L’influenza sociale nell’esercizio del potere.

Come si strutturano le gerarchie di potere e la loro influenza sul benessere mentale


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All’interno dei gruppi di vi sono delle relazioni di potere e, ponendo l’accento sui processi di influenza sociale, è possibile analizzare come si instaurano e si mantengono tali relazioni nel lungo termine. Queste dinamiche sono riscontrabili, possono essere studiate ed osservate su più livelli di analisi: da quello individuale, che riguarda il singolo soggetto, a quello più propriamente sociale, che riguarda i gruppi, fino ad arrivare ad un livello comunitario, che invece considera la società nella sua interezza.

Le differenze di potere che si stabiliscono in merito alla detenzione di potere hanno delle conseguenze sugli individui, sui gruppi, e sui gruppi che costituiscono la società: l’asimmetria di potere, condizione caratteristica delle relazioni, può avere delle conseguenze negative sulla salute mentale degli individui andando così ad incidere rispettivamente sulla percezione del proprio valore e del valore del proprio gruppo di riferimento. Le relazioni asimmetriche che concernono queste differenze di potere e status, caratterizzate da dominanza e sottomissione, risultano collegate con i processi relativi all’influenza sociale che possono effettivamente facilitare la creazione delle stesse e facilitarne il mantenimento nel tempo, rendendole anche permanenti.

Tutto ciò va ad incidere sulla salute mentale in quanto i processi psicologici implicati nelle dinamiche di dominanza e sottomissione possono, in una condizione di rigidità, incrementare i livelli di percezione di disagio psicologico degli individui e, nei casi più gravi, favorire l’insorgenza di disturbi (Sidanius & Pratto, 2001).

Il ruolo della folla in questa prospettiva

Nel corso degli anni è stato possibile riscontrare un’evoluzione della definizione della folla: essa può essere vista lungo un continuum che va dall’agglomerato puramente istintuale, alla comparazione con i gruppi, fino allo sviluppo di una concezione della folla come movimento di massa. Nei primi studi è stata proposta una visione meramente istintiva, fautrice della folla “anonima”; oggi si tende a dare più spazio al rapporto che si instaura tra i processi dei singoli e quelli della folla stessa, in concomitanza al ruolo attivo che assume l’individuo.

La folla ha la forte tendenza a tramutare le idee e le emozioni in comportamenti. L’individuo, in questa situazione, è caratterizzato da una volontà alterata, eccessivamente emotiva, suggestionabile, incoerente, ed estremamente propensa all’agire (Le Bon, 2004).

Una delle caratteristiche pregnanti della folla è l’influenza suggestiva e il conseguente contagio: gli stati emotivi degli individui si influenzano e si combinano, direttamente e reciprocamente, in modo tale che l’interazione generi un’attivazione, di carattere generale, che garantisca al gruppo l’unitarietà (Park, 1996).

In merito a questi presupposti, le linee di studio più importanti che sono state portate avanti per analizzare i processi di adesione ad una folla, su un piano prettamente psicologico, sono rispettivamente (Zampi, 2013):

  • Sull’identificazione sociale: ossia studi in merito allo sviluppo di un’identità specifica relativa al gruppo, un’identità mutevole e occasionale, basata sulle norme del gruppo di riferimento;

  • Sul contagio emotivo: ossia studi che analizzano il fatto che i sentimenti tra gli individui sono condivisi e imitati. Nella folla questo elemento è così evidente anche a causa del numero elevato di individui;

  • Sulla deindividuazione: è stato approfondito il fatto che l’individuo si sente esonerato da responsabilità personali dunque, quando si è in tanti, vengono meno tutti i freni inibitori del singolo;

  • Sulla polarizzazione: dove è stato messo in luce il fatto che le idee dei soggetti appartenenti a un gruppo, qualora vengano condivise, tendono ad estremizzarsi.

Alcune proposte analizzano maggiormente i processi sociali sottostanti alla folla, nell’ottica della costituzione di un’azione collettiva (Park, 1996); mentre altre analizzano la folla accomunandola ai gruppi assimilandone i processi (Reicher, 1984). Un ulteriore passaggio viene effettuato negli studi di Canetti (1981) infatti egli, sovrapponendo i termini massa e folla, definisce inizialmente due tipologie di massa: una aperta, ossia quel tipo di massa che tende ad accrescersi ma che rischia di disgregarsi; e una chiusa, ossia quel tipo di massa che tende a chiudersi in sé, in una propria sede, con lo scopo di guadagnare una maggiore resistenza nel tempo.

La struttura dei gruppi

Il gruppo è un’entità che ha significato per l’individuo e comprende tre componenti: una cognitiva, una valutativa e una emozionale. Il gruppo, per essere tale, necessita che coloro che ne fanno parte si definiscano come membri dello stesso, quindi vi è la condivisione di una determinata identità tra gli stessi (Tajfel, 1999).

Il gruppo è inteso anche come un’unità sociale ossia un insieme di individui che, in un determinato momento, sono in relazione e sono interdipendenti in merito a uno status e a un ruolo. Vi è inoltre un insieme di norme e valori condivisi che possono regolare gli atteggiamenti degli individui stessi (Sherif et al., 1969).

Le norme sono definite come il sistema di regole che indirizza gli atteggiamenti degli individui: esse stabiliscono i comportamenti ritenuti adeguati e rispecchiano quelle che sono le aspettative condivise del gruppo, in riferimento a determinati parametri, rendendo prevedibile il comportamento (Hewstone et al., 2015).

È possibile individuare una doppia funzione regolatrice delle norme: una di tipo individuale, in quanto esse hanno la capacità di orientare l’individuo attraverso strutture di riferimento che sono in grado di rendere il mondo più prevedibile, orientando l’azione e l’interpretazione di nuove situazioni; e una di tipo sociale, ossia esse sono in grado di regolare il gruppo, facilitare il raggiungimento di obiettivi, e inoltre migliorano l’identità stessa del gruppo (Sherif, 1936).

Quando si parla di ruolo si fa riferimento all’insieme delle aspettative in relazione al comportamento di una persona. Queste aspettative sono condivise e riguardano come un individuo dovrebbe comportarsi in un determinato gruppo, infatti il ruolo è frutto di interazioni tra i membri e può essere costruito, rinegoziato e modificato (Brown, 2005).

I ruoli sono importanti perché garantiscono una certa prevedibilità nei comportamenti e negli atteggiamenti degli individui facendo sì che il gruppo si percepisca come un’entità unita e stabile in continuità nel tempo, inoltre consentono l’organizzazione funzionale in riferimento ad obiettivi (Mazzara et al., 2013).

Lo status invece è una valutazione della posizione che un individuo occupa all’interno di un gruppo, secondo una scala di prestigio. Ci sono due indicatori fondamentali che determinano lo status e sono rispettivamente la capacità di proporre iniziative e la valutazione consensuale del prestigio. Le aspettative relative allo status sono in riferimento alla valutazione delle competenze degli individui; esse sono categorizzate come migliori o peggiori, quindi secondo un tono edonico. Tuttavia la definizione di uno status non è sempre ottimale e infallibile, infatti uno status inferiore può apportare un ruolo non corrispondente alle reali capacità dell’individuo (Brown, 2005).

La teoria che spiega questa dinamiche è quella degli Stati di aspettativa dove viene stabilito che, quando un gruppo deve svolgere un determinato compito, di solito i membri hanno già delle aspettative sulle specifiche competenze degli altri. Si ipotizza dunque che ci sia una correlazione tra le ineguaglianze esistenti nel gruppo e le aspettative di prestazione che vengono fatte dai membri. Ne consegue che, sulla base di determinate caratteristiche, gli individui stabiliranno l’utilità del contributo di ciascuno attraverso le aspettative: spesso esse possono diventare anche delle profezie che si autoavverano, apportando una migliore o peggiore prestazione (Hewstone et al., 2015).

Quando vi è un’interazione sociale è molto probabile che si abbiano delle aspettative sul comportamento e queste possono anticipare i comportamenti stessi sulla base di una serie di caratteristiche rilevanti per ciascuno. Le aspettative possono derivare da diversi stimoli e, una volta attivate, possono influire sulla modalità con cui le persone agiscono l’una con l’altra. Una volta che l’azione è stata effettuata sulla base di una determinata aspettativa, questo influenzerà anche il comportamento dell’altra persona in interazione. Le credenze influenzano la modalità di interazione e ciò può avvenire al punto che una persona si troverà ad agire in modo che l’altra confermi le proprie credenze iniziali, in questo caso si è verificato il fenomeno della profezia che si autoavvera (Stukas & Snyder, 2016).

Come ottenere il potere avvalendosi dell’influenza sociale

Per influenza sociale si intende la modalità con cui vengono modificati pensieri, emozioni, e comportamenti degli individui, o dei gruppi, in relazione alla presenza fisica o simbolica di altri individui o gruppi. Ci sono diverse tipologie di influenza e possono riguardare la fonte dell’influenza oppure alcune qualità specifiche che portano all’influenza stessa. Per influenza sociale accidentale si intende quel processo in cui il destinatario, o bersaglio, viene influenzato dalla presenza reale, o implicita, della fonte di influenza nonostante non vi sia un tentativo esplicito di effettuare questo processo da parte dell’agente. Si tratta quindi di una situazione in cui la fonte di influenza è passiva e quindi la sola presenza di essa, senza alcuna intenzione preliminare, può favorire o inibire determinati comportamenti L’influenza sociale deliberata invece è il risultato di un processo intenzionale: la fonte dell’influenza ha l’intento esplicito, o implicito, di influenzare un bersaglio, un target, per diversi motivi. L’acquiescenza (compliance) è il tipo di risposta accondiscendente del bersaglio nei confronti della fonte di influenza, senza che però vi sia un reale cambiamento di atteggiamento (Mucchi Faina et al., 2012).

Vi sono alcune tecniche utilizzate per apportare proprio l’acquiescenza come ad esempio le concessioni reciproche; lo sforzo in più dove maggiore è lo sforzo richiesto da un impegno preso, tanto maggiore sarà l’influenza sugli atteggiamenti di colui che l’ha assunto; il dubbio e la somiglianza; l’amicizia e la simpatia; l’autorità, secondo cui gli individui hanno un’estrema disponibilità a seguire l’ordine di un’autorità fino all’obbedienza automatica; la reattanza psicologica, correlata al principio della scarsità, in merito alla quale si può delineare che, ogni volta che un individuo avvertirà una minaccia o limitazione alla propria libertà di scelta, egli sarà portato a desiderare tutto ciò che garantisce il mantenimento di questa libertà (Cialdini, 1995).

Quando la fonte di influenza risulta essere la maggioranza dei membri di un gruppo si parla di influenza della maggioranza: in questo caso gli individui tendono a conformarsi e ad uniformarsi, essa può avvenire sia come influenza informativa che normativa; nel primo caso vi è l’accettazione di un’informazione proveniente dagli altri come verità, nel secondo invece vi è la conformità alle aspettative della maggioranza (Occhini, 2004).

Partendo da questo tipo di influenza si può quindi introdurre il fenomeno del conformismo, cioè l’adesione ad un’opinione o ad un comportamento della maggioranza anche quando questi risultano in contrasto con l’atteggiamento e il pensiero dell’individuo. In questo processo entrano in gioco sia l’influenza informativa che normativa perché l’individuo può rispettivamente provare un senso di pressione sociale, che si basa sulla volontà di ottenere dei rapporti soddisfacenti con gli altri, oppure può provare il desiderio di essere nel giusto e la sensazione che gli altri abbiano informazioni che lui non possiede (Mucchi Faina et al., 2012).

Dal momento che nella vita di tutti i giorni è raro che si possa raggiungere un consenso basato esclusivamente sulla realtà oggettiva, l’influenza sociale verrà sfruttata per creare una nuova realtà, basata sul consenso maggioritario, rappresentata dall’opinione pubblica: essa ha un ruolo fondamentale, ossia la creazione della realtà sociale, e l’obiettivo sarà quello di manipolare questo consenso, soprattutto attraverso i media, per apportare un potere di influenza sempre maggiore nelle mani di chi possiede questa risorsa.

La prima trattazione esplicativa per quanto riguarda l’opinione pubblica la troviamo nell’analisi di Lippmann dove egli espone che gli individui non possono venire a conoscenza, in modo diretto, di ciò che accade al di fuori della loro vita circoscritta, per questo motivo si creano delle corrispondenze tra il mondo e le immagini: questo bisogno di rappresentare il mondo fa sì che si creino degli pseudo-ambienti con cui ogni individuo agisce nel contesto reale. Lo pseudo-ambiente non è reale, è un ambiente formato da immagini che l’individuo riceve da diverse fonti e, tra queste, vi sono anche i mezzi di comunicazione. Viene utilizzato il termine “immagini” e viene evidenziato come l’immaginario collettivo abbia la capacità di influenzare la loro origine; esse possono produrre un’azione sociale e vengono chiamate Opinione Pubblica (www.unisalento.it).

Le principali teorie dei gruppi sociali

Quando gli individui interagiscono ognuno di loro ha la possibilità di influenzare e essere influenzato, quindi una persona ha determinate possibilità di influenza sulla base delle interazioni che si vengono a creare (Thibaut & Kelley, 1974).

Nei gruppi, oltre a condizioni strettamente sociali e interpersonali, entrano in gioco anche aspetti intrapsichici e valutativi nei confronti di sé e della realtà circostante (Brown, 2005).

Nella Teoria del confronto sociale l’identità dell’individuo è attivamente modellata attraverso il confronto delle proprie caratteristiche, abilità, e opinioni personali, con quelle degli altri. Le persone, quando non sono certe delle loro personali opinioni e in assenza di standard oggettivi, tendono a valutare un determinato stimolo o qualità paragonandolo con individui simili a loro. Il confronto sociale però è utilizzato anche in condizioni di oggettività in quanto il processo spesso è automatico e inconsapevole e, inoltre, incide sulla motivazione in quanto può avvenire con persone che hanno prestazioni migliori o peggiori: ciò introduce quindi un confronto verso l’alto, che serve a motivare e ispirare al raggiungimento di obiettivi superiori, e uno verso il basso, che invece tende ad alzare il tono dell’umore (Hewstone et al., 2015).

Di norma gli individui, per salvaguardare la stima di sé, scelgono persone simili con cui attuare il confronto e, quindi, di solito la scelta ricade su soggetti appartenenti al proprio gruppo. Nel caso di un confronto intergruppi l’individuo tenderà ad evidenziare le differenze con l’outgroup al fine di sottolineare la specificità positiva del proprio gruppo e, conseguentemente, del sé. In merito a ciò, dalle dinamiche di confronto sociale dipende anche la stima di sé: i gruppi con status inferiore molto difficilmente usciranno vincenti nel confronto con altri di status più elevato; in una situazione in cui questi due gruppi svolgeranno un compito, indipendentemente dalle loro capacità, essi valuteranno in modo migliore quello svolto dal gruppo con status più elevato (Brown, 2005).

La categorizzazione sociale invece è un processo che viene effettuato dall’individuo per semplificare l’ambiente sociale: di fatto viene utilizzata questa modalità proprio per semplificare i rapporti interpersonali sfruttando una classificazione delle persone, le quali vengono inserite all’interno di categorie sociali o gruppi (Gattino et al., 2008).

Le categorie si creano raggruppando una serie di stimoli in categorie discrete sulla base delle caratteristiche condivise, effettuando una suddivisione sulla base delle somiglianze. La categorizzazione, essendo un processo che favorisce la semplificazione, di per sé è di natura automatica ed è molto probabile che, una volta assegnata una determinata categoria allo stimolo, vengano recuperate anche le relative informazioni stereotipiche relative a quella categoria (Hewstone et al., 2015).

Per far sì che uno stimolo, in questo caso la persona, venga incluso all’interno di una determinata classe o categoria bisogna effettuare un confronto tra le caratteristiche dello stesso e le categorie di riferimento con le loro caratteristiche e specificità (Voci, 2003).

Attraverso il processo dell’assimilazione intracategoriale è possibile che gli individui di una determinata categoria vengano ritenuti più simili tra loro di quanto non lo siano realmente, accentuando la rilevanza degli stereotipi; invece attraverso il processo di differenziazione intercategoriale vengono massimizzate le differenze tra stimoli appartenenti a gruppi e categorie diverse, quindi le differenze percepite diventano maggiori (De Caroli, 2005).

La categorizzazione consente anche di fare inferenze comportamentali: se una persona si trova in un determinato gruppo le aspettative sul suo comportamento saranno condizionate dal comportamento tipico degli individui di quella categoria; questo può portare anche ad una vera e propria distorsione dell’interpretazione del comportamento (Hewstone et al., 2015).

Gli individui sono motivati a categorizzarsi dentro alcuni gruppi e fuori da altri: è stata delineata appunto una teoria del comportamento di gruppo ed essa è chiamata Teoria della categorizzazione del sé (SCT). Le persone definiscono sé stesse e gli altri come membri di una categoria ed esse tendono a crearsi e adeguarsi a degli auto-stereotipi in relazione alla categoria in cui si trovano, inoltre esse saranno portate a considerarsi maggiormente in relazione agli attributi che definiscono la stessa. Ciò significa che un individuo si colloca in una categoria sociale e pensa a sé stesso in quanto membro di quella categoria: questo processo è chiamato depersonalizzazione ed è la ridefinizione cognitiva di sé stessi rispetto agli attributi unici, alle differenze individuali rispetto ai membri delle categorie sociali, e agli stereotipi associati. Questo spiega come gli individui possono essere psicologicamente membri di un gruppo e, allo stesso tempo, come riescono a definire il gruppo in modo da renderlo una realtà psicologica effettiva e non una semplicemente un’etichetta (Turner & Reynolds, 2012).

La Teoria dell’identità sociale parte dal concetto di identità sociale, la quale è l’insieme degli aspetti del concetto di sé che derivano dall’appartenenza ad un gruppo. L’identificazione sociale è vista come l’auto-definizione ed etero-definizione degli individui in quanto membri di una certa categoria sociale. Essa è variabile sia rispetto agli individui che alle situazioni infatti denota che un individuo percepisce il proprio gruppo, e la relativa appartenenza ad esso, come significativa e desiderata; il termine inoltre riassume un insieme complesso di processi di appartenenza. Sulla base della definizione di identità sociale si possono delineare tre componenti: una cognitiva che rispecchia l’auto-categorizzazione, una valutativa che implica la valutazione del proprio gruppo in termini positivi o negativi, e una affettiva che è il grado con cui un individuo si sente emotivamente legato al gruppo (Reimer et al., 2020).

Prendendo come riferimento questa teoria non viene esclusa la precedente, quella della categorizzazione, ma viene ampliata aggiungendo queste dimensioni ulteriori che arricchiscono la trattazione del concetto di sé (Haslam et al., 2010).

L’identificazione sociale cambia la natura della categorizzazione: attraverso essa si dividono gli individui in gruppi ma, in aggiunta, vengono discriminati anche i gruppi di cui facciamo parte e quelli di cui non facciamo parte. Quando si vengono a creare questi meccanismi si determinano le classificazioni ingroup e outgroup e ciò modifica il modo in cui vengono trattati i rispettivi membri di un gruppo (Reimer et al., 2020).

La natura dell’identità personale è il frutto dell’espressione di una serie di differenze della persona da altri e, di conseguenza, anche esso è un processo di comparazione e soggetto a variabilità. L’io è strutturato in base al contesto, come il noi, perché l’identità personale dipende dal confronto intragruppo come l’identità sociale deriva dal confronto intergruppi. In merito a ciò il gruppo sarà il referente implicito, o esplicito, per l’auto-definizione dell’individuo e la persona modellerà il contenuto della propria descrizione personale sulla base di questo (Haslam et al., 2010).

Nei contesti intergruppo questa teoria mette in luce che gli individui hanno bisogno di raggiungere e mantenere un carattere distintivo positivo rispetto ad altri gruppi: essi cercheranno di dimostrare che l’ingroup è migliore o diverso rispetto all’outgroup. Quindi, quando gli individui si identificano con il loro gruppo e le relazioni tra ingroup e outgroup sono rilevanti, gli individui tendono a raggiungere e mantenere questo carattere distintivo positivo. Le conseguenze di ciò sono quelle della differenziazione intercategoriale, del favoritismo ingroup, e della competizione sociale e queste dinamiche spiegano la possibilità del conflitto intergruppi e le relazioni intragruppo basate sullo status (Reimer et al., 2020).

Le relazioni basate sul potere, prospettiva di gruppo e societaria

Per potere si intende quella capacità relazionale che consente a un attore, o agente sociale, di influenzare in modo asimmetrico le decisioni di altri individui e, quindi, di altri agenti sociali; tutto ciò è fatto con la funzione di favorire la volontà, gli interessi, e i valori di colui o coloro che esercitano il potere. Il potere è esercitato nell’ambito relazionale e, quindi, non è uno specifico attributo di un singolo soggetto; esso è quindi necessariamente collegato alla dinamica relazionale asimmetrica. Questa asimmetria apporterà un determinato risultato di influenza garantendo un certo sbilanciamento verso un agente, il quale influenzerà maggiormente l’altro coinvolto. (Castellas, 2014).

Considerando i gruppi è possibile osservare delle dinamiche relazionali interessanti in ambito organizzativo: all’interno di un’organizzazione infatti è possibile riscontrare che i gruppi si strutturano secondo una gerarchia verticale ma anche tramite relazioni orizzontali con interazioni apparentemente paritarie. Questa struttura è formata quindi da tante unità, costituite dai piccoli gruppi, che insieme formano una totalità gerarchica con diversi gradi di potere e, dunque, vi è la possibilità che sorgano dei conflitti tra le stesse (Daft, 2004).

Il conflitto esiste ogni volta che vi è disaccordo, ciò può derivare da diversi fattori che vanno dalle differenze percepite tra gruppi, al mancato riconoscimento dell’autorità, o alle differenze nella percezione degli obiettivi e del successo. Vi sono conflitti sia orizzontali che verticali: ad esempio i conflitti più quotati sono quelli tra il leader e i membri del gruppo. In questo caso il conflitto è intragruppo ed è molto probabile che scaturisca da una comunicazione non chiara o da una situazione vaga e poco strutturata, infatti il compito del leader è quello di dare obiettivi chiari e esporre le aspettative. Di solito i conflitti tendono ad incentrarsi nella prima fase di consolidazione del gruppo e riguardano principalmente le priorità di tempo, costi e risorse (McManus, 2006).

Invece i conflitti tra individui di gruppi diversi sono il frutto di condizioni quali, ad esempio, della forte identificazione degli individui in un’unità e, quindi, con il proprio gruppo di appartenenza; delle differenze che si possono riscontrare tra le diverse unità e, quindi, del processo di differenziazione intercategoriale che accentua queste differenze tra gruppi; della frustrazione che sorge nel momento in cui i gruppi si sentono bloccati nel raggiungimento di un obiettivo; oppure dalla frustrazione percepita nel momento in cui uno dei gruppi tende a migliorare la propria posizione. Questo conflitto è intergruppo e viene definito come il comportamento attuato da individui che si identificano fortemente con il gruppo di appartenenza e percepiscono gli altri gruppi come un blocco ai loro obiettivi, ostacolando il loro miglioramento (Daft, 2004).

In questi casi vi è una differenza di potere che si stabilisce in un contesto specifico, più limitato, ma è possibile riscontrare disuguaglianze di potere e relazioni asimmetriche anche tra i gruppi sociali che compongono la società.

Espandendo dunque il livello di analisi è possibile evidenziare che, all’interno di una società, vi è una diversa distribuzione degli individui e dei gruppi nella stessa: la disuguaglianza è in relazione allo status di questi gruppi e alle diverse categorie che si vengono a creare, da qui si fonda la gerarchia sociale che sarà espressione di quella che viene definita la stratificazione sociale. La stratificazione quindi è basata sull’idea che vi sono una serie di livelli sovrapposti, in ordine crescente, sulla base di diversi fattori quali ricchezza, risorse, potere e via dicendo (Bagnasco et al., 2012).

Vi sono diverse teorie che analizzano i processi sociali alla base della stratificazione, nello specifico la teoria evolutiva proposta da Lenski pone come base dell’ineguaglianza la distribuzione della ricchezza: in questa ottica la disuguaglianza funziona solo se è presente una parte di produzione economica che risulta essere un surplus rispetto ai livelli necessari per far sopravvivere la popolazione generale. Si deduce quindi che la disuguaglianza aumenti con l’aumentare della produttività, in quanto vi sarà un maggiore surplus da eliminare per non far collassare la società; quest’ultimo verrà distribuito sotto forma di ricchezza sulla base delle differenze di potere, facendo sì che vi sia una maggiore concentrazione di ricchezza dove vi è una maggiore concentrazione di potere. Le differenze di potere sono basate, in questa teorizzazione, sulla politica e, in merito a ciò, eventuali cambiamenti politici determineranno un cambiamento nel potere detenuto da alcune categorie e la conseguente distribuzione delle ricchezze e, dunque, la disuguaglianza nel benessere di ogni gruppo sociale e individuo. Nella storia si è potuta osservare una ridistribuzione delle ricchezze, che coincide con il passaggio dalle società agricole a quelle industriali, facendo sì che ad oggi, attraverso la democrazia e la conquista dell’autonomia del settore economico nei confronti della politica, vi sia stata una parziale compensazione della disuguaglianza economica, soprattutto nella classe media. Tuttavia anche nelle società più recenti è presente un surplus di produzione e, dunque, una conseguente dispersione della ricchezza a favore di alcune categorie. La conclusione che si trae è che se l’economia viene lasciata completamente libera genera una minore disuguaglianza di ricchezza rispetto ai precedenti sistemi sociali, ma produce un medesimo intervallo medio di disuguaglianza: ciò significa che la distribuzione, a livello di risorse materiali, è stata incrementata e resa in qualche modo più eguale ma, dall’altra parte, la sostanziale disuguaglianza tra le categorie viene mantenuta attraverso questo sistema (Collins, 2004).

In conclusione è possibile evidenziare come, all’interno della società, avvengano dei cambiamenti tali per cui la distribuzione del potere risulta un concetto dinamico e, di conseguenza, influenza la distribuzione delle risorse e delle ricchezze: questi processi sono utili non solo per analizzare le disuguaglianze sociali attuali ma anche per tentare una previsione futura in merito a ciò.

L’esercizio del potere e dell’influenza mantengono i rapporti asimmetrici

È stato analizzato come, all’interno della società e delle organizzazioni, si creino dei rapporti asimmetrici e come essi si modifichino a partire dalla diversa distribuzione di potere: la disuguaglianza si riflette su una maggiore o minore concentrazione di potere e dalla conseguente possibilità di accesso e utilizzo di ricchezze e risorse. Ma come si articola questa detenzione di potere?

Nel corso della storia è stato effettuato un passaggio fondamentale: si è arrivati alla costituzione di una comunicazione digitale che ha in sé la facoltà di essere globale e di arrivare, in modo indiscriminato, alla società. È dunque necessario porre l’accento sul fatto che, in una società che si articola nella rete e nel digitale, il potere consiste anche nella facoltà e nella possibilità di comunicazione attraverso queste reti (Castellas, 2014).

All’interno della società vi è una forte concentrazione di potere ed essa è il frutto di intrecci e coesioni tra politica, economia, cultura e comunicazione. In questo scenario i mass media diventano uno strumento privilegiato del potere per la sua perpetuazione, attraverso la costruzione di consenso e grazie al mantenimento della conformità sociale (Mancini & Marini, 2006)

Attraverso le reti di comunicazione è possibile influire sulle relazioni di potere nelle reti globali e, di conseguenza, influire sulla struttura stessa della società. I discorsi proposti alla società hanno la caratteristica di poter plasmare la mente del pubblico e, grazie alla tecnologia, è possibile strutturare una comunicazione socializzata basata su determinate caratteristiche, valori, quadri interpretativi. Questo aspetto influenza il pubblico sia livello di pensiero sia a livello di azione collettiva, infatti la possibilità di programmare i discorsi delle reti è cruciale proprio perché determina quanto e come spaziare all’interno del discorso e, soprattutto, le opzioni valide. Negli ultimi decenni si è assistito al rovesciamento del predominio televisivo per far spazio al predominio di internet: i media rimangono comunque i veicoli principali delle immagini ma i punti di accesso sono aumentati esponenzialmente. Internet ha la caratteristica di sfuggire dai filtri e dare spazio a tutta una serie di messaggi non controllati. La politica mediatica sfrutta alcuni fattori potenti come la personalizzazione, che si avvale della leva emotiva del pubblico, l’assalto ai contendenti del potere, tramite modalità comunicative aggressive che mirano a distruggere l’identità delle controparti, e la lotta per il potere referente, attraverso la stimolazione di reputazione e fiducia da parte del pubblico. A livello comunicativo viene sfruttato sempre di più anche “lo scandalo”, usato come messaggio estremamente negativo per deteriorare l’immagine di una persona e il potere connesso ad essa (Castellas, 2014).

Rimanendo coerenti con le teorie esposte, è possibile evidenziare come i media sfruttino l’opinione dell’élite politica per ribaltare l’opinione pubblica: per esempio se la politica punta al depotenziamento dei servizi sociali pubblici non chiederà al pubblico se desiderano un’assistenza sanitaria gratuita adeguata, ma chiederà se desiderano un aumento delle tasse. In questo caso specifico si può vedere come la presentazione dei fatti da parte dei media sia offuscante rispetto all’oggettività della problematica (Mitchell & Schoeffel, 2002).

Un mezzo utilizzato per sfruttare al meglio questo fenomeno è quello dell’Agenda setting: all’interno di questa dinamica vengono sancite delle priorità a livello sociale e politico. Si parla quindi della definizione di ciò che risulta rilevante o saliente a livello politico e, conseguentemente, l’agenda setting si trova ad operare in un contesto storico-sociale dove viene data ampia rilevanza a ciò che costituisce la sfera pubblica mediatizzata, ossia l’ambiente di riferimento dove si articola il discorso pubblico. L’insieme di queste tematiche salienti è chiamato agenda; essa è una “lista” riguardante gli argomenti “all’ordine del giorno” e le rispettive priorità: nel momento in cui i mezzi d’informazione si concentrano più su alcuni aspetti della vita sociale rispetto ad altri, si trasferisce al pubblico un determinato interesse percettivo nei confronti di quelle tematiche scelte (Marini, 2006).

Nell’ambito organizzativo invece vi sono determinate strategie di controllo che coniugano sia l’esercizio del potere che dell’influenza. Il controllo burocratico (Daft, 2004) sfrutta l’utilizzo di regole, politiche e gerarchie per standardizzare il comportamento e funziona maggiormente se attuato da un leader formale; questo controllo è correlato con il principio dell’Autorità (Cialdini, 1995) infatti gli individui sono disponibili a seguire gli ordini di un’autorità, in questo caso un leader formale, e questa disponibilità tende ad avere come risvolto l’obbedienza automatica. Il controllo di clan (Daft, 2004) è basato sull’utilizzo di fattori sociali come la cultura organizzativa, i valori e le tradizioni per controllare il comportamento degli individui ed esso può essere correlato con il principio dello Sforzo in più (Cialdini, 1995) in cui i riti di iniziazione giocano un ruolo fondamentale per aumentare lo sforzo per accedere a determinati gruppi organizzativi e, di conseguenza, incrementare il livello di impegno e coesione. Un’altra modalità di controllo è la creazione di conflitti intergruppo: questo concetto poggia sul principio della Reattanza psicologica (Cialdini, 1995) infatti se determinate risorse divengono limitate possono innescare un grado di competitività molto forte tra i gruppi coinvolti e, quindi, aumentare il grado di influenza su questi ultimi.

Come la disuguaglianza di potere corrompe la salute mentale

È stato analizzato come operano le dinamiche di potere all’interno di un gruppo, nei rapporti intergruppo, e a livello sociale. La disuguaglianza di potere è un fattore rilevante che incide negativamente sulla salute mentale e sul benessere degli individui a diversi livelli: lo stress psico-sociale ha ripercussioni a livello intrapsichico e interpersonale, queste conseguenze si rispecchiano in una serie di disagi mentali e nei livelli di ansia della popolazione (Wilkinson & Pickett, 2019).

Basandoci di nuovo su un macro contesto è possibile evidenziare che le società tendono ad organizzarsi in gerarchie ed esse sono basate su dei gruppi sociali in cui almeno uno gode di uno status sociale e un potere maggiore rispetto ad altri gruppi (Pratto et al., 2006).

Questo gruppo dominante, che possiede l’egemonia, sarà nel punto più alto della gerarchia mentre il gruppo subordinato, all’opposto, sarà più in basso. Il gruppo dominante è caratterizzato dal possesso sproporzionato di valore sociale positivo e avrà tutte quelle risorse, materiali e simboliche, che le persone considerano positive e desiderabili. Il gruppo subordinato, invece, avrà uno sproporzionato valore sociale negativo con tutto ciò che ne consegue, compreso basso potere e status sociale (Sidanius & Pratto, 2001).

Questo sistema è associato con un alto tasso di violenza e oppressione: il conflitto si struttura a partire dalla dominanza di un gruppo nei confronti di altri gruppi subordinati e, questo, si esplica con diverse forme di discriminazione, basate su stereotipi e pregiudizi negativi (Pratto et al., 2006).

A livello individuale invece è possibile riscontrare dei sistemi di risposta comportamentale peculiari per ogni agente sociale che si trova in queste dinamiche interattive. I due sistemi di risposta principali sono la dominanza e la sottomissione, essi costituiscono due dinamiche cruciali che gli individui mettono in atto proprio perché si trovano quotidianamente in interazione sociale, e si possono trovare soprattutto nelle relazioni strutturate gerarchicamente (Wilkinson & Pickett, 2019).

Il Dominance Behavioural System (Dbs) è il concetto che rappresenta questi aspetti comportamentali e può essere considerato come un sistema, basato su una dimensione biologica, che guida la motivazione alla dominanza, influenza il comportamento di dominazione o subordinazione, e incide sulla rispettiva percezione del potere e della subordinazione. Il Dbs funziona mediante diverse variabili e può essere considerato appunto il sistema che regola il rango, ossia la posizione sociale, il dominio gerarchico, e il sistema di potere. All’interno del Dbs quindi vi sono una serie di componenti biologiche e psicologiche, ma anche puramente comportamentali, ed esse sono utilizzate dall’individuo per arrivare a controllare le risorse sociali e materiali che risultano critiche per la società e per gli individui che ne fanno parte. Ci sono tre componenti che costituiscono il Dbs e sono rispettivamente: la motivazione alla dominanza che descrive l’energia impiegata dall’individuo nel perseguimento del potere, coloro che possiedono un’alta motivazione sono più sensibili ai segnali ambientali e sociali e avranno un’attivazione coerente con questi segnali; il comportamento di dominanza che implica appunto la possibilità di mettere in atto comportamenti coerenti con la dominanza, questi comportamenti sono effettivamente delle strategie utilizzate per l’ottenimento del potere e ci saranno diversi indici che le caratterizzeranno, infatti si considerano sia le dinamiche puramente competitive che quelle di coalizione e alleanza; il potere correlato ai concetti di rango e status che indicano rispettivamente la posizione dell’individuo nella gerarchia sociale e la potenzialità dell’individuo di ottenere rispetto e attenzione dagli altri individui, infatti lo status risulta cruciale nella detenzione del potere. In merito a quest’ultima componente si può evidenziare che, in una condizione ottimale di adattamento e flessibilità, vi è una certa variabilità individuale di potere nei diversi contesti: un individuo potrà sentirsi subordinato nel suo ambiente di lavoro ma potrebbe percepire un certo grado di potere in altri contesti come, ad esempio, all’interno dell’ambito sportivo o ricreativo. Nonostante ciò non sempre ci si trova di fronte a questa flessibilità e molto spesso gli individui presentano un modello rigido di dominanza o sottomissione, generalizzato ai diversi contesti. La conseguenza di ciò è che gli individui metteranno in atto comportamenti disadattivi e, proprio in questa circostanza, sorge l’interesse relativo al disagio psicologico. Coloro che possiedono un alto potere attivano il sistema di approccio e avvicinamento rendendo inattivo quello dell’inibizione, ciò ha conseguenze positive e negative: tra le prime vi sono una minore sensibilità alle minacce sociali e ambientali e una maggiore impulsività; mentre tra quelle negative vi sono una maggiore propensione a violare le norme sociali, una minore sensibilità, attenzione, e compassione verso gli altri. Invece per coloro che hanno una maggior percezione di impotenza sono state visualizzate altre conseguenze quali una maggiore vulnerabilità alle minacce, una maggiore propensione a perdere l’appoggio di individui con più potere e un aumento della possibilità di imbattersi in ostacoli (Johnson & Leedom, 2012).

Si può evidenziare anche come il comportamento di aiuto possa essere una dinamica che, in alcuni casi, tende a danneggiare gli individui che lo ricevono: infatti le forme di aiuto implicano l’esistenza di relazioni di potere e, dunque, non vi è una condizione paritaria di reciprocità e spesso può servire a perpetuare una relazione di subordinazione. Questo tipo di comportamento di aiuto è orientato alla dipendenza infatti il gruppo con maggiore potere fornirà ciò di cui necessita il gruppo in difficoltà, senza però donare i mezzi per poter affrontare il problema in modo indipendente e rafforzando l’asimmetria gerarchica. In merito a ciò Nadler ha ipotizzato il modello di aiuto intergruppi basato sulle relazioni di status, esso risulta efficace per analizzare come il comportamento prosociale di aiuto possa mantenere o scardinare lo status di un individuo o di un gruppo. Vi è un nesso tra lo status e le aspettative sulla performance del gruppo che necessita dell’aiuto, questo perché lo status influisce in modo preponderante sia sulle aspettative che sul tipo di aiuto che viene offerto; in questo modo si continua a mantenere il comportamento che alimenta l’asimmetria e conferma la gerarchia di potere (Hewstone et al., 2015).

La correlazione con il disagio mentale e la promozione della salute psicologica

In merito a questo sarà opportuno analizzare a quali rischi concreti le persone sono esposte quando si trovano in presenza di questo stress psicosociale e, soprattutto, quali sono le potenziali alternative per migliorare il benessere, la salute e la percezione degli stessi.

Ciò che è stato esposto precedentemente pone le basi per ipotizzare che una maggiore disuguaglianza sociale incrementi il grado di minaccia percepita dagli individui, apportando un’ansia più elevata: coloro che si trovano ai livelli gerarchici inferiori sono in una posizione di subordinazione che si ripete nel tempo e nei vari contesti. Questa dinamica crea problemi sia al tessuto sociale, che risulta sfaldato a causa del modello competitivo che viene promosso, sia a livello personale in quanto le persone soffrono maggiormente di disagi psichici e, in particolare, manifestano comportamenti meno inclini alla disponibilità e più tendenti all’ostilità (Wilkinson & Pickett, 2019).

Qualora sia presente una forte rigidità, nel caso di un atteggiamento dominante si potrà osservare la tendenza a sviluppare disturbi esternalizzanti e, nei casi più gravi, si potrà arrivare a presentare tratti antisociali. Le caratteristiche associate ai disturbi esternalizzanti si sovrappongono a quelle evidenziate nel Dbs: un’alta autopercezione di potere, impulsività, grandiosità, eliminazione del sistema di inibizione e scarsa empatia. Questi individui sono coloro che risultano più interessati a captare i segnali di potere e di status e ciò si ripercuote anche nel comportamento interpersonale, quindi questo prototipo è correlato ad una propensione alla violazione delle norme e ad una scarsa capacità di mentalizzazione dello stato altrui. Questo aspetto si ripropone anche nell’ambito emotivo sperimentato dall’individuo infatti vi sarà un alto grado di rabbia percepita e espressa come risposta alle minacce esterne, fino ad arrivare all’attuazione di comportamenti aggressivi. Nel caso di una rigidità nell’atteggiamento subordinato, si assisterà invece allo sviluppo di disturbi internalizzanti con sintomi ansiosi e depressivi. Nel caso dei sintomi depressivi si può arrivare a riscontrare una condizione di anedonia o anche alcune alterazioni fisiche e cognitive, come ad esempio pensieri disfunzionali che si rifanno a sentimenti di inutilità. Il comportamento di subordinazione è correlato con questa tipologia di sintomi ed esso porta l’individuo ad accettare, in modo rigido e decontestualizzato, la sconfitta e la perdita di potere: questo implicherà la perdita di sfide dirette, contro un individuo o più individui dominanti, o la perdita di importanti risorse sociali a causa della scarsa detenzione di potere. Questo comportamento ha delle funzioni adattive tuttavia, quando diviene una strategia automatica, si arriverà a forti sentimenti di impotenza percepiti. L’ipotesi è che i sintomi depressivi siano correlati con un confronto sociale molto elevato e con una persistente tendenza ad avere un modello di rappresentazione di sé come individuo inferiore agli altri e non capace di detenere potere. Vi sono anche evidenze che riguardano la sintomatologia ansiosa e, in questo caso, l’ansia riguarda le situazioni sociali e si articola nella persistente e intensa paura nel ritrovarsi in queste ultime o nel mettere in atto performance di fronte ad altri individui. In questo caso l’emozione fondamentale che l’individuo prova è la preoccupazione per il proprio potere sociale, per la propria subordinazione, e per la propria potenziale ed inevitabile sconfitta: gli individui saranno eccessivamente concentrati sulle gerarchie sociali, la dominanza, e sulla competizione con una forte ipersensibilità di fronte ad un confronto che però risulterà sfavorevole nonostante l’alta motivazione dominante. Anche in questa circostanza l’individuo avrà percezione del proprio status di subordinazione ma l’obiettivo da raggiungere sarà quello di limitare il rifiuto e l’evitamento altrui. I sintomi ansiosi premono sull’acquisizione di maggiori risorse sociali, come ad esempio l’attenzione, che rispecchiano un parametro di inclusività all’interno del gruppo. Questo quadro riguarda sintomi riferibili principalmente alla vigilanza e alla preoccupazione rispetto agli stimoli di rango e status, rispetto all’autopercezione del proprio potere, e rispetto alla propria strategia di sottomissione messa in atto per evitare il rifiuto da parte della gerarchia di riferimento (Johnson & Leedom, 2012).

L’uguaglianza in termini di potere e status apporterebbe una serie di miglioramenti che possono innalzare la qualità della vita, e del benessere mentale dei singoli individui, disinnescando la condizione che incrementa il disagio e i disturbi correlati con le dinamiche di dominanza e sottomissione. Il primo miglioramento osservabile sarebbe quello relazionale in quanto l’interazione tra individui, anche di livelli sociali diversi, porterebbe ad un incremento qualitativo dell’autostima di ognuno e a una maggiore obiettività nella percezione di sé. In questa circostanza sarebbe possibile osservare una maggiore coesione sociale, la quale rispecchia una vita comunitaria meno oscurata dall’insicurezza e da stimoli stressogeni (Wilkinson & Pickett, 2019).

A livello individuale la promozione del benessere passa anche attraverso il processo di acquisizione di potere, ossia l’empowerment: esso non si basa solo sul potere materiale ma comprende anche qualità personali quali motivazione, autostima, immagine di sé e locus of control. L’empowerment psicologico comprende una componente intrapersonale, basata sulla convinzione di poter influire sulle decisioni rispetto alla propria vita ossia la percezione di controllo, una componente interpersonale, ossia la capacità di comprendere e analizzare il contesto sociale e politico sapendo anche come entrare in interazione, una componente comportamentale, la quale invece comprende attività a livello comunitario e collettivo per influenzare l’ambiente e il contesto di riferimento comunitario dell’individuo. L’empowerment può essere sfruttato anche nei contesti organizzativi proprio perché si tende a far uscire gli individui da una condizione di dipendenza e subordinazione, aumentando il loro potere. Questo può avvenire grazie allo sviluppo di capacità quali l’autodeterminazione e l’autoregolazione, in grado di influire sull’autostima e l’autoefficacia. L’organizzazione tuttavia dovrebbe far sì che queste qualità elencate siano in grado di influenzare, in modo più o meno diretto, le decisioni della stessa: infatti è possibile che l’organizzazione promuova l’autoefficacia e il senso di controllo senza però dare un reale potere decisionale e politico agli individui (Colì et al., 2012).

Spostando l’ottica sull’ostilità intergruppi e trovare un nuovo equilibrio si può richiedere l’appoggio di un terzo, come ad esempio un leader formale, che possa avere la funzione di mediatore del conflitto; oppure si può puntare a modificare radicalmente la percezione di un gruppo nei confronti del gruppo contendente grazie alla realizzazione di progetti di cooperazione paritaria. Questa modalità può essere utile nei casi che riguardano, ad esempio, la competizione di due gruppi per l’ottenimento di risorse a discapito di un altro. I progetti hanno come scopo quello di soddisfare i bisogni basilari degli individui facendo leva sul modello di rappresentazione comunitario, rispetto all’identità comune, dei gruppi distinti. Il semplice contatto tra i gruppi non è sufficiente quindi, per modificare le relazioni da competitive in cooperative, bisognerà costruire obiettivi comuni, al di sopra di quelli del gruppo, e renderli rilevanti per i membri. Un punto fondamentale risulta essere la costruzione di una condizione paritaria di status dei gruppi o, almeno, di un apporto paritario di status rispetto allo scopo comune stabilito in quanto, se vengono mantenute le disuguaglianze, si potrebbero nuovamente riproporre dinamiche di dominanza-sottomissione tra i gruppi. Questo anche perché, coerentemente con il modello di aiuto intergruppi, i membri potrebbero percepire la collaborazione e l’aiuto di un gruppo come un ulteriore minaccia alla stima e all’identità, del singolo e del gruppo, attraverso l’attuazione di dinamiche di potere e dipendenza (Talamo & Roma, 2007).

L’empowerment è anche comunitario e la componente comportamentale è quella specifica che mira all’attuazione di azioni volte al miglioramento della qualità della vita. Anche in questo caso, come in quello organizzativo, non sarà sufficiente promuovere qualità individuali nelle singole persone ma sarà utile estendere queste competenze. Si dà quindi la possibilità di influire sulla politica stessa in un’ottica cooperativa per raggiungere obiettivi comunitari rilevanti, per migliorare il benessere, e per incrementare la responsabilità di ognuno nei processi di potere. Questo processo di empowerment, individuale o di gruppo, serve a ricollocare le persone nella condizione di riacquisizione del controllo, partendo da una situazione di mancanza di potere e sfiducia, riportando i giusti equilibri di uguaglianza. Questo però è possibile agendo sia sulla percezione personale che su quella degli altri, all’interno del contesto di riferimento. È importante promuovere un empowerment personale che trovi riscontro nell’ambiente e in tutti i livelli gerarchici: esso dovrebbe mirare all’acquisizione di una certa maturità personale, ma dovrebbe avere un riscontro di significato in termini di riconoscimento di potere, di valorizzazione, di autonomia e controllo (Colì et al., 2012).

Conclusioni

Le relazioni asimmetriche, basate sulla differenza di status e di potere, sono presenti nella quotidianità di ogni persona ed è possibile estendere l’analisi anche ai gruppi di lavoro, all’interno delle organizzazioni, e a quelli sociali, i quali strutturano la gerarchia sociale e la stratificazione.

Queste premesse teoriche sono state trattate per poter esplorare al meglio le implicazioni psicologiche correlate alle dinamiche di disuguaglianza di potere e di status. I comportamenti coinvolti nell’analisi sono quello di dominanza e sottomissione e vi è la possibilità che le rispettive caratteristiche divengano pervasive, sia a livello individuale che a livello delle relazioni sociali. Nel momento in cui i sistemi comportamentali dell’individuo divengono rigidi e decontestualizzati, vi sono una serie di conseguenze sociali e personali in termini di sintomi individuali e interpersonali.

Il concetto di empowerment ha fornito lo spunto per valutare come poter apportare una maggiore percezione di potere negli individui e, conseguentemente, una maggiore consapevolezza e attuazione dello stesso.

In conclusione quindi è possibile evidenziare come una maggiore percezione di potere, e la conseguente potenzialità di attuazione, possa incidere sull’atteggiamento degli individui ed equilibrare le dinamiche di disuguaglianza. È giusto evidenziare che l’incremento di potere personale potrebbe non coincidere con un incremento delle risorse materiali, tuttavia è possibile inferire che questo possa essere il motore fondamentale per poter mettere in atto una serie di comportamenti concreti volti all’effettiva ricerca di risorse materiali e, quindi, al loro conseguente ottenimento. Questo perché il potere inteso come status, che è considerato una risorsa simbolica, è strettamente correlato con la detenzione di risorse materiali. Sarebbe quindi utile sfruttare al meglio tutte le componenti dell’empowerment valorizzando anche quella comportamentale, la quale è volta a modificare l’aspetto politico in riferimento al potere: grazie a questo processo potrebbe divenire meno significativa l’influenza dell’opinione pubblica e, dunque, l’utilizzo dei media per deviare l’attenzione e creare dinamiche di dipendenza dai gruppi dominanti.

Un punto rilevante del lavoro è stato quello di integrare più discipline di studio: il nodo centrale risulta la psicologia sociale la quale viene collegata con la sociologia e, in parte, con l’organizzazione aziendale. Questa prospettiva viene delineata con l’intento di analizzare un equilibrio olistico partendo da diversi tipi di complessità: al centro vi è il singolo individuo, con la sua identità e i suoi atteggiamenti; successivamente vi è il gruppo, inteso come ente formato da singoli che creano un’ulteriore identità e danno vita a nuove dinamiche all’interno dello stesso; l’altro livello di interesse sono i gruppi in relazione tra loro, soprattutto nelle dinamiche organizzative e nei conflitti; e infine vi è la società, essa è intesa come la macro area di analisi dove si esplicano processi psicologici, sociali e sociologici su ampia scala.

 

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