La persuasione ed il fanatismo

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Il fanatismo

Il termine fanatismo indica un’esaltazione cieca e pericolosa (Arnold, Eysenck, Meili, 1986)

Per fanatismo si intende la devozione incondi­zionata a una qualsiasi idea o concezione. Il fana­tico è una sorta di ‘esaltato’, completamente privo di dubbi e di spirito critico, intollerante verso le idee degli altri e pronto a usare qualsiasi mezzo affinché si affermino le proprie. Le forme più pe­ricolose di fanatismo si sono prodotte in ambito religioso e politico” (Enciclopedia Treccani, www.treccani.it)

Inizialmente, il termine veniva usato in ambito re­ligioso per indicare uno stato di esaltazione misti­ca e pericolosa ispirata dalla divinità e che si esplicava principalmente all’interno del tempio (fanum). Dal XVIII secolo questo termine iniziò ad essere usato anche in ambito politico, delinean­do un tratto comune dei totalitarismi del Novecento: comunismo, fascismo, nazismo; que­ste ideologie hanno rappresentato l’espressione più laica del fanatismo “che ha sostituito gli ereti­ci e gli infedeli con i dissidenti, gli oppositori, i nemici di classe o di razza”. Esempio terrificante del fanatismo spinto sino alla follia è il tentativo nazista di cancellare l’intero popolo ebraico dalla faccia della Terra. Il fanatismo religioso e quello politico, nel loro ciclico alternarsi storico, hanno espresso ed esprimono ancora oggi, l’esasperazio­ne di un sentimento identificato negli eccessi e nella più rigida intolleranza nei confronti di chi sostenga idee diverse

Paradigmi teorici di riferimento

Il fenomeno del fanatismo nelle sue diverse mani­festazioni verrà ora affrontato e spiegato alla luce di alcuni dei principali modelli teorici della psico­logia sociale, il cui obiettivo consiste proprio nell’analisi dei comportamenti individuali e di gruppo alla luce dei contesti sociali di appartenen­za.

L’intrecciarsi di fattori intraindividuali, intragrup­po, intergruppo e culturale (Doise, 1989) rappre­senta dunque la focalizzazione con la quale si in­tende leggere il fenomeno del fanatismo e spie­garne la complessità.

A partire dalla teorie dell’identità sociale come componente essenziale del processo di formazio­ne dell’identità, verranno di seguito approfondite le dinamiche che caratterizzano la formazione e il funzionamento dei gruppi, a cui il fenomeno del fanatismo risulta inevitabilmente associato. Nello specifico si analizzeranno: il fenomeno della pola­rizzazione di gruppo e della chiusura cognitiva, che porta all’accentuazione delle differenze per­cettive, attributive e decisionali che caratterizzano la relazione tra l’ingroup (il proprio gruppo di ap­partenenza) e l’outgroup (il gruppo esterno a cui non si appartiene); il fenomeno dell’obbedienza all’autorità, a partire dallo storico esperimento di Milgram; il processo della deindividuazione, ossia perdita dell’identità personale, legato all’assun­zione rigida e acritica dei ruoli sociali assunti, an­che questo studiato a partire dall’esperimento di Zimbardo; gli studi classici e moderni sulla per­suasione e la manipolazione mentale.

Tali processi sono ritenuti essenziali per dare una cornice teorica esplicativa dei processi affiliativi alla base dell’adesione a movimenti politici e reli­giosi di stampo estremista e delle loro conseguen­ze.

La teoria dell’identità sociale e della categoriz­zazione di

La psicologia sociale è interessata primariamente a comprendere come l’esperienza umana (i pen­sieri, i sentimenti, i comportamenti) possa manife­starsi in contesti di interazione sociale. È in tale prospettiva che diventa possibile concettualizzare il Sè e l’identità come mediatori psicosociali, ov­vero processi che prendono forma durante l’inte­razione sociale e diventano guida delle successive interazioni sociali. Le nozioni di Sé e identità sono quindi espressione di quel processo di auto­conoscenza derivante dal complesso scambio tra fattori intraindividuali e ambiente sociale. È dun­que possibile definire il concetto di Sè come una rappresentazione cognitiva di se stessi che dà coe­renza e significato alla propria esperienza. Essa consente di organizzare le esperienze passate e permette di riconoscere e interpretare gli stimoli rilevanti del proprio ambiente sociale, ossia elaborare le informazioni relative al Sè presenti nelle esperienze sociali (Hewstone, Stroebe, Jonas e Voci, 2010).

Oltre i contenuti che definiscono in modo specifi­co il concetto di Sè, va considerata la presenza di diverse componenti o aspetti di sé che vengono utilizzati per elaborare le informazioni sul Sè e che caratterizzano nel loro insieme la complessità del Sè, che può essere dunque definita come la funzione congiunta data dal numero di aspetti di sé e dal loro legame reciproco. Gli aspetti del sé possono riguardare le proprie caratteristiche fisi­che, i propri ruoli, le competenze, le preferenze, gli atteggiamenti, nonché le appartenenze a gruppi o categorie.

Una componente specifica del concetto di sè è rappresentata dall’identità sociale, ossia quella parte dell’identità personale che deriva dalla con­sapevolezza di appartenere a categorie o gruppi sociali, insieme al significato valutativo e al rilie­vo emozionale associato a tale appartenenza (Taj­fel, 1982). Tra gli effetti derivanti dall’identità so­ciale si riscontrano un innalzamento del senso di autostima e autocompiacimento, tanto più marca­to quanto più prestigiosa e desiderabile social­mente risulta tale appartenenza, una tendenza all’omologazione e all’uniformità intragruppo e una maggiore discriminazione intergruppi (tra in­group e outgroup) e altre forme di conflitti tra gruppi. Più nello specifico, la teoria dell’identità sociale propone che le persone, in quanto membri di un gruppo, hanno la tendenza a differenziare positivamente il proprio ingroup dagli outgroup rilevanti.

La teoria della categorizzazione di sé pone ancora più risalto alla distinzione tra identità personale e identità sociale. Mentre l’identità personale fa ri­ferimento alla definizione di sé come individuo unico a seguito di differenziazioni interpersonali o intragruppo, l’identità sociale definisce la defini­zione di sé come membro di un gruppo a seguito della differenziazione tra ingroup e outgroup (Turner, 1982, Turner, Hogg, Oakes, Reicher, We­thereli, 1987).

Un aspetto importante che viene sottolineato all’interno di tale teoria riguarda la salienza dell’identità, definita come la prontezza ad adotta­re una particolare identità (sia essa personale o so­ciale) e il grado in cui tale identità risulta signifi­cativa e centrale per la definizione di sé all’inter­no di un dato contesto sociale. Tale prontezza e centralità dipende dai valori degli individui, dal loro sistema di convinzioni, dalle loro motivazio­ni e scopi attuali, dalle loro esperienze precedenti e così via. Mentre un’identità personale saliente porta ad accentuare le differenze interpersonali e la coerenza intraindividuale, un’identità sociale saliente ha come effetto un aumento della perce­zione di sé come simile agli altri membri dell’ingroup e come differente dai membri dell’outgroup. Questi processi, definiti di deper­sonalizzazione, in caso di identità sociale saliente, e personalizzazione, in caso di identità personale saliente, sono alla base rispettivamente della pre­dominanza di comportamenti di gruppo o di com­portamenti individualistici. Il concetto di deperso­nalizzazione, che dunque indica il prevalere di una identità sociale rispetto all’identità personale, si distingue dal concetto di deindividuazione, di seguito descritto, che invece indica la perdita di identità (Zimbardo, 1969).

La polarizzazione di gruppo, il pensiero di grup­po e la chiusura cognitiva

La teoria della categorizzazione di sé, sopra de­scritta, permette di spiegare l’impatto dell’identi­ficazione con il gruppo sull’influenza sociale. Quest’ultima rappresenta quel processo attraverso il quale, in modo accidentale o deliberato, la pre­senza reale o implicita di altri individui o gruppi, influenza l’individuo nel modificare le proprie opinioni o modi di agire.

Secondo la teoria della categorizzazione di sé, nel momento in cui gli individui si identificano con un gruppo, con una forte prevalenza dell’identità sociale, aumenta la tendenza ad uniformarsi alla posizione prototipica del gruppo generando quella che viene chiamata influenza informativa referen­te. Tale posizione prototipica, a sua volta, massi­mizza da una parte le somiglianze tra i membri, dall’altra le differenze tra ingroup e outogroup (Hogg, Turner e Davidson 1990; Mackie, 1986). La tendenza ad uniformarsi al proprio gruppo di appartenenza, nasce dal bisogno di avere atteggia­menti coerenti con la propria identità sociale e ri­durre la sensazione soggettiva di incertezza relati­vamente ai propri comportamenti quando si avverte una discrepanza. Tale meccanismo di ri­duzione della discrepanza risulta anche centrale nel processo della dissonanza cognitiva a sua vol­ta utilizzato per rinforzare il legame con il gruppo di appartenenza (Festinger, 1959).

Un effetto dell’influenza sociale reciproca all’interno dei gruppi è noto con il nome di pola­rizzazione di gruppo, ossia la tendenza ad assu­mere posizioni che sono più estreme della media delle posizioni iniziali dei singoli membri, co­munque nella direzione già intrapresa dal gruppo (Hewstone, Stroebe, Jonas e Voci, 2010).

Il fenomeno della polarizzazione di gruppo viene spiegato facendo riferimento a tre processi fonda­mentali. Il primo processo richiama il concetto di influenza informativa resa possibile dal ricorso ad argomentazioni persuasive in grado di favorire una risposta consensuale che rende più estremi gli atteggiamenti. La forza persuasiva delle argomen­tazioni e la loro ripetizione contribuisce in tal sen­so allo spostamento verso giudizi più estremi. Un secondo processo si basa sulla teoria del confron­to sociale formulata da Festinger già nel 1954. In questo caso la spiegazione, anziché fare ricorso all’impatto dell’influenza informativa, chiama in causa il verificarsi di un’influenza normativa. Se­condo questa teoria, i membri di un gruppo, con­frontandosi reciprocamente, avvertono il bisogno di sentirsi valutati positivamente e approvati e un modo per ottenere tale approvazione all’interno del gruppo è proprio quello di accentuare quelle risposte che siano ritenute socialmente desiderabi­li dal gruppo stesso. Un terzo processo, fa di nuo­vo riferimento al concetto di categorizzazione di sé. Pur ammettendo il peso delle argomentazioni persuasive, si tratta anche in questo caso di una spiegazione normativa che pone tuttavia l’accento non tanto sulle posizioni intragruppo (come nella teoria del confronto sociale) ma sul fatto che l’appartenenza al gruppo crei differenze tra l’ingroup e l’outgroup. La polarizzazione di grup­po si accentua dunque quando è presente un riferi­mento ad un gruppo esterno, con la tendenza degli atteggiamenti dei membri verso la norma di grup­po percepita, che porta a sua volta ad una defini­zione più positiva dell’ingroup rispetto all’out­group (Hogg, Turner e Davidson, 1990). In questo caso la norma del gruppo risulterebbe già in par­tenza più estrema della media delle norme indivi­duali e ciò risulta tanto più accentuato quanto più saliente è l’appartenenza al gruppo. Ad oggi si ri­tiene che entrambi i tipi di influenza, informativa e normativa, siano determinanti nel produrre una polarizzazione di gruppo in modo variabile a se­conda del contesto e della situazione. In tal senso la teoria della categorizzazione di sé riesce ad in­tegrare gli altri due approcci in quanto riconosce che le argomentazioni degli altri membri dell’ingroup saranno più persuasive di quelle dell’outgroup e riconosce anche l’impatto che es­sere a conoscenza della posizione dei membri del proprio gruppo possa spingere verso posizioni an­cora più estreme se ritenute desiderabili dal grup­po stesso (Hewstone, Stroebe, Jonas e Voci, 2010).

Una forma estrema della polarizzazione di gruppo trova espressione nel pensiero di gruppo che rap­presenta la tendenza, soprattutto nei processi deci­sionali, da parte dei membri di un gruppo coeso, ad orientarsi in modo unanime perdendo di vista la ricchezza di posizioni alternative. Tale tendenza rispecchia in modo evidente quella forma di pen­siero convergente che sostiene la tendenza all’omologazione. Il pensiero di gruppo rappre­senta anche la forma estrema dell’influenza nor­mativa in cui la ricerca del consenso e della lealtà al gruppo risulta più importante dell’influenza in­formativa fondata sulla valutazione e l’accettazio­ne del messaggio persuasivo e rinforzando di con­seguenza la risposta di acquiescenza da parte dei membri. Alla base del pensiero di gruppo vi sa­rebbero dunque alta coesione, isolamento del gruppo, la presenza di un leader carismatico, la mancanza di scambio interno al gruppo, la pres­sione a raggiungere una posizione (Janis, 1982).

Fenomeni come la depersonalizzazione, la deindi­viduazione, il favoritismo verso l’ingroup, la po­larizzazione di gruppo e il pensiero di gruppo pos­sono essere intesi anche come forme di centrismo di gruppo. Esso include una serie di atteggiamenti (opinioni, valutazioni affettive e comportamenti) che rispecchiano il significato e il valore che il gruppo ha per i suoi membri e che si caratterizza per una marcata ricerca di consensualità e omoge­neità interne, una tendenza al conservatorismo, la preferenza per una leadership forte e sentimenti positivi verso l’ingroup e negativi verso l’out­group. A suo rinforzo entra in gioco il bisogno di chiusura cognitiva che regola i processi di assimi­lazione e mantenimento delle conoscenze di un gruppo (Kruglanski 1989, 2004).

Nello specifico, a livello di formazione di cono­scenze, un alto livello di chiusura cognitiva, può determinare un incremento delle seguenti dimen­sioni del centrismo di gruppo: preferenza per l’uniformità piuttosto che per la differenziazione e pressione che ciascun membro esercita sugli altri verso l’uniformità; prevalenza di fenomeni di au­tocrazia (il potere è esercitato da una o poche per­sone); forte attaccamento all’ingroup e rifiuto di gruppi esterni. A livello del mantenimento delle conoscenze acquisite, un alto livello di chiusura cognitiva comporta un accrescimento delle se­guenti dimensione del centrismo di gruppo: rifiuto delle opinioni devianti che rappresentino una mi­naccia al consenso interno all’ingroup con conse­guente accettazione e valorizzazione di membri che si mostrino attivamente conformisti; rinforzo di atteggiamenti conservatori e opposizione verso quelli innovativi; tendenza a reprimere in modo ostile ogni forma di violazione normativa che possa minacciare la realtà socialmente condivisa e mantenimento delle norme di gruppo già consoli­date; promozione della lealtà verso la cultura del gruppo (Pierro, De Grada, Kruglanski e Mannetti, 2007).

L’obbedienza all’autorità

Nell’ambito degli studi sull’influenza sociale un contributo significativo è derivato dalla ricerca di Milgram (1963, 1974) sull’obbedienza all’autori­tà, in seguito riproposto per ulteriori manipolazio­ni delle variabili ritenute fondamentali (Blass, 1999; 2000; Miller, Collins e Brief, 1995). Tale studio, seppur sollevando critiche per alcune que­stioni etiche, ha avuto il merito di aver posto l’attenzione sulla complessità di quei processi che regolano la risposta ad un ordine proveniente da una persona di status sociale più elevato all’inter­no di una gerarchia definita. Milgram compì 18 studi, in ciascuno dei quali modificò volutamente alcune variabili per valutarne l’impatto sul livello di obbedienza. Nel primo di questi studi reclutò 40 partecipanti maschi con un annuncio in cui non si accennava alla questione dell’obbedienza. Nel contesto del laboratorio lo sperimentatore spiega­va ai soggetti che in modo casuale sarebbe stato assegnato loro il ruolo di insegnante o di allievo (in realtà l’allievo-vittima era sempre un complice dello sperimentatore). L’esperimento consisteva nella somministrazione da parte del soggetto nel ruolo di insegnante, di una scossa elettrica, di in­tensità crescente, all’allievo ogniqualvolta questi avesse risposto in modo errato in un compito di apprendimento, attraverso un finto generatore di corrente. Le risposte simulate della vittima segui­vano una sequenza predeterminata che esprimeva dolore in modo crescente al crescere dell’intensità delle scosse elettriche, così come erano stati ben categorizzati gli ordini che dava lo sperimentatore in modo da risultare sempre più forti e incisivi. Al termine di questo primo esperimento risultò che il 65% dei partecipanti, ossia 26 soggetti su 40 por­tò a termine l’esperimento mostrando un’obbe­dienza totale, una percentuale sorprendentemente superiore rispetto a quella riscontrata se i soggetti venivano lasciati liberi di decidere il livello della scossa da somministrare o venivano semplice­mente interpellati sulla previsione del loro com­portamento in quella situazione sperimentale, ma senza essere sottoposti all’esperimento.

Attraverso la manipolazione di alcune variabili chiave, Milgram riusci inoltre ad individuare in quali circostanze l’obbedienza risultasse più ele­vata. I fattori risultati più influenti furono: la lon­tananza della vittima; la vicinanza dello sperimen­tatore nelle vesti dell’autorità e la legittimazione della stessa; la pressione dei pari. Sebbene siano risultate influenti anche alcune caratteristiche di personalità dei soggetti partecipanti (persone con tendente autoritarie tenderebbero ad obbedire di più), tale protocollo di ricerca ha fonda­mentalmente sottolineato il ruolo e l’incidenza dei fattori situazionali nella messa in atto di compor­tamenti distruttivi e lesivi nei confronti di altre persone. Anche in questo caso risulterebbe deter­minante la presenza di una leadership forte e la pressione all’uniformità esercitata dai pari, soprat­tutto se agite in un contesto di ridotta libertà reale o percepita e l’altro possa essere considerato come lontano da sé fisicamente o simbolicamente in quanto appartenente a gruppi estranei. L’indu­zione di un ordine, sortirebbe inoltre, come sotto­linea lo stesso Milgram, un effetto di responsabili­tà diffusa, che se non elimina il senso di sofferen­za per quanto impartito ad una vittima, è comun­que in grado di ridurre la sottostante dissonanza cognitiva, derivante dall’agire in modo contrario ai propri valori.

La deindividuazione e gli effetti del potere su chi lo esercita

Un ulteriore tassello nella comprensione del com­portamento umano in contesti sociali è stato forni­to dal celebre esperimento compiuto nei sotterra­nei dell’università di Stanford in cui fu simulata una vera prigione (Haney, Banks e Zimbardo, 1973). A partire dall’obiettivo di confutare alcuni pregiudizi che caratterizzano la vita del carcere, gli autori strutturarono un pano di ricerca per stu­diare il comportamento messo in atto da persone non incriminate, né guardie professioniste, una volta calate in tali ruoli. I soggetti, reclutati tra volontari che avevano risposto ad un annuncio, furono dunque assegnati ad uno dei due ruoli con l’obiettivo di verificare se una tale situazione fos­se in grado di condizionare il comportamento di tali soggetti. L’esperimento, previsto per un tempo di due settimane, fu in realtà interrotto al sesto giorno per la gravità e la rigidità dei comporta­menti agiti dai partecipanti.

Coloro a cui fu assegnato il ruolo di prigionieri cominciarono a breve e in modo crescente a mani­festare un peggioramento dell’umore, depressioni, crisi di pianto, rabbia, dolori, ansia e la richiesta sempre più impellente di poter tornare a casa. Questa serie di reazioni, attraverso le quali la per­sona finiva per perdere il senso della sua identità personale, fu spiegata con il termine di deindivi­duazione.

Coloro che invece esercitavano il ruolo di guar­die, lasciati liberi di decidere e applicare qualun­que forma di disciplina ritenessero necessaria, co­minciarono in modo progressivo a far sempre più uso di forme di potere coercitivo verso i prigio­nieri, fino ad arrivare a delle vere e proprie forme di abuso. Con il passare del tempo il comporta­mento ingiurioso delle guardie tendeva ad accen­tuarsi e a persistere anche quando i prigionieri avevano smesso di reagire.

Alcune riflessioni furono tratte dall’esperimento circa l’uso e l’abuso del potere in situazioni di questo tipo. In primo luogo che l’accessibilità a strumenti di potere accentua la possibilità che si faccia ricorso al potere. Inoltre maggiore è il pote­re usato, maggiore è la convinzione di chi lo de­tiene di poter controllare le azioni della vittima. In condizioni di abuso di potere la vittima è fatta og­getto di svalutazione e tale processo di svalutazio­ne sembra accentuarsi nei casi in cui la vittima sembra non temere di essere punita o quando si mostra compiacente e ossequiosa, elementi questi ultimi interpretati come segnale di debolezza. La svalutazione della vittima aumenta anche all’aumentare della distanza sociale tra il detento­re del potere e la vittima. Infine un elemento di rinforzo al perpetrarsi di tale abuso di potere è an­che dato dall’accrescimento dell’autostima di co­lui che ha il potere, il che rende particolarmente difficile decidere di rinunciare a tale ruolo (Ger­gen e Gergen, 1990).

La comunicazione persuasiva

La persuasione è un processo comunicativo, stu­diato e codificato dai sofisti retori ed oratori già nella Grecia del V secolo avanti Cristo. Un velo­cissimo excursus permette di comprendere come il processo persuasivo della comunicazione abbia potuto attingere, nel corso dei secoli, da varie fon­ti di conoscenza iniziando probabilmente da Cora­ce, per poi complessizzarsi sempre più con Tisia, Gorgia, Lisia, Protagora, Antifonte, fino ad arriva­re a Platone ed Aristotele ed al mondo romano con Appio Claudio, Catone e Cicerone. Nel vente­simo secolo la persuasione diventa una necessità politica e sociale, uscendo dagli schemi accademi­ci o scolastici entrando in ambiti di studio e di ap­plicazione sempre più quotidiani e pragmatici.

L’avvento delle Guerre Mondiali ha fatto sì che fossero riutilizzati gli antichi strumenti comunica­tivi di retori e oratori in un ambito contemporaneo e decisamente più allargato socialmente: con la propaganda politica e militare molti governi del tempo iniziarono a stanziare fondi per la ricerca su un tipo di comunicazione che potesse modifi­care il pensiero e le motivazioni delle popolazio­ni. Negli anni ‘40 del 1900, il governo statuniten­se chiese a Carl Hovland, docente presso l’Uni­versità di Yale, di formare un gruppo di psicologi sociali che approfondissero in modo analitico i meccanismi mentali strettamente correlati con la comunicazione persuasiva. In quegli anni nacque un gruppo di studiosi ancora adesso ricordato come “Scuola di Yale” strettamente associata alla nascita delle moderne acquisizioni sulla persua­sione.

Secondo gli psicologi sociali della Scuola di Yale (Hovland, 1951, 1953, 1959; Janis, 1953), il cam­biamento di atteggiamento proprio della persua­sione, viene mediato dall’apprendimento e dal ri­cordo del contenuto del messaggio, a loro volta facilitati dagli incentivi ad adottare la posizione proposta. I primi studi sistematici sulla persuasio­ne suddividono il flusso di informazioni in classi: l’emittente, il messaggio, il canale comunicativo, il destinatario, il contesto comunicativo. Jerry Mc Guire (1968) ampliò lo studio dell’impatto persua­sivo di una comunicazione; secondo questo autore tale impatto può essere inteso come il prodotto di successive fasi dell’elaborazione dell’informazio­ne, il fallimento di una fase interrompe drastica­mente la sequenza rendendo inefficace il processo di cambiamento di atteggiamento. Le sei fasi fu­rono identificate così:

1) la presentazione (cioè la mera esposizione del messaggio),

2) l’attenzione (assenza di distrazione),

3) la comprensione ( linguaggio facilmente deco­dificabile dal destinatario),

4) il cedimento (accordo con l’emittente),

5) la ritenzione (cioè la memorizzazione del mes­saggio),

6) infine, l’azione (cambiamento conforme all’obiettivo comunicativo).

Da questi approcci iniziali alla cosiddetta “scienza della persuasione”, si passò velocemente a com­porre studi e progetti di ricerca su numerosi argo­menti, in particolar modo: quanti argomenti do­vesse contenere un messaggio persuasivo; quanto veloce dovesse essere un discorso persuasivo; in quale ordine dovessero essere posti gli argomenti di presentazione (effetto primacy ed effetto recen­cy)‏; in che modo usare la comunicazione non-ver­bale all’interno della comunicazione persuasiva; il peso dell’attendibilità della fonte o l’aspetto fisico del persuasore; l’efficacia dei messaggi intimida­tori (uso della paura); l’uso della ripetizione del messaggio.

Un cambio di paradigma importante, nello studio della persuasione si ha con Anthony Greenwald (1968), secondo il quale un messaggio persuasivo attiva nella nostra mente una sorta di discussione tra l’informazione entrante e le conoscenze pre­gresse; quanto più il messaggio ricevuto richiama pensieri favorevoli tanto più sarà persuasivo. Se­condo Greenwald quindi, la ricezione del messag­gio è mediata dai pensieri (le risposte cognitive) stimolati dalle informazioni stesse. Questa acqui­sizione poté aprire la strada alla comprensione di quanto la stimolazione di pensieri ed emozioni possa diventare strumento potente nel rag­giungimento dell’obiettivo persuasivo.

Un altro passo importante nello studio della per­suasione e del controllo mentale sono state le ri­cerche di Leon Festinger (1978, 2012). Secondo Festinger i processi mentali delle persone sono guidati dalla motivazione a ridurre gli stati di dis­sonanza cognitiva, che sarebbero per natura desta­bilizzanti. L’individuo mira alla coerenza con se stesso, la relazione di dissonanza tra due cogni­zioni (conoscenze, opinioni, credenze) o una co­gnizione e un comportamento, genera un disagio che spinge l’individuo a cercare di ristabilire la coerenza modificando l’elemento meno resistente del sistema: la dissonanza aumenta quando l’indi­viduo dopo aver messo atto un comportamento si trova a mutare atteggiamento verso quel compor­tamento. Poiché l’elemento meno resistente risul­terà essere l’atteggiamento, visto che il comporta­mento è già stato messo in atto, la dissonanza sarà ridotta cambiando i propri atteggiamenti nei con­fronti del comportamento; la dissonanza cognitiva funziona molto bene in situazioni non coercitive, nel momento in cui vi è costrizione fisica o vio­lenza fisica, essa non avrà l’effetto autopersuasivo conosciuto. In un classico esperimento di Festin­ger e Carlsmith (1959) veniva chiesto ai soggetti sperimentali di svolgere un compito molto noioso e poi di spiegare lo stesso compito al soggetto se­guente descrivendolo come molto interessante. Alcuni soggetti vennero pagati molto, mentre ad altri venne corrisposta una cifra molto bassa. Il ri­sultato fu che i soggetti pagati insufficientemente descrissero il compito come interessante più di quelli pagati molto; una spiegazione data fu che, in chi era stato ben pagato, la dissonanza cogniti­va prodotta dal compito noioso e dalla descrizione non vera fu risolta meglio di chi non era stato ade­guatamente pagato. Se la ricompensa economica alta fornì una giustificazione a dichiarare il falso, ciò non fu possibile per chi non la ricevette e che per ricreare coerenza decise di cambiare atteggia­mento verso il compito. Un’altra spiegazione la fornì Daryl Bem (1967), il quale affermò che spesso gli individui non sono a conoscenza dei propri atteggiamenti e cercano così di identificarli cogliendo elementi esterni da sé, come se fossero nella posizione di osservatori esterni. In sostanza, la conoscenza dei propri at­teggiamenti deriverebbe da ricordi di esperienze passate.

Un ulteriore quadro teorico aiuta a spiegare il pro­cesso persuasivo sottostante al comportamento sociale che più semplicemente chiamiamo fanati­smo. Richard Petty e John Cacioppo (1986, 1996) focalizzarono i loro studi sulle capacità e la moti­vazione che gli individui mettono in atto nell’ela­borare le informazioni che ricevono. Secondo i due psicologi sociali la qualità e la quantità dell’attività cognitiva che ogni persona dedica ad un messaggio persuasivo ha un’influenza rilevante sul processo di persuasione.

Petty e Cacioppo presero in considerazione due processi comunicativi, in particolare: la via cen­trale e la via periferica. Attraverso la “via centra­le” l’individuo valuta in maniera attenta e con concentrazione il peso reale dell’informazione fa­cendo attenzione al contenuto del messaggio per­suasivo. Per “via periferica” si intende l’applica­zione di processi a basso sforzo cognitivo come il condizionamento, l’identificazione, le euristiche, prestando poca attenzione al contenuto. Seguendo questo filone di studi e, soprattutto, quelli di Shel­ley Chaiken sulle euristiche (Chaiken, Wood, Eagly, 1996), Robert Cialdini (1999) fissò delle cornici teoriche importanti sul piano operativo. Questo psicologo sociale, studiò molti degli espe­rimenti fatti nei decenni precedenti alla luce del modello euristico sistematico della Chaiken e di quello dell’elaborazione sistematica di Petty e Ca­cioppo, evidenziando l’importanza che le euristi­che cognitive assumono nelle decisioni degli esse­ri umani. Le euristiche sono strategie cognitive, scorciatoie di pensiero che permettono alle perso­ne di emettere giudizi sociali molto rapidamente, ricavare inferenze dal contesto, attribuire signifi­cato alle situazioni e prendere decisioni a fronte di problemi complessi o di informazioni incomplete. Cialdini notò che pur funzionando bene nella maggior parte delle circostanze quotidiane, le eu­ristiche, in certi casi, possono portare ad errori si­stematici. Secondo la Chaiken, e così anche per Cialdini, ad alti livelli di motivazione e capacità, prevale negli individui l’uso della modalità siste­matica con attenta analisi del contenuto comuni­cativo, anche se si continua ad usare in forma mi­nore l’euristica; mentre a bassi livelli di motiva­zione e capacità di elaborazione del messaggio, prevarrà l’uso della modalità euristica. Ciò signifi­ca che nel processo persuasivo e di manipolazione mentale si possono ottenere risultati positivi creando situazioni di basso coinvolgimento cogni­tivo e bassa motivazione (per esempio con l’uso della paura o stimolando nell’individuo il senso di urgenza): la vittima tenderà a rispondere in auto­matico seguendo la modalità euristica, tale rispo­sta sarà quindi facilmente prevedibile.

Cialdini individuò anche alcuni principi all’inter­no dei quali ci si possa aspettare tale prevedibilità (Cialdini, 2005, 2009):

  1. la reciprocità; quando qualcuno fa un re­galo ad un altro, che sia un dono o un fa­vore, si aspetterà qualcosa in cambio (dall’altra parte, il beneficiario si sentirà consapevolmente o inconsapevolmente in dovere di ricambiare). Il principio di reci­procità può essere ritrovato nei processi di affiliazione: dove non c’è reciprocità i le­gami sono poco stabili perché si crea un basso livello di soddisfazione.

  2. Impegno-coerenza; dopo aver preso una posizione, una persona tenderà ad accon­sentire a richieste di comportamento che siano coerenti con quella posizione.

  3. Secondo la prova sociale una persona ten­derà ad acconsentire ad una richiesta nella misura in cui altre persone simili lo hanno fatto o lo stanno facendo. La prova sociale è considerata prova di verità.

  4. Nel principio di autorità, l’euristica deri­vante è che una persona tenderà a seguire i suggerimenti di una autorità che considera legittima. Esempi importanti sono gli esperimenti di Milgram e Zimbardo citati precedentemente

  5. Amicizia-simpatia; una persona tenderà ad acconsentire alle richieste fatte da amici o da altre persone gradite.

  6. Nel principio di scarsità ritroviamo come euristica sottostante, il concetto che le per­sone cercano di assicurarsi le occasioni che scarseggiano. La scarsità aumenta il desiderio di qualcosa perché opera una re­strizione alla libertà di poterla avere, ri­chiamando gli studi di Brehm sulla reat­tanza psicologica. La reattanza psicologica è quella reazione che ogni individuo ha nei confronti di una restrizione (vera o presun­ta) della libertà personale (Brehm, 1966, 1989; Brehm & Brehm, 1981).

I processi affiliativi e la loro estremizzazione

Dopo aver preso in esame alcuni dei principali processi che regolano le relazioni interpersonali e in modo ancor più preciso il funzionamento dei gruppi e gli aspetti che caratterizzano la comuni­cazione persuasiva, verrà di seguito proposta una riflessione su come essi possano entrare in gioco nell’influenzare l’affiliazione dei membri ad un nuovo gruppo. Molti dei principali modelli teorici sono stati elaborati per spiegare i processi di con­versione a gruppi religiosi anche estremi e devianti rispetto alla società di riferimento, ma i loro principi possono essere generalizzati anche ad altre tipologie di gruppi aventi la medesima ca­ratteristica di presentarsi in contrasto con l’ideolo­gia dominante.

Uno dei modelli classici di riferimento è stato quello di Lofland e Stark (1965), in seguito ripre­so da diversi autori e che sottolinea come alla base del processo affiliativo vi siano sia predispo­sizioni personali che fattori situazionali. Tra i primi si fa riferimento alla presenza di uno stato interno di tensione, la tendenza a cercare risposte ai problemi anche in modo trascendentale, la percezione di sé come cercatore di un credo di­verso da quello convenzionale. Tra i fattori situa­zionali si trovano l’incontro con un membro del gruppo in un momento cruciale e critico della pro­pria vita, lo sviluppo di legami affettivi con gli al­tri membri del gruppo, l’indebolimento dei legami affettivi con le persone esterne fino a quel mo­mento frequentate, una interazione intesa e signi­ficativa all’interno del gruppo.

A tal proposito, anche Zimbardo e Harley (1985) a seguito di una loro ricerca, hanno sottolineato che la decisione di affiliarsi ad un gruppo sia il frutto di una complessa interazione che include, tra i diversi fattori, la conoscenza preliminare del­la realtà rappresentata dal gruppo, i valori perso­nali, l’impatto delle tecniche di reclutamento, il setting in cui avviene il contatto, e in modo parti­colare la trasformazione cognitiva e l’esperienza affettiva associata.

Come frutto di un lavoro di ricerca, Buxant e Sa­roglou, (2008) evidenziano che le persone che tendono ad affiliarsi a gruppi alternativi tendono a mettere meno in discussione le loro credenze, ad essere più sottomesse all’autorità, ad essere meno autonomi e ad abbracciare valori relativi all’ordi­ne sociale, tutte caratteristiche già considerate come tipiche del centrismo di gruppo, caratteriz­zato da un alto livello di chiusura cognitiva.

Una visione integrata dei processi che regolano l’affiliazione dei membri a gruppi non convenzio­nali, e per quanto ci riguarda anche estremi è for­nita da Rambo (1993), che attraverso un’analisi approfondita dei diversi stadi ribadisce ancora una volta la complessa relazione che intercorre tra fat­tori personali e situazionali in una visione dinami­ca di tale relazione.

In primo luogo viene sottolineato il ruolo del con­testo in cui avviene il processo di cambiamento e affiliazione, contesto inteso sia nella sua dimen­sione macrosociale (il sistema politico, religioso, economico, sociale…) che in quella microsociale (la famiglia, gli amici, l’ambiente di lavoro..).

Un passaggio importante che avvia il processo della ricerca di una nuova e intensa affiliazione è rappresentato dal sopraggiungere di una crisi per­sonale, che seppur nella sua ampia diversità, pone in discussione il precedente sistema di convinzio­ni dell’individuo e l’orientamento fondamentale della sua esistenza. Tra i fattori scatenanti, si pos­sono individuare esperienze più o meno dramma­tiche, spesso connotate da un forte coinvolgimen­to emotivo come ad esempio: esperienze mistiche, condizioni di malattie e guarigione, l’insoddisfa­zione per la propria vita e la spinta a ricercare esperienze più significative, il desiderio di tra­scendenza, stati alterati di coscienza anche dovuti all’uso di droghe, la ricerca di identità, la perdita di alcuni punti di riferimento, la presenza di di­sturbi o disagio psicologico, il verificarsi di alcuni eventi significativi a livello sociale, politico, eco­nomico o religioso.

Il passaggio successivo è quello della ricerca, che rispecchia secondo l’autore la tendenza innata di dare un significato alla propria vita, in modo atti­vo o passivo. Più nello specifico lo stile attivato nella fase della ricerca si pone lungo un conti­nuum che va dalla ricerca attiva di nuove esperienze, alla recettività, al rifiuto, alla passività in cui più facilmente l’individuo risulta manipola­bile da influenze esterne. La risposta alla crisi e la ricerca di nuove affiliazioni risultano inoltre con­dizionate dal livello di disponibilità della persona al cambiamento nella misura del grado di libertà possibile nell’abbandonare i propri impegni, ob­blighi, cambiare abitudini e schemi emotivi e in­tellettuali. Gli aspetti emozionali giocano un ruolo importante sia come ostacoli, allorché l’individuo privilegia i legami già esistenti rispetto ai messag­gi di proselitismo, che come collante, in quanto l’instaurarsi di nuovi legami affettivi all’interno del gruppo rappresenta un rinforzo potente del processo affiliativo. Da un punto di vista intellet­tuale va invece sottolineato che l’adesione a nuovi gruppi risulta facilitata da una certa compatibilità e continuità tra le idee precedenti dell’individuo e l’ideologia proposta.

Un ulteriore stadio è quello dell’incontro, ossia il contatto tra l’individuo e il reclutatore del gruppo. Ancora una volta è bene sottolineare che tale in­contro avviene in un setting, che può essere molto differenziato, ed è il frutto dell’interrelazione tra bisogni affettivi, intellettuali e cognitivi di en­trambe le parti (Rambo e Bauman, 2012). Le stra­tegie persuasive adottate dal reclutatore possono essere più o meno attive, diffuse o concentrate e utilizzare diversi canali. A prescindere dalla diver­sità dello stile e dalle caratteristiche del gruppo, l’obiettivo del reclutatore è comunque quello di evidenziare i benefici per l’individuo derivanti dall’affiliazione al gruppo. Solitamente in questa fase si fa leva sui benefici a livello cognitivo, of­frendo una nuova e direzionata visione della vita, benefici emozionali, legati al senso di appartenen­za, sviluppo di nuove relazioni, entusiasmo, sol­lievo, benefici nello stile di vita, con l’adozione di nuove abitudini e attività, benefici legati all’iden­tificazione con un figura carismatica, che diventa giuda e modello da imitare.

Un ulteriore stadio è quello dell’interazione con in gruppo che consente il consolidarsi della cono­scenza dell’ideologia del gruppo e delle sue prassi e e può portare ad una adesione definitiva, attesa o rifiuto. Anche in questa fase si colloca lungo un continuum il livello di attività/passività dell’indi­viduo e di persuasione/manipolazione del recluta­tore. In questa fase il gruppo attua un processo di alto coinvolgimento dell’individuo che può essere fisico, sociale e ideologico. A livello fisico viene creata una condizione di isolamento in cui vengo­no fornite solo le informazioni e le conoscenze proprie del gruppo; a livello sociale viene limitato o bloccato il contatto con persone esterne al grup­po, anche attraverso l’impegno continuativo in at­tività interne al gruppo; a livello ideologico avvie­ne un intenso indottrinamento in modo da incul­care le idee del gruppo. In questa fase le relazioni con gli altri membri del gruppo consolidano a loro volta i nuovi schemi cognitivi ed emozionali dan­do una coloritura positiva alla nuova appartenen­za. L’uso dei rituali sancisce un nuovo sistema di vita destrutturando il precedente mentre al tempo stesso viene acquisita una nuova forma di lin­guaggio propria del gruppo, attraverso la quale dare significato ad eventi che riguardano se stessi e gli altri. Studi condotti sulla dissonanza cogniti­va hanno dimostrato che quanto più i rituali impo­sti dal gruppo risultano severi e presentano costi elevati per l’individuo che li attua, tanto più au­menta la sua fedeltà al gruppo (Aronson, 2006). Infine la fase dell’interazione è contrassegnata dall’assunzione di ruoli specifici che rinforzano il coinvolgimento della persona convincendola di avere una missione straordinaria da compiere.

Dopo un tempo più o meno lungo viene sancito l’impegno della persona all’interno del gruppo che rappresenta la scelta se aderire completamen­te all’ideologia del gruppo e impegnarsi seriamen­te o abbandonare il gruppo. Lo stadio dell’impe­gno a sua volta implica: una fase decisionale, in cui di nuovo possono riemergere eventuali vincoli con il contesto di origine; la messa in atto di ritua­li, spesso pubblici che ratificano, sotto forma di una cerimonia, l’inclusione ufficiale nel gruppo; l’abbandono del passato e l’affidarsi alla nuova realtà; la testimonianza della propria affiliazione che ha la duplice funzione di cercare nuovi adepti ma anche crearsi un quadro di riferimento entro il quale, spesso in modo imposto dal gruppo, rileg­gere e dare significato alla propria esperienza (Rambo, 1993).

Conclusioni

Il funzionamento dei gruppi, nel loro diver­so grado di inclusività sociale, rappresenta una fondamentale chiave di lettura per dare spiegazio­ne a fenomeni difficilmente ascrivibili al solo am­bito delle motivazioni intraindividuali. Anche l’analisi dei processi affiliativi va nella stessa di­rezione evidenziando come tale affiliazione debba essere considerata come l’incontro di disposizioni personali e strategie persuasive atte a favorire la partecipazione e l’adesione ideologica al gruppo. Processi come quelli legati all’identità sociale e di categorizzazione di sé, influenzano le reazioni de­gli individui in quanto parte di gruppi, determi­nando fenomeni come la polarizzazione di gruppo e il pensiero di gruppo. Tanto più saliente diventa l’identità sociale e radicale la categorizzazione di sé, nella polarità ingroup-outgroup, tanto più si rinforza l’appartenenza al gruppo e si può assiste­re al manifestarsi di processi legati al centrismo di gruppo. La chiusura cognitiva che impedisce il confronto sociale delle informazioni, la tendenza all’autocrazia, l’uniformità e la pressione dei pari all’uniformità, nonché l’utilizzo di modalità per­suasive coercitive, sono tutti fattori in grado di fa­vorire l’estremizzazione dei comportamenti a fa­vore del proprio gruppo e giustificare il conflitto e l’ostilità verso i membri di gruppi esterni, caratte­ristiche salienti di ogni forma di fanatismo.

 

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