convenzionale. Tra i fattori situazionali si trovano l’incontro con un membro del gruppo in un momento cruciale e critico della propria vita, lo sviluppo di legami affettivi con gli altri membri del gruppo, l’indebolimento dei legami affettivi con le persone esterne fino a quel momento frequentate, una interazione intesa e significativa all’interno del gruppo.
A tal proposito, anche Zimbardo e Harley (1985) a seguito di una loro ricerca, hanno sottolineato che la decisione di affiliarsi ad un gruppo sia il frutto di una complessa interazione che include, tra i diversi fattori, la conoscenza preliminare della realtà rappresentata dal gruppo, i valori personali, l’impatto delle tecniche di reclutamento, il setting in cui avviene il contatto, e in modo particolare la trasformazione cognitiva e l’esperienza affettiva associata.
Come frutto di un lavoro di ricerca, Buxant e Saroglou, (2008) evidenziano che le persone che tendono ad affiliarsi a gruppi alternativi tendono a mettere meno in discussione le loro credenze, ad essere più sottomesse all’autorità, ad essere meno autonomi e ad abbracciare valori relativi all’ordine sociale, tutte caratteristiche già considerate come tipiche del centrismo di gruppo, caratterizzato da un alto livello di chiusura cognitiva.
Una visione integrata dei processi che regolano l’affiliazione dei membri a gruppi non convenzionali, e per quanto ci riguarda anche estremi è fornita da Rambo (1993), che attraverso un’analisi approfondita dei diversi stadi ribadisce ancora una volta la complessa relazione che intercorre tra fattori personali e situazionali in una visione dinamica di tale relazione.
In primo luogo viene sottolineato il ruolo del contesto in cui avviene il processo di cambiamento e affiliazione, contesto inteso sia nella sua dimensione macrosociale (il sistema politico, religioso, economico, sociale…) che in quella microsociale (la famiglia, gli amici, l’ambiente di lavoro..).
Un passaggio importante che avvia il processo della ricerca di una nuova e intensa affiliazione è rappresentato dal sopraggiungere di una crisi personale, che seppur nella sua ampia diversità, pone in discussione il precedente sistema di convinzioni dell’individuo e l’orientamento fondamentale della sua esistenza. Tra i fattori scatenanti, si possono individuare esperienze più o meno drammatiche, spesso connotate da un forte coinvolgimento emotivo come ad esempio: esperienze mistiche, condizioni di malattie e guarigione, l’insoddisfazione per la propria vita e la spinta a ricercare esperienze più significative, il desiderio di trascendenza, stati alterati di coscienza anche dovuti all’uso di droghe, la ricerca di identità, la perdita di alcuni punti di riferimento, la presenza di disturbi o disagio psicologico, il verificarsi di alcuni eventi significativi a livello sociale, politico, economico o religioso.
Il passaggio successivo è quello della ricerca, che rispecchia secondo l’autore la tendenza innata di dare un significato alla propria vita, in modo attivo o passivo. Più nello specifico lo stile attivato nella fase della ricerca si pone lungo un continuum che va dalla ricerca attiva di nuove esperienze, alla recettività, al rifiuto, alla passività in cui più facilmente l’individuo risulta manipolabile da influenze esterne. La risposta alla crisi e la ricerca di nuove affiliazioni risultano inoltre condizionate dal livello di disponibilità della persona al cambiamento nella misura del grado di libertà possibile nell’abbandonare i propri impegni, obblighi, cambiare abitudini e schemi emotivi e intellettuali. Gli aspetti emozionali giocano un ruolo importante sia come ostacoli, allorché l’individuo privilegia i legami già esistenti rispetto ai messaggi di proselitismo, che come collante, in quanto l’instaurarsi di nuovi legami affettivi all’interno del gruppo rappresenta un rinforzo potente del processo affiliativo. Da un punto di vista intellettuale va invece sottolineato che l’adesione a nuovi gruppi risulta facilitata da una certa compatibilità e continuità tra le idee precedenti dell’individuo e l’ideologia proposta.
Un ulteriore stadio è quello dell’incontro, ossia il contatto tra l’individuo e il reclutatore del gruppo. Ancora una volta è bene sottolineare che tale incontro avviene in un setting, che può essere molto differenziato, ed è il frutto dell’interrelazione tra bisogni affettivi, intellettuali e cognitivi di entrambe le parti (Rambo e Bauman, 2012). Le strategie persuasive adottate dal reclutatore possono essere più o meno attive, diffuse o concentrate e utilizzare diversi canali. A prescindere dalla diversità dello stile e dalle caratteristiche del gruppo, l’obiettivo del reclutatore è comunque quello di evidenziare i benefici per l’individuo derivanti dall’affiliazione al gruppo. Solitamente in questa fase si fa leva sui benefici a livello cognitivo, offrendo una nuova e direzionata visione della vita, benefici emozionali, legati al senso di appartenenza, sviluppo di nuove relazioni, entusiasmo, sollievo, benefici nello stile di vita, con l’adozione di nuove abitudini e attività, benefici legati all’identificazione con un figura carismatica, che diventa giuda e modello da imitare.
Un ulteriore stadio è quello dell’interazione con in gruppo che consente il consolidarsi della conoscenza dell’ideologia del gruppo e delle sue prassi e e può portare ad una adesione definitiva, attesa o rifiuto. Anche in questa fase si colloca lungo un continuum il livello di attività/passività dell’individuo e di persuasione/manipolazione del reclutatore. In questa fase il gruppo attua un processo di alto coinvolgimento dell’individuo che può essere fisico, sociale e ideologico. A livello fisico viene creata una condizione di isolamento in cui vengono fornite solo le informazioni e le conoscenze proprie del gruppo; a livello sociale viene limitato o bloccato il contatto con persone esterne al gruppo, anche attraverso l’impegno continuativo in attività interne al gruppo; a livello ideologico avviene un intenso indottrinamento in modo da inculcare le idee del gruppo. In questa fase le relazioni con gli altri membri del gruppo consolidano a loro volta i nuovi schemi cognitivi ed emozionali dando una coloritura positiva alla nuova appartenenza. L’uso dei rituali sancisce un nuovo sistema di vita destrutturando il precedente mentre al tempo stesso viene acquisita una nuova forma di linguaggio propria del gruppo, attraverso la quale dare significato ad eventi che riguardano se stessi e gli altri. Studi condotti sulla dissonanza cognitiva hanno dimostrato che quanto più i rituali imposti dal gruppo risultano severi e presentano costi elevati per l’individuo che li attua, tanto più aumenta la sua fedeltà al gruppo (Aronson, 2006). Infine la fase dell’interazione è contrassegnata dall’assunzione di ruoli specifici che rinforzano il coinvolgimento della persona convincendola di avere una missione straordinaria da compiere.
Dopo un tempo più o meno lungo viene sancito l’impegno della persona all’interno del gruppo che rappresenta la scelta se aderire completamente all’ideologia del gruppo e impegnarsi seriamente o abbandonare il gruppo. Lo stadio dell’impegno a sua volta implica: una fase decisionale, in cui di nuovo possono riemergere eventuali vincoli con il contesto di origine; la messa in atto di rituali, spesso pubblici che ratificano, sotto forma di una cerimonia, l’inclusione ufficiale nel gruppo; l’abbandono del passato e l’affidarsi alla nuova realtà; la testimonianza della propria affiliazione che ha la duplice funzione di cercare nuovi adepti ma anche crearsi un quadro di riferimento entro il quale, spesso in modo imposto dal gruppo, rileggere e dare significato alla propria esperienza (Rambo, 1993).
Conclusioni
Il funzionamento dei gruppi, nel loro diverso grado di inclusività sociale, rappresenta una fondamentale chiave di lettura per dare spiegazione a fenomeni difficilmente ascrivibili al solo ambito delle motivazioni intraindividuali. Anche l’analisi dei processi affiliativi va nella stessa direzione evidenziando come tale affiliazione debba essere considerata come l’incontro di disposizioni personali e strategie persuasive atte a favorire la partecipazione e l’adesione ideologica al gruppo. Processi come quelli legati all’identità sociale e di categorizzazione di sé, influenzano le reazioni degli individui in quanto parte di gruppi, determinando fenomeni come la polarizzazione di gruppo e il pensiero di gruppo. Tanto più saliente diventa l’identità sociale e radicale la categorizzazione di sé, nella polarità ingroup-outgroup, tanto più si rinforza l’appartenenza al gruppo e si può assistere al manifestarsi di processi legati al centrismo di gruppo. La chiusura cognitiva che impedisce il confronto sociale delle informazioni, la tendenza all’autocrazia, l’uniformità e la pressione dei pari all’uniformità, nonché l’utilizzo di modalità persuasive coercitive, sono tutti fattori in grado di favorire l’estremizzazione dei comportamenti a favore del proprio gruppo e giustificare il conflitto e l’ostilità verso i membri di gruppi esterni, caratteristiche salienti di ogni forma di fanatismo.
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