Analisi del comportamento omicidiario seriale: i serial killer e il criminal profiling


scarica l'articolo

Le origini della criminologia risalgono al periodo a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo in Italia. Tra i primi esponenti troviamo nomi quali Francesco Longano, Antonio Grimaldi, Mario Pagano per poi arrivare figure più conosciute come Cesare Beccaria.

Gli autori che hanno dato una svolta al lavoro criminologico sono Cesare Lombroso e Scipio Sighele: il primo basava le sue teorie sul concetto di criminale per nascita, per lui l’origine del comportamento criminale era insita nelle caratteristiche anatomiche del soggetto, che risultava essere una persona fisicamente differente dall’uomo normale; il secondo invece analizzò i meccanismi della folla cercando di dimostrare come nelle tendenze del collettivo fossero presenti attitudini criminose, sottolineò come l’essere umano inserito nella folla perda il suo controllo razionale facendo uscire fuori i suoi istinti criminali (Lombroso, 1995; Sighele, 1923).

A partire dagli anni ’80 all’interno della criminologia si fa strada un nuovo termine, serial killer; un contributo fondamentale per la comprensione di questo nuovo termine è stato fornito dagli agenti speciali dell’FBI John Douglas e Robert Ressler e dallo psicologo e criminologo italiano Ruben De Luca.

Il serial killer è un essere umano che reagisce in maniera patologica ad alcuni eventi che segnano il corso della vita e che per lui assumono un significato particolarmente negativo (De Luca, 2001); è un pluriomicida di natura compulsiva che uccide con o senza regolarità nel tempo e con un modus operandi caratteristico. La natura compulsiva dell’azione, talvolta priva di movente, è in generale legata a traumi della sfera emotivo-sessuale.

Anche se l’FBI ha divulgato su larga scala il termine di serial killer, la sua origine risale al 1930 e la sua paternità è da attribuire a Ernst August Ferdinand Gennat, direttore della polizia criminale di Berlino. Gennat usò il termine serial killer (in tedesco serienmörder), attribuendolo a Peter Kürten il vampiro di Düsseldorf che nel periodo tra il 1929 e il 1930 commise almeno 12 omicidi e un elevato numero di aggressioni (Kurtz; Ramslad, 2014).

Il crescente problema dell’omicidio seriale ha fatto nascere numerose ricerche, sia a causa di un forte aumento dei serial killer, sia a causa della maggiore attenzione data dai mass media a casi di questo genere; ed è proprio grazie a queste ricerche che è nato il criminal profiling.

Il criminal profiling osserva ogni aspetto della storia di un criminale e ha come obiettivo un risultato concreto: ciò che è diagnosi, terapia e guarigione in campo medico, diventa profilo psicologico, indicazione investigativa e cattura del reo (Picozzi, Zappalà 2002).

La criminologia

La criminologia si occupa dei fatti delittuosi degli autori di reato e delle reazioni sociali al crimine, è caratterizzata dallo studio del reo, del suo trattamento e riabilitazione, e del reato secondo un approccio multidisciplinare, utilizzando contributi provenienti dalla biologia, dalla medicina, dalla psichiatria, dalla psicologia etc. Studia il comportamento criminale, le sue cause, il suo controllo e la sua prevenzione. Essa viene collocata all’interno delle scienze criminali (discipline il cui oggetto di studio è la criminalità), e fa parte delle scienze forensi, che sono quelle discipline scientifiche che potrebbero rivelarsi utili per la corretta applicazione della legge (www.igeacps.it).

Esiste anche la criminologia applicata, che consiste nell’applicazione delle conoscenze criminologiche ai casi individuali, e aiuta il sistema giudiziario nell’elaborare tecniche e strumenti per diminuire il fenomeno criminale e la sua intensità, tramite programmi di trattamento del reo e prevenzione della recidiva (De Luca, Macrì, Zoli, 2013).

Risulta importante non confondere la criminologia con la criminalistica, in quanto quest’ultima costituisce il complesso di tecniche che vengono utilizzate per l’investigazione criminale.

La criminologia viene considerata una scienza che studia i delitti, i loro autori, la relazione sociale, le vittime e la devianza in generale (Betsos Merzagora, Ponti, 2008; Malizia 2010); in quanto possiede tutte le caratteristiche per essere definita tale:

  1. Sistematicità: costruzione di un complesso di conoscenze acquisite su un determinato oggetto, integrate in un complesso armonico e strutturato;

  2. Controllabilità: le conoscenze devono poter essere sottoposte al controllo di validità, sotto il profilo logico-formale;

  3. Capacità teoretica: trasformare in proposizioni astratte le proposizioni che costituiscono la teoria, finalizzate a spiegare i rapporti causali, le correlazioni, le variabili dei fatti oggetto della sua analisi, derivanti da osservazioni e dati;

  4. Capacità cumulativa: consente di analizzare, correggere o perfezionare attraverso teorie più recenti quelle formulate in precedenza;

  5. Capacità predittiva: poter prevedere i comportamenti dei soggetti e della collettività, quest’ultima presenta dei limiti fisiologici.

Secondo Vassalli (Malizia, 2010), la criminologia esprime l’aspirazione ad una visione unitaria e sintetica del fenomeno sociale e individuale della delinquenza, all’interno della quale si compongono le diverse esperienze e conoscenze che possono contribuire, se ordinate in relazione a chiari punti di partenza comuni, e avendo come finalità la verità obiettiva, le conoscenze intorno al fenomeno delittuoso, ai suoi fattori, al suo modo di manifestarsi, ai suoi effetti individuali e sociali, alla sua valutazione e comprensione.

Restando in accordo con questa interpretazione, alla criminologia può essere dato il compito di comporre le diverse esperienze, manifestazioni ed effetti connessi al fenomeno delittuoso, a patto che si prenda atto che la criminalità e il comportamento criminoso possono essere ricondotti ad unità, solo se si abbandona l’idea di costruire un’unità disciplinare sulla base di un’integrazione di conoscenze appartenenti a discipline diverse (ibidem).

All’interno della criminologia si è tentato di distinguere i delitti in base al criterio di maggiore o minore gravità, e il primo problema è stato definire a priori cosa risulta grave, da ciò che non lo è. Per questo motivo generalmente si fa riferimento all’articolo 133 del Codice penale, secondo cui, la gravità del reato rappresenta uno dei parametri per l’applicazione discrezionale tra il minimo e il massimo della pena (ibidem).

Ci sono diverse fattispecie che rientrano nel reato di omicidio e sono: omicidio doloso; omicidio colposo; omicidio preterintenzionale; istigazione al suicidio; parricidio; femminicidio; uxoricidio etc.

Le definizioni di serial killer

Per dare una definizione di serial killer, bisogna risalire all’etimologia del termine; è una parola composta dall’unione del verbo “to kill” che letteralmente significa “to deprive of life” e “serial” che significa “coming in a regular succession” (www.etymonline.com).

Fino all’inizio degli anni ’80, si utilizzava il termine omicidio multiplo davanti ad un caso di un unico assassino e più vittime, ma grazie alle ricerche dell’FBI si è cominciato a parlare di serial killer.

Secondo l’FBI, il serial killer è un soggetto che uccide tre o più vittime in posti diversi e con un intervallo emotivo fra un omicidio e l’altro e in ciascun omicidio può uccidere più di una vittima; può colpire a caso o sceglierla accuratamente, spesso ritiene di essere invincibile e che non verrà mai catturato (Perrotta, Pais, 2015).

Il lavoro di analisi condotto dall’FBI li ha portati a dividere gli assassini multipli in tre categorie, eccezion fatta per quelli che uccidono due vittime nello stesso tempo e in un luogo solo (double killer), oppure tre vittime nelle stesse condizioni (triple killer) (Mastronardi, De Luca, 2005):

  • Mass Murderer (Assassino di Massa): uccide quattro o più vittime nello stesso luogo e in un unico evento; di solito non conosce le proprie vittime, ma le sceglie casualmente;

  • Spree Killer (Assassino compulsivo): uccide due o più vittime in luoghi diversi e in uno spazio di tempo molto breve; questi delitti di solito hanno un’unica causa scatenante e sono concatenati tra loro in un certo periodo, il soggetto non conosce le sue vittime e non nascondendo le sue tracce viene catturato con facilità;

  • Serial Killer (Assassino Seriale): uccide tre o più vittime in luoghi diversi e con un periodo di intervallo emotivo (cooling-off time) fra un omicidio e l’altro, in ciascun omicidio può uccidere più di una vittima, può colpire a caso o sceglierla; spesso ritiene di essere invincibile.

Newton (in De Luca, 2001), sostiene che il difetto principale della definizione dell’FBI è quello di non specificare la lunghezza del cooling-off (intervallo) tra un omicidio e l’altro per poter far rientrare il soggetto che uccide all’interno della categoria di Serial killer invece che in quella di Spree Killer o Mass Murderer. Un altro difetto è quello di escludere dalla definizione tutti gli assassini che vengono catturati dopo il secondo omicidio, ma che, in caso contrario, avrebbero continuato ad uccidere. Secondo Rube De Luca, l’assassino seriale è un soggetto che mette in atto due o più azioni omicide separate tra loro (nello stesso luogo o in luoghi diversi), oppure esercita un’influenza psicologica che spinge altre persone a uccidere al posto suo. Per parlare di assassino seriale, è necessario che il soggetto mostri una chiara volontà di uccidere, indipendentemente dal risultato (morte o sopravvivenza della vittima). L’intervallo che separa le azioni omicide può variare da un giorno a interi anni e le vittime coinvolte in ogni singolo episodio possono essere più di una (omicidio di massa all’interno della serie). L’assassino seriale agisce preferibilmente da solo, ma può agire anche in coppia o in gruppo:

  • all’interno delle coppie, va valutata la presenza di un’effettiva pulsione omicida in entrambi i componenti, e la loro partecipazione attiva agli omicidi, o se uno dei due non abbia solo un ruolo accessorio e obbedisca perché obbligato, affetto da una malattia mentale o per immaturità anagrafica o intellettiva;

  • nel gruppo, solo alcuni membri hanno un ruolo attivo negli omicidi, per cui non tutti sono classificabili come assassini seriali e il coinvolgimento va valutato caso per caso.

Le motivazioni superficiali che spingono ad uccidere sono diverse, ma esiste un’unica motivazione psicologica profonda valida per tutti: il bisogno di esercitare potere e controllo su altri esseri umani per affermare il proprio Sé. In alcuni casi, vanno considerati assassini seriali anche i soggetti che uccidono nell’ambito della criminalità organizzata (quando un movente psicologico personale li spinge ad uccidere al di là degli interessi dell’organizzazione), i terroristi (quando uccidono per soddisfare un proprio piacere personale e non solo per confermare l’ideologia in cui credono), i soldati (quando il gusto di uccidere subentra al fatto di eseguire solo degli ordini) (De Luca, 2013; De Luca, 2020).

Elementi caratteristici del serial killer

Classificare i killer nasce da un’esigenza investigativa di semplificazione, per creare un linguaggio condiviso dalle forze dell’ordine che non sia confusionario per i non addetti ai lavori. Questa classificazione nasce da una ricerca scientifica condotta tra il 1979 e il 1983 da Burgess, Douglas, Ressler, e del team della Behavioral Science Unit dell’FBI; i cui risultati furono presentati nel 1992 in un testo chiamato Sexual Homicide: Patterns & Motives, con la quale intendono comprendere le caratteristiche dei serial killer e del loro comportamento omicida, conducendo un’intervista su 36 soggetti ospiti delle carceri americane.

Tutti i soggetti erano uomini, incarcerati, negli Stati Uniti d’America, per omicidi a sfondo sessuale, 7 avevano compiuto un singolo omicidio, gli altri più di uno, la maggior parte era di razza bianca. Anche se il campione non era esteso, fu ritenuto sufficiente per permettere di stabilire le caratteristiche generali degli assassini e delle loro scene del crimine. Il materiale raccolto permise di creare la ripartizione tipologica organizzato e disorganizzato (Picozzi, Zappalà, 2002) (vedi figura 1 e figura 2).

Figura 1. Caratteristiche degli assassini organizzati e disorganizzati (Picozzi, Zappalà, 2002)

Figura 2. Differenti scene del crimine in omicidi organizzati e disorganizzati (Picozzi, Zappalà, 2002)

È importante affermare che questa dicotomia creata dall’FBI non è così netta in quanto la maggior parte degli assassini seriali, così come gli esseri umani in generale, presentano elementi di organizzazione e disorganizzazione, miscelati in una gradazione variabile da soggetto a soggetto; è più corretto parlare di un continuum tra organizzazione e disorganizzazione in quanto molti criminali violenti presentano elementi di entrambe le categorie (De Luca, 2021).

Douglas (1995), distingue la firma dal modus operandi (MO). Il modus operandi si riferisce alla modalità con la quale il comportamento illecito viene messo in atto, esso è un comportamento appreso in continua evoluzione. Attraverso l’esperienza l’assassino può modificarlo per poter tratte massimo beneficio dal suo crimine, minimizzando il rischio di arresto; ciò che modifica maggiormente il MO è la cattura, in quanto in carcere può apprendere dei comportamenti che risultano più produttivi e funzionali per lui. Anche la risposta della vittima durante l’aggressione può modificarlo. L’analisi del modus operandi è molto importante quando si cerca un linkage tra più casi; tuttavia, bisogna considerare la sua dinamicità e quindi non si devono escludere dei collegamenti tra dei crimini sulla sola base della differenza del modus operandi (Picozzi, Zappalà, 2002).

La firma è la componente unica ed originale del comportamento del criminale che va oltre a ciò che è strettamente necessario per l’esecuzione del crimine, non è sempre presente in una serie omicidiaria, ma quando lo è, di solito è legata alle fantasie dell’aggressore e possiede un significato ritualistico indispensabile, strettamente correlato all’esecuzione del crimine. La firma rimane sostanzialmente invariata nel succedersi dei delitti, anche se potrebbe esserci un’evoluzione.

Il modo in cui viene maneggiato il cadavere può essere parte integrante del MO, se esso ha una funzione strumentale che agevola il lavoro dell’assassino, oppure può far parte della firma se è presente una funzione espressiva legata al bisogno dell’assassino di mandare un messaggio.

Definizione e classificazione dell’omicidio seriale

Da sempre gli studiosi che si sono occupati del fenomeno dell’omicidio seriale, hanno cercato di comprendere le cause che lo originano, un punto su cui si sono trovati d’accordo è l’importanza della presenza di esperienze traumatiche nell’infanzia e nell’adolescenza dei serial killer. Ciò però non significa che chiunque ha subito dei traumi diventerà automaticamente un assassino. L’ipotesi che risulta essere più esaustiva è quella basata sul modello sistemico-relazionale che prende in considerazione le caratteristiche innate del soggetto, le sue predisposizioni, i sistemi sociali nei quali si trova inserito e le relazioni che stabilisce con essi e che si vanno a formare nei diversi ambienti (De Luca, 2001).

L’assassino seriale risulta quindi essere il prodotto della famiglia e del sistema di pensiero di quest’ultima, combinato con la personalità individuale e le caratteristiche fisiologiche:

  • F(S) fattore socio-ambientale: comprende tutte le componenti socio-ambientali che possono influenzare il comportamento di un serial killer;

  • F(I) fattore individuale: è l’insieme delle componenti soggettive della personalità del serial killer: i tratti psicologici e psicopatologici, la sessualità, le motivazioni e la vita immaginativa. Questi elementi sono presenti in tutti gli individui, ma nel serial killer sono variabili in qualità e quantità;

  • F(R) fattore relazionale: è un punto d’incontro dei fattori precedenti e rappresenta una misura del grado di scambio esistente tra individuo e ambiente, e del modo in cui il soggetto si rapporta agli altri.

Mettendo insieme le iniziali dei fattori viene fuori il modello S.I.R., creato nel 2001 da Ruben De Luca studiando un campione di 1520 serial killer; questo modello presenta però un difetto: non vengono tenute in considerazione le ultime osservazioni che evidenziano che il bisogno prioritario dei serial killer è quello di sperimentare una sensazione di onnipotenza attraverso il controllo delle vittime. Viene quindi proposta una prospettiva che distingue tra (Mastronardi, De Luca, 2005):

  • Motivazione profonda: tutti i serial killer uccidono per soddisfare la stessa motivazione profonda, cioè il bisogno di esercitare il potere e il controllo sugli altri, per affermare il proprio sé;

  • Motivazione superficiale: può essere più di una e può cambiare all’interno della stessa serie omicidiaria.

L’omicidio seriale è caratterizzato da diverse fasi che procedono in crescendo, man mano che il soggetto si avvicina al momento dell’omicidio, per poi decrescere. Joel Norris (1988), è stato il primo a focalizzare l’attenzione sull’azione esecutiva, dividendo l’attività predatoria in sette fasi, ognuna correlata ad un particolare stato mentale (Monzani, 2005):

  1. Fase aurorale: ritiro sociale dell’aggressore nel quale avvengono delle modificazioni comportamentali e sensoriali. Comincia un’attività fantastica di tipo compulsivo e l’estraneazione dalla realtà quotidiana, le fantasie lo spingono all’azione; questa fase può durare alcuni giorni o dei mesi, se viene inserito in un percorso terapeutico in questo stadio il ciclo omicidiario può essere interrotto

  2. Fase di puntamento: bisogno compulsivo di ricercare e catturare la vittima, cerca la sua preda tramite degli schemi comportamentali compulsivi, frenetici e paranoici. La maschera della “normalità” viene preservata in maniera automatica, ma inizia a mettere in atto un nuovo livello di programmazione del comportamento per pianificare ogni mossa. L’ultima parte di questa fase presenta l’identificazione e l’osservazione della vittima;

  3. Fase della seduzione: approccio con la vittima, che viene raggirata dal killer nel quale ha piena fiducia. L’assassino si mostra innocuo, ed è molto selettivo riguardo a chi vuole uccidere, perché deve rispecchiare alcune caratteristiche che per lui sono importanti;

  4. Fase della cattura: presenta due modalità d’azione: veloce così da non dare alla vittima il tempo di reagire, o lenta così da aumentare il terrore. Il momento della cattura gli procura molto piacere perché sa che la vittima è nelle sue mani e che le fantasie stanno diventando realtà;

  5. Fase omicidiaria: le fantasie vengono finalmente messe in atto, è il punto di massima eccitazione, l’affermazione assoluta di sé, spesso accompagnata da una liberazione orgasmica accumulata nelle fasi precedenti. L’omicidio avviene con modalità molto simboliche, che possono rimandare a situazioni di grande impatto vissute durante l’infanzia, in questo modo riesce a rovesciare i ruoli e trasformarsi in carnefice, ristabilendo il proprio potere e la propria identità;

  6. Fase totemica: avviene subito dopo il reato, e l’omicidio viene vissuto nuovamente attraverso i ricordi e i feticci. L’eccitazione è scemata e si ritrova in una specie di stato depressivo, per protrarre il più a lungo possibile il ricordo di quel trionfo ed eccitazione ricorre a vari espedienti come conservare il corpo della vittima o alcune parti, scattare fotografie o conservare oggetti che le appartenevano;

  7. Fase depressiva: il ricordo dell’omicidio svanisce, i feticci non danno più soddisfazione e nasce il bisogno di cercare una nuova vittima. Si accorge che nulla nella sua vita è cambiato, il potere sperimentato risulta effimero, si ritrova svuotato da ogni emozione e il passato si riappropria della sua mente. I ruoli cristallizzati durante l’infanzia sono rimasti gli stessi, e si sono rinforzati, attraverso l’omicidio: la vittima è lui con la sensazione di incompletezza e insoddisfazione che porta. Questa fase può durare pochi giorni o anni, il killer mantiene la “maschera di normalità” con il mondo esterno e per movimentare la sua esistenza manda lettere anonime o chiamate alla polizia, in una richiesta inconscia di aiuto mista al desiderio di espiare le colpe. Prima o poi il mondo fantastico prenderà nuovamente il sopravvento cosicché potrà sfogarsi nuovamente. A questo punto il ciclo è pronto per ricominciare a meno che non venga catturato.

Omicidio seriale al femminile

Un argomento poco trattato è quello dell’omicidio seriale al femminile, gli studiosi di questo argomento, sono erroneamente propensi a credere che non esistano serial killer donne, soprattutto se si considera assassino seriale solo chi uccide mosso da motivi sessuali e manifesta delle perversioni (caratteristica prettamente maschile) (Greco, 2014).

Le donne serial killer sono astute, adescano la vittima con la seduzione e dopo diventano spietate, agiscono prevalentemente per motivazioni economiche e/o di potere. Non vanno a caccia della preda, ma preferiscono attirarla nella loro tana, oppure uccidono in case di cura, ospedali o altri luoghi chiusi. Sono persone apparentemente normali, la loro occupazione prevalente sembra essere quella di casalinga, seguita da professioni come infermiera, domestica, cameriera (De Pasquali, 2001).

Le vittime scelte sono persone con cui hanno un qualche tipo di rapporto come mariti, amanti, parenti, pazienti, etc. La donna serial killer di solito uccide da sola, raramente in coppia con un uomo con cui ha una relazione (Greco, 2014).

Anche loro sono cresciute in famiglie multiproblematiche, hanno subito abusi infantili, tra cui le molestie e hanno sviluppato una sessualità precoce. Vivono nell’incuria, con un matrimonio instabile, spesso prostituendosi.

Esistono delle differenze fondamentali fra omicidio seriale maschile e femminile; Hickey (1991), riporta che il tempo medio in cui una donna riesce ad uccidere senza farsi scoprire è di 8 anni, il doppio rispetto agli uomini. L’arma prediletta è il veleno, perché è un mezzo discreto, che se usato bene non lascia tracce e permette di far catalogare l’omicidio come morte naturale, ma anche altre armi che escludono il contatto fisico con la vittima, mentre l’uomo privilegia le armi bianche, le percosse, le violenze, ecc. Le donne non eccedono in violenza, non torturano le vittime prima di ucciderle ma spesso le narcotizzano o le stordiscono e dopo averle uccise non si accaniscono sul cadavere, l’omicidio non è commesso per ottenere delle gratificazioni sessuali.

I profili psicologici delle serial killer individuali e di quelle che uccidono in coppia sono diversi. Le donne che uccidono da sole hanno una personalità aggressiva e dominatrice. Quando uccidono in coppia con un uomo è quasi sempre presente una relazione sessuale e hanno una bassa autostima e una rilevante insicurezza, psichicamente fragili e dipendenti: sono attratte da uomini forti, sicuri e volitivi che sembrano dar loro protezione, ma alla fine diventano schiave dei partner che manifestano personalità sadiche e dominanti (Mastronardi, De Luca, 2005).

L’infanzia, l’adolescenza e la famiglia del serial killer

La personalità e le relazioni sociali di una persona si sviluppano sullo sfondo del clima generale della famiglia, risulta quindi fondamentale per lo sviluppo equilibrato della personalità del bambino che egli viva la sua infanzia in un’atmosfera di sicurezza affettiva. Un serial killer molto spesso nella sua infanzia sperimenta abusi e violenza e cresce in famiglie multiproblematiche.

Secondo Mazer, una famiglia multiproblematica è un gruppo familiare composto da due o più persone in cui più della metà ha sperimentato dei problemi di pertinenza di un servizio sociale e/o sociosanitario o legale (Togliatti, Tofani, 1985).

Ci sono cinque tipi di famiglia multiproblematica (ibidem):

  1. La famiglia in cui il padre è periferico sia nel sottosistema coniugale che genitoriale, la coesione nella coppia genitoriale è bassa e la figura centrale è la madre, sovraccaricata di funzioni; il padre è spesso violento con la moglie e i figli. Il bambino si trova di fronte ad un bivio: assumere, una volta adulto, gli stessi schemi comportamentali del padre, oppure rifiutarlo come modello e scegliere una figura di riferimento sostitutiva;

  2. La famiglia in cui la relazione coniugale risulta interrotta, il padre è spesso assente e la madre non riesce a compiere i suoi compiti genitoriali;

  3. La famiglia in cui entrambi i genitori sono presenti fisicamente, ma per immaturità psicologica o incompetenza psicosociale non riescono a adempiere ai loro compiti genitoriali. I genitori rinunciano al loro ruolo esecutivo e la natura del loro rapporto si presenta confusa ed instabile, questa situazione tende a frammentare il nucleo familiare a causa della notevole inconsistenza e mutevolezza delle regole;

  4. La famiglia in cui l’elemento incompetente e assente è la madre, che in queste situazioni viene avvertita o come ossessiva, invadente e prevaricatrice, o come fredda e distante;

  5. La famiglia in cui è presente una continua entrata e uscita dei membri, dove la situazione non è mai stabile. Inizialmente i figli vengono sparsi tra istituti e parenti, successivamente il nucleo si ricostituisce per breve tempo, per poi perdere di nuovo alcuni elementi.

La maggior parte degli assassini proviene da una famiglia multiproblematica, ma, nonostante ciò, questo non è un fattore sufficiente per stabilire una relazione causale con il comportamento omicidiario seriale. Osservando la casistica riportata da Ruben De Luca (2001), molti assassini seriali rientrano nelle categorie di:

  1. Figlio illegittimo: serial killer nati fuori dal matrimonio, a volte figli di prostitute, che vivono in una situazione di grave precarietà perché vengono spesso trasferiti da una famiglia ad un’altra. Presentano gravi problemi di identità, causati dalla mancanza del padre, essi si costruiscono un’identità frammentaria, connessa a problemi di identificazione sessuale con un modello paterno inesistente (questo accade soprattutto nei maschi);

  2. Padre violento e/o abusivo: padri che mettono in atto comportamenti aggressivi verso i figli e la moglie, di solito sono poco istruiti e in coppia con una madre sottomessa. La violenza subita può essere fisica e/o psicologica, avvallata spesso da un problema di alcolismo;

  3. Madre violenta e/o dominante: la madre risulta essere l’elemento violento della coppia, mentre il padre è la figura debole caratterialmente. Il figlio maschio disprezza entrambi i genitori e l’inversione del ruolo genitoriale può deformare lo sviluppo sessuale del bambino;

  4. Famiglia spezzata: uno dei due genitori manca, quello rimasto può decidere di far adottare i figli, affidarli ad un orfanotrofio oppure risposarsi (soprattutto la madre) con un compagno che può essere violento, aggiungendo al trauma dell’abbandono anche quello delle violenze;

  5. Famiglia povera e/o traumi infantili: il bambino, vivendo nella stessa stanza con i membri di diverse generazioni, assiste a situazioni di promiscuità che aumentano le tensioni sessuali. In questa categoria rientrano i serial killer che hanno avuto dei traumi importanti durante l’infanzia, tra cui violenze fisiche e sessuali da parte di parenti o estranei, oppure essere testimoni di atti sessuali compiuti da altri;

  6. Famiglia normale: il serial killer ha vissuto in un contesto familiare sereno, infatti il numero di assassini in questa categoria è limitato, di solito di questa categoria fanno parte quelli che uccidono in coppia in quanto è presente un soggetto dominante e un soggetto che si lascia dominare.

Possiamo quindi notare due elementi comuni che svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo dei serial killer: la presenza di abusi e maltrattamenti e la presenza di una vita familiare inadeguata, caratterizzata dalla mancanza di amore e comprensione.

La maggior parte dei ricercatori concordano nel sostenere che i bambini sottoposti a violenza, avranno grandi difficoltà nell’affrontare i problemi della vita a causa dei maltrattamenti fisici, psicologici e sessuali perpetrati dai genitori, spesso manifestano più aggressività e frustrazione rispetto agli altri bambini e possono sperimentare sentimenti di sfiducia verso gli altri e sé stessi, di scarsa autostima, di un’incapacità ad avere relazioni interpersonali significative, a pianificare i propri scopi nella vita e possono trovare anche difficoltà nell’esprimere i sentimenti (Buttarini et al. 2007).

L’infanzia è il momento in cui si forma il legame di attaccamento tra il bambino e il caregiver. “L’attaccamento che emerge nelle prime fasi della vita, continuerà a caratterizzare il rapporto figura di attaccamento-bambino anche in seguito, ma in forme via via più mature” (Ferraris, Oliverio, 1992, 92). Il legame di attaccamento organizza le relazioni personali del bambino e dell’adulto. La mancata formazione di questo legame può rendere il bambino, e successivamente l’adulto, incapace di provare empatia, affetto o rimorso per un altro essere umano, caratteristiche comuni nei serial killer. Di solito, la mancanza di legame è presente dove c’è un abbandono genitoriale o un clima d’instabilità (De Luca, 2001).

L’atmosfera insana in cui vivono i bambini, è spesso il luogo in cui imparano come affrontare i problemi comportamentali, guardando ed imitando i genitori (apprendimento per osservazione). Secondo questo processo, se il genitore reagisce allo stress o alla frustrazione con una reazione aggressiva e violenta, il bambino apprenderà che questo comportamento è una reazione accettabile e quando crescerà affronterà le situazioni stressanti allo stesso modo (ibidem).

Riprendendo la ricerca degli agenti dell’FBI citata precedentemente, si è notato che la metà delle famiglie dei 36 soggetti intervistati, aveva al suo interno membri con storie criminali alle spalle e più della metà aveva problemi psichiatrici. È probabile che la maggior parte degli assassini non abbia sperimentato una buona qualità di vita o un’interazione positiva con i componenti della famiglia, visto che nel 70% dei casi si sono riscontrate storie di abuso di alcol, in un terzo di abuso di droghe e in più della metà dei casi sono presenti dei problemi sessuali (Buttarini et al. 2007).

Una serie di ricerche ha dimostrato che esiste una correlazione tra aggressività sessuale e cattiva relazione tra padre e bambino, questo legame è fondamentale affinché il bambino consolidi la sua identità di genere. Se il padre è assente o inadeguato, il bambino o trova un altro modello maschile con il quale identificarsi o si ritira nella fantasia, perdendo il contatto con il mondo reale. Anche il rapporto con la madre è importante, perché per il figlio maschio rappresenta il primo contatto con il mondo femminile. Nel periodo che va dalla nascita ai 6 anni, periodo in cui il bambino dovrebbe comprendere cosa significa amare, le madri dei serial killer risultano fredde, distanzianti e scarsamente affettuose. Per quanto riguarda le assassine seriali, nella loro infanzia sono presenti molti abusi sessuali, di solito perpetrati dal padre, anche se potrebbe essere anche un fratello, uno zio o un parente. Le figure genitoriali per i serial killer sono delle persecuzioni che, coscientemente o meno, li guidano nella valutazione delle proprie vittime e nelle attività omicide (De Luca, 2001).

Tutti i serial killer presentano gravi difficoltà relazionali e hanno una vita sociale povera, risultato delle relazioni infantili disturbate e carenti. Il bambino proietta nella scuola il rapporto con i coetanei e i vissuti familiari. Ci sono due modelli di comunicazione e rapporto con il gruppo dei pari che sono opposti (Ressler, Burgess, Douglas 1988):

  • Modello del capro espiatorio: bambini che vengono presi di mira dai compagni e devono sopportare i loro scherzi e insulti. Con il tempo il soggetto si adatta alla situazione e accetta in modo passivo di essere il capro espiatorio, rifugiandosi nel suo mondo fantastico. Se l’offesa è molto grave può reagire mostrando una forza inaspettata che deriva dalla rabbia accumulata, successivamente torna nel suo mondo fantastico. Alcune volte la reazione del bambino è segno di un’inversione di rotta, e inizia ad essere aggressivo e violento;

  • Modello del bullismo: bambini aggressivi che sfogano la rabbia contro i coetanei, la loro relazione con essi è caratterizzata solo da aggressività e violenza. Ressler ha notato che il 54% dei serial killer ha avuto comportamenti violenti verso i pari durante l’infanzia, e un 64% durante l’adolescenza.

La sessualità e le perversioni del serial killer

Il rapporto tra sessualità e omicidio è complesso, in quanto è difficile delineare e circoscrivere il concetto di delitto sessuale, perché non è neanche facile definire l’ambito e i limiti del concetto di atti sessuali (Canepa, Lagazzi, 1988).

La sessualità, oltre ai fattori fisiologici, riflette anche molti fattori consci e inconsci che coinvolgono funzioni istintuali, erotiche ed affettive, esprimendosi in condotte complesse che difficilmente possono essere delimitate nell’ambito degli atti sessuali (Monzani, 2007).

Risulta molto importante conoscere in che modo si attua la pulsione sessuale, perché è ciò che caratterizza la condotta di molti serial killer; essi spesso esternano la loro aggressività nella sfera sessuale, assaltando e stuprando estranei in attacchi brutali. In alcuni casi, le componenti sessuali, si presentano con chiari segni di violenza sessuale sulla vittima, o sono segnalate dalla particolare sede e morfologia delle lesioni inferte ad essa. Vi sono anche omicidi in cui le componenti sessuali non sono sospettate ad un’analisi fenomenica della scena del crimine o in base all’esame della vittima, perché integrate nell’atto lesivo e/o omicidiario stesso (ibidem).

Nello studio condotto dall’FBI, il 42% degli intervistati avevano subito un abuso fisico durante il periodo evolutivo. Il serial killer quindi, non volendo, viene fatto entrare nel mondo sessuale degli adulti, e da quel momento i suoi pensieri e le sue azioni saranno permeate dalla sessualità, tanto da diventare un soggetto abusante a sua volta. Se non è presente la violenza sessuale, è comunque presente una situazione familiare promiscua in cui il bambino è obbligato a “respirare sesso” fin da piccolo. L’ossessione per il sesso si può sviluppare anche a causa di un’educazione troppo repressiva, dove i genitori descrivono tutto ciò che appartiene alla sfera sessuale come peccaminoso. (Ressler et al. 1988).

In questi soggetti è molto comune trovare una combinazione di perversioni sessuali. Può essere quindi valida la teoria di Glover secondo la quale le perversioni sono dei tentativi regolari che ci proteggono contro le naturali angosce da introiezione e da proiezione attraverso l’esaltazione della libido. Quando alcune forme di angoscia infantile tornano in superficie durante la vita adulta, un modo per riuscire a superare la crisi, è il rafforzamento dei sistemi primitivi di “libidinizzazione”; ciò permette la nascita della perversione (De Luca, 2001). I serial killer sono spesso incapaci di fronteggiare la realtà e le sue richieste e quando l’angoscia è troppo forte, scatta il bisogno di ricorrere alla perversione che gli permette di raggiungere una gratificazione, anche se transitoria.

Le due perversioni principali riscontrabili in questi soggetti sono il sadismo e la necrofilia che tendono ad escludersi a vicenda: il piacere dell’assassino sadico termina con la morte della vittima che risulta essere invece il punto di partenza per la soddisfazione sessuale del necrofilo (ibidem).

L’uso della pornografia è massiccio nei serial killer, quella sadomasochista sembra quella più coinvolta nell’omicidio seriale. Gli stimoli provenienti da questo materiale rafforzano le fantasie di dominio già esistenti nella mente del soggetto e gli danno l’impressione di essere nel giusto (Monzani, 2007). Levine e Fox (1994) hanno notato che questo tipo di pornografia desensibilizza il soggetto alle manifestazioni di dolore e alla visione della sofferenza di vittime reali che vengono considerate “non persone”. Quando un individuo comincia a manifestare un comportamento deviante, usa la pornografia per nutrire le sue fantasie tra un omicidio e l’altro, per prolungare il senso di eccitazione che comporta; questa fantasia all’inizio riduce il rischio di nuovi omicidi, ma estende lo stato di eccitazione, aumentando la possibilità di maggiore violenza nel tempo (Buttarini et al. 2007).

Ferracuti (1988) evidenzia l’esistenza di un’assuefazione al materiale pornografico chiamato “effetto sazietà”, col passare del tempo, il soggetto perde l’interesse per uno stimolo sempre della stessa intensità e ha bisogno di materiale che gli fornisce stimoli più forti per rafforzare le proprie fantasie.

Dietz, uno psichiatra, afferma che non esiste una correlazione causale tra la pornografia e gli omicidi seriali, perché secondo lui la causa risale all’infanzia del soggetto, molto prima dell’uso di materiale pornografico in quanto alcune immagini, anche se devianti, non potranno mai rendere parafilico o criminale un uomo che senza di esse sarebbe stato normale. Il passaggio dalla fantasia all’azione dipende in gran parte dal carattere e dalle avversità della vita e ha poco a che fare con gli oggetti del desiderio (Simon, 2013).

I correlati psicopatologici nel serial killer

La malattia mentale nei serial killer è stata sempre dibattuta, c’è chi sostiene che siano individui normali, cioè soggetti che uccidono per scelta e che quindi per scelta potrebbero smettere, e chi li ritiene affetti da rilevanti disturbi mentali che compromettono la scelta libera e cosciente (De Pasquali, 2001). Secondo Douglas, il comportamento che mettono in atto rispecchia la loro personalità, l’arma del delitto non è il coltello o la pistola, ma la mente, motivo per il quale è importante l’analisi psicologica per individuare i serial killer (Perrotta, Pais, 2015).

Molti serial killer soffrono di uno o più disturbi di personalità. I più diffusi sono: disturbo antisociale, disturbo borderline e disturbo narcisistico (De Pasquali, 2001).

Il disturbo antisociale di personalità è “un pattern pervasivo caratterizzato dall’inosservanza e dalla violazione dei diritti degli altri” (APA, 2014, 763).

Tale disturbo è un comportamento irresponsabile e antisociale, che comporta atti illegali, disonestà, atti fisici, aggressività, menzogna, impulsività. Gli individui che presentano questo disturbo sono incapaci di instaurare un rapporto interpersonale profondo, non hanno rispetto per i sentimenti altrui e non riescono ad apprendere dall’esperienza. I serial killer con questo disturbo uccidono quando viene minata la loro autostima o per vendetta. La vittima, solitamente, è uno sconosciuto o qualcuno che conosce superficialmente (De Pasquali, 2001).

Il disturbo borderline di personalità è “un pattern pervasivo di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sè e dell’umore e una marcata impulsività, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti” (APA, 2014, 768).

I soggetti con tale disturbo diventano violenti soprattutto quando si sentono rifiutati o abbandonati, mentre in altri casi è causata da un’instabilità emotiva (De Pasquali, 2001).

Il disturbo narcisistico di personalità è un “pattern pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di ammirazione e mancanza di empatia, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti” (APA, 2014, 775).

Il narcisista ha atteggiamenti arroganti e presuntuosi, in quanto si sente unico e speciale, presenta una costellazione di tratti che includono un esagerato senso di auto-importanza, la mancanza di empatia, svalutazione degli altri per poter mantenere un senso di superiorità (De Pasquali, 2001).

Uno degli aspetti comuni ai serial killer sono i disturbi sessuali, che si dividono in parafilie e disfunzioni sessuali (De Pasquali, 2001).

Con il termine parafilia si intende “qualsiasi intenso e persistente interesse sessuale diverso dal solito interesse per la stimolazione genitale, ai preliminari sessuali con partner umani fenotipicamente normali, fisicamente maturi e consenzienti” (APA, 2014, 796).

Nella categoria dei disturbi parafilici rientrano: il disturbo voyeuristico, il disturbo esibizionistico, il disturbo froutteristico, il disturbo da masochismo sessuale, il disturbo da sadismo sessuale, il disturbo pedofilico, il disturbo feticistico e il disturbo da travestitismo (ibidem).

Secondo il criminologo Bruno il serial killer può presentare tutte le perversioni, dal sadismo alla pedofilia, ma nessuna di queste sarà predominante. Le parafilie, infatti, difficilmente si ritrovano allo stato puro, ma si manifestano come complessi di perversioni e quelle più diffuse sono il sadismo, la pedofilia, il feticismo e il cannibalismo (Buttarini et al. 2007).

Il disturbo da sadismo sessuale è caratterizzato da “eccitazione sessuale ricorrente e intensa, manifestata attraverso fantasie, desideri e comportamenti, per un periodo di almeno 6 mesi, derivante dalla sofferenza fisica o psicologica di un’altra persona” (APA, 2014, 808).

Per diagnosticarlo, l’individuo deve aver messo in atto questi comportamenti a discapito di un’altra persona non consenziente e tali desideri devono causare un disagio clinicamente significativo a livello sociale e lavorativo (ibidem). Il sadismo, quini, è una condizione psichica in cui l’individuo ricava piacere dal dolore provocato alla vittima, le fantasie e gli atti sadici comportano il dominio del soggetto e possono essere: violenze sessuali, torture, mutilazioni, omicidi, cannibalismo e vampirismo. Nel serial killer il sadismo compare fin dall’infanzia, con lo zoosadismo (aggressività nei confronti degli animali), quando diventa adulto, sceglie una vittima umana e dopo aver fantasticato sulla sua morte la cattura. Una volta catturata, cerca di protrarre il più possibile le sue sofferenze, in quanto è da queste che ricava il piacere sessuale (De Pasquali, 2001).

Il disturbo pedofilico è caratterizzato da “eccitazione sessuale ricorrente e intensa, manifestata attraverso fantasie, desideri o comportamenti, per un periodo di almeno 6 mesi, che comportano attività sessuale con un bambino in età prepuberale o con bambini” (APA, 2014, 810).

Gli omicidi sessuali di bambini possono avvenire durante l’atto sessuale, per coprire uno stupro, o essere parte di un piano per uccisione per libidine. È importante distinguere tra pedofili violenti e non violenti: i primi sono pedofili sadici che godono del dolore inflitto al bambino; i secondi lo seducono con le loro capacità relazionali. Esiste anche la categoria di pedofilo pluriomicida che presenta le caratteristiche sia del pedofilo che del serial killer: ha difficoltà ad avere rapporti con un partner adulto e sceglie il bambino come oggetto sessuale su cui esercitare il proprio controllo (De Pasquali, 2001).

La necrofilia è una parafilia caratterizzata da attrazione sessuale verso il cadavere, chi è affetto da questo disturbo prova eccitazione sessuale unendosi carnalmente ad un cadavere, osservandolo oppure con una rappresentazione mentale di esso (De Pasquali, 2001). Gli assassini necrofili uccidono la loro vittima in fretta perché il desiderio sessuale inizia con la loro morte, cercano infatti di mantenere intatto il cadavere. L’interesse per gli animali morti è il primo campanello d’allarme per un futuro necrofilo, che a differenza del sadico è incapace di infliggere dolore (Buttarini et al. 2007).

Solitamente questi soggetti vivono con i genitori o da soli, non hanno un partner perché il sesso con delle persone vive è terrificante per loro, la paura dell’oggetto inibisce il piacere sessuale. Il cadavere, invece, è passivo e ciò gli permette di sfogare gli impulsi sessuali senza inibizioni. Il necrofilo ha una sessualità prettamente pregenitale (masturbazione), infatti è interessato alla contemplazione della vittima, accompagnata con un’attività autoerotica. A volte possono arrivare al cannibalismo amoroso, cioè mangiano alcune parti della vittima per introiettare l’oggetto amato, considerando quello l’unico modo per mantenere per sempre l’oggetto sotto il suo controllo (De Luca, 2001).

Il Voyeurismo è un disturbo caratterizzato da “eccitazione sessuale ricorrente ed intensa, manifestata attraverso fantasie, desideri e comportamenti […], derivante dall’osservare, a sua insaputa, una persona nuda o che si sta spogliando o che è impegnata in attività sessuali. L’individuo ha messo in atto questi desideri sessuali a discapito di un’altra persona non consenziente oppure i desideri o le fantasie causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti” (APA, 2014, 797).

È una delle perversioni predilette dai serial killer, anche se spesso è un voyeurismo obbligato, perché il bambino che vive in una famiglia multiproblematica è costretto dai propri genitori ad assistere ad uno o più rapporti sessuali. Molti assassini prima di uccidere si sono dedicati al voyeurismo, solo che essendo una perversione “leggera”, si verifica un processo in base al quale il soggetto non riesce più a soddisfare la propria eccitazione con questa attività e ricerca stimoli più forti (De Luca, 2001).

Prevenzione del comportamento omicidiario seriale

Quando si parla di serial killer la prevenzione è fondamentale. Esistono diversi elementi, che possono far pensare all’insorgenza futura di un comportamento omicidiario seriale, essi dovrebbero essere notati dagli adulti di riferimento con i quali il bambino viene a contatto (Massaro, 2002).

La prevenzione del comportamento omicidiario seriale, con la perfetta interazione dei sistemi (famiglia, scuola, istituzioni del territorio) che si trovano a contatto con il bambino, è molto difficile se manca il consenso e la partecipazione attiva di tutti i soggetti interessati. I genitori non sono quasi mai disposti ad ammettere di avere un figlio problematico e, anche se lo fanno, tendono sempre a minimizzare gli eventuali comportamenti irregolari o devianti e a giustificarli. Ciò non vuol dire che chiunque abbia un certo tipo di problema o un certo tipo di fantasie durante il periodo evolutivo, diventerà un serial killer, ma è un soggetto da tenere sotto controllo (ibidem).

Il termine prevenzione rimanda all’idea di agire in anticipo per cercare di impedire un evento negativo, con l’intento, di preservare al meglio ciò che riteniamo essere positivo. La prevenzione va nella direzione della promozione, cioè verso il rafforzamento di tutti quei fatti ritenuti capaci di svolgere effetti di protezione e di sviluppo di condizioni di vita individuali e sociali qualitativamente buone. Quindi prevenire il disagio sociale (compreso il crimine), e promuovere il benessere, possono essere considerati i due lati della stessa medaglia, poiché entrambi questi modi di vedere ed agire sono tesi a potenziare i fattori protettivi, o a ridurre i fattori di rischio (Bertelli, 2008).

Una proposta interessante di prevenzione è quella di Katiuscia Mari, maestra di scuola elementare. Inizialmente richiede una formazione adeguata da parte degli insegnanti, il cui compito principale sarebbe quello di cercare di comprendere in profondità il bambino. Una volta individuata la natura dei suoi problemi, deve cercare una modificazione del suo comportamento mediante l’impiego di varie metodologie cognitivo-comportamentali che si possono raggruppare in due categorie generali (De Luca, 2001):

  1. Tecniche di prevenzione: aumentano la probabilità di emissione di un comportamento; sono usate per rinforzare e sviluppare i comportamenti positivi;

  2. Tecniche di intervento: riducono la probabilità di emissione di un comportamento, sono usate per attenuare e eliminare i comportamenti negativi.

La fantasia riveste un ruolo centrale negli omicidi: nel momento in cui quest’ultimi avvengono, la fantasia è diventata realtà. Molti studiosi sono d’accordo che l’unico modo di fermare i serial killer, sia quello di intervenire prima che commettano il primo omicidio. Per spezzare il processo omicidiario, si potrebbe sfruttare la potenza energetica delle immagini fantastiche, canalizzandole su un diverso mezzo d’espressione (Mastronardi, De Luca, 2005).

Paolo De Pasquali (2001), indica una proposta preventiva basata su un parallelismo con la prevenzione a tre livelli in medicina:

  • Prevenzione primaria: si applica su un soggetto sano, che non ha ancora ucciso e richiede un intervento sul soggetto e sull’ambiente, in modo da creare condizioni di vita che sfavoriscano lo sviluppo di un comportamento violento;

  • Prevenzione secondaria: si mette in atto su un soggetto che ha già dato segni del disturbo, attraverso comportamenti violenti tipici, più o meno gravi, spesso a sfondo sessuale. Lo scopo è il contenimento della progressione del comportamento violento per evitare che arrivi all’omicidio (se non c’è stato), o all’omicidio ripetuto, se il primo è già avvenuto;

  • Prevenzione terziaria: il soggetto è già entrato nel circuito omicidiario seriale e dal punto di vista clinico, le ipotesi di trattamento psicologico sono inutili. L’obiettivo è soltanto il controllo del comportamento per non fargli commettere altri crimini e l’unico modo è il regime detentivo continuo. Affinché si verifichi questa condizione, è necessario che lo psichiatra dichiari la pericolosità sociale perenne degli assassini seriali e che venga emessa una sentenza di detenzione a vita e che i magistrati non gli concedano i benefici di legge.

Definizione di criminal profiling

Il criminal profiling nasce con lo studio degli omicidi seriali e tenta di decifrare le dinamiche psicologiche e comportamentali che hanno portato a quell’omicidio, ma non è un semplice esperimento di classificazione dei serial killer; infatti, ad oggi comprende anche altre forme di violenza agita, non solo quella omicidiaria e ripetuta nel tempo (Picozzi, Zappalà, 2002).

Nel Webster’s Dictionary of the American Language (1978), il termine profiling viene definito come una breve ma chiara biografia che descrive le caratteristiche più salienti di un soggetto.

Il criminal profiling si basa su un’indagine volta ad individuare la personalità del soggetto, cioè gli aspetti biologici del temperamento (impulsi, necessità, stati affettivi) innati in un individuo, che gli permettono di reagire agli stimoli in un determinato modo; i tratti psichici, disposizioni e segni distintivi acquisiti da un soggetto dal proprio contesto ambientale, culturale, affettivo etc, influenzati da fattori intrinsechi e/o estrinsechi; ma anche i valori, i modelli comportamentali e le forme di organizzazione sociale in grado di modificare l’ambiente e la personalità (Copson, 1995).

Per Lucarelli e Picozzi (2003), il criminal profiling è l’analisi della scena del crimine, basata su metodi medici, scientifici e su conoscenze cliniche per tracciare il profilo dell’artefice di un reato violento; l’obiettivo principale è quello di fornire agli investigatori dati utili per la cattura del criminale.

Per Douglas, Ressler, Burgess e Hartmann (1986), il profiling consiste nell’identificazione delle principali caratteristiche di comportamento e personalità di un individuo, basate sull’analisi delle peculiarità del crimine commesso.

Per Copson (1995), è un approccio della polizia investigativa che serve a fornire la descrizione di chi ha commesso un reato ma risulta ancora sconosciuto; questo approccio si basa sulla valutazione dei dettagli della scena del crimine, della vittima e di tutti i particolari che possono tornare utili.

Nel 1995, Burgess e Hazelwood affermano che il criminal profiling è una sottocategoria dell’analisi investigativa criminale che determina le condizioni psicologiche dell’autore, l’analisi delle cause della morte e le strategie investigative migliori da utilizzare.

Per Geberth (1996), è un tentativo di fornire a chi fa le investigazioni informazioni specifiche sulle caratteristiche dell’individuo che ha commesso il crimine.

Holmes e Holmes (1996), individuano nel profiling tre obiettivi per fornire le informazioni utili su una valutazione sociale e psicologica dell’offender, una valutazione psicologica dei reperti rinvenuti in possesso del sospetto e una consulenza offerta agli investigatori sulle strategie più efficaci per fare un interrogatorio.

Infine, Canter (1999), usa la parola profiling riferendosi a qualunque attività utile a dedurre le caratteristiche dell’aggressore e del tipo di reato.

La premessa fondamentale del profiling è che il comportamento riflette la personalità, quindi la personalità del criminale si riflette nel suo reato. La storia del colpevole e ciò che lo ha condotto a sviluppare un certo tipo di personalità, si possono notare dalle sue azioni prima, durante e dopo il crimine. Il profiling fornendo a chi investiga delle informazioni reali sul reo, risulta un processo dinamico che permette di limitare il numero di sospettati, impiegando così al meglio le risorse investigative (Picozzi, Zappalà, 2002).

Caratteristiche del moderno profiler

Nel 2000 Pat Brown, una delle più richieste profiler in America, ha elencato le caratteristiche fondamentali che dovrebbe possedere ogni profiler (De Luca, 2021):

  • i requisiti base sono una personalità stabile, buon senso dell’umorismo, ottimo sistema interno di supporto per sopravvivere emozionalmente visto che il profiler lavora tutti i giorni con autopsie, scene del crimine di omicidi violenti, vittime smembrate, perversioni estreme e pornografia. Saper gestire la frustrazione e il senso di fallimento quando non si riesce a catturare l’assassino e a impedire nuovi omicidi;

  • mettere in conto l’ingente quantità di tempo che porta via questo lavoro nel momento in cui si affronta un caso al quale va data la priorità, anche rispetto alle esigenze della propria vita familiare, infatti anche se il profiler non è il responsabile delle indagini, ha una grande responsabilità perché se riesce a tracciare un profilo molto accurato, ci sono maggiori possibilità che l’assassino venga catturato prima che uccida ancora;

  • bisogna essere esperti nelle procedure di polizia, investigazione privata, psicologia, criminologia, vittimologia, sapere come pensano i testimoni e come aiutare le persone a ricordare informazioni rimosse e a condividerle e altre discipline collegate all’analisi della scena del crimine. È importante leggere tutti i materiai dei crimini di cui ci si andrà ad occupare e se possibile parlare con i criminali stessi che riescono a rendere il profiler conscio dei processi mentali che mette in atto durante l’esecuzione di un crimine;

  • imparare tutte le tecniche d’intervista per ottimizzare la capacità di ricavare informazioni da un colloquio;

  • oltre alle competenze di base, bisogna ampliare il proprio bagaglio professionale in ogni campo possibile, mostrarsi interessati a qualsiasi cosa per poter stabilire una relazione con il criminale durante le interviste, saper parlare il suo stesso linguaggio o pensare come lui può incoraggiarlo a rendere partecipe il profiler di una parte delle sue fantasie;

  • la motivazione giusta per scegliere di diventare un profiler è quella di desiderare di aiutare le vittime e le loro famiglie catturando il criminale il prima possibile.

Negli Stati Uniti e in Europa le competenze base appaiono un po’ diverse. In America i profiler sono principalmente i detective e gli investigatori appartenenti alle forze di polizia che hanno studiato la psicologia e la psichiatria, ma in maniera marginale rispetto alle conoscenze investigative. In Europa invece è il contrario, perché la figura del profiler è rivestita principalmente da psichiatri e psicologi, ed è proprio da questo mondo che provengono la maggior parte delle iniziative sullo studio e sull’applicazione del profiling (Picozzi, Zappalà, 2002).

La costruzione del profilo psicologico

Il profilo psicologico nasce negli Stati uniti negli anni ’60 e successivamente perfezionato dall’FBI che inizia ad usarlo nelle sue indagini verso la metà degli anni ’80; esso può essere considerato “l’analisi delle principali caratteristiche comportamentali e di personalità di un individuo, ottenibili dall’analisi dei crimini che il soggetto stesso ha commesso” (Mastronardi, De Luca, 2005, 493). Holmes (1996), preferisce chiamarlo profilo socio-psicologico, in quanto oltre ad ipotizzare i tratti della personalità, deve includere informazioni socio-demografiche (vedi figura 3).

Figura 3. Il profilo psicologico: elementi fondamentali (Picozzi, Zappalà, 2002)

Per costruire un profilo è importante interpretare in modo corretto la scena del crimine che potrebbe indicare il tipo di personalità di chi ha commesso il crimine e determinare che cosa è accaduto e in che modo, successivamente si passa allo studio della vittima (vittimologia) e infine al case linkage, tutto ciò utilizzando metodologie statistiche di analisi che hanno come risultato il raggiungimento di un giudizio probabilistico sotto la forma “se-allora”. Il profilo psicologico è probabilistico e non serve a identificare con sicurezza il criminale, ma ne individua le possibili caratteristiche di personalità (Mastronardi, De Luca, 2005).

L’analisi della scena del crimine è la prima cosa da fare per poter elaborare il profilo psicologico in quanto non ci sono le basi per capire chi è stato e perché lo ha fatto se prima non si conosce il cosa e il come è accaduto. La ricostruzione della scena del crimine può essere molto chiara e fornire molteplici indizi oppure essere di poco aiuto nelle indagini e suggerire delle chiavi interpretative più o meno complesse. Gli elementi riscontrati e le tecniche applicate per trovare questi elementi sono confrontati e integrati a sostegno di una congettura dinamica rivolta alla conferma o all’esclusione di ipotesi esplicative. Durante la ricostruzione vengono raccolte anche informazioni sulle caratteristiche socio-ambientali e demografiche della zona in cui si è svolto il crimine, importanti sono anche i verbali di interrogatorio delle persone che si pensa abbiano partecipato in qualsiasi modo ad esso. Il rapporto del medico-legale, il verbale dell’autopsia e le fotografie sono elementi fondamentali per il profilo psicologico (Picozzi, Zappalà, 2002).

Molti dei reati violenti implicano una relazione tra la vittima, l’aggressore e la scena del crimine in cui si svolge. Questa relazione si può stabilire attraverso l’analisi delle prove fisiche e comportamentali e le dichiarazioni delle vittime o dei testimoni se possibile. Essenziale per il profiling è il case linkage, che è il procedimento attraverso il quale si possono stabilire legami tra casi che in precedenza non erano correlati (ibidem).

Quando il sospetto viene catturato si confronta il profilo stilato con le sue caratteristiche per poterlo migliorare e valutare nuovi elementi investigativi. Le domande principali che il profiler si deve porre durante la costruzione di un profilo sono: che cosa è successo durante il delitto, che tipologia di individuo può commettere quel delitto e quali sono le caratteristiche principali che vengono solitamente associate a quel tipo di persona (Di Pietro, 2005).

David Canter propone un modello diverso per stilare un profilo da quello dell’FBI, che tiene conto di cinque elementi del rapporto tra aggressore e vittima (Egger, 1990):

  • Coerenza interpersonale: l’autore del crimine si relaziona con la futura vittima nello stesso modo con cui si relaziona con tutte le persone, quindi alcune modifiche nei legami interpersonali possono definire variazioni nelle sue attività;

  • Il significato del tempo e del luogo: il luogo in cui si è svolto il crimine, il modo in cui viene eseguito e il lasso temporale possono fornire informazioni sul modo in cui concettualizza le relazioni spaziali e temporali e fornire indicazioni sulle sue abitudini;

  • Caratteristiche del criminale: le caratteristiche della scena del crimine e la sua modalità d’esecuzione, consentono di classificare i criminali in categorie che aiutano gli investigatori a tracciare il loro profilo;

  • Carriera criminale: cercare informazioni su dei crimini pregressi, consente di tracciare la sua carriera e il possibile sviluppo e di valutare la personalità del soggetto;

  • Evidenze forensi: sono elementi che fanno presupporre che il criminale conosca le procedure di analisi utilizzate dagli investigatori, quindi cerca di nascondere le sue tracce, per esempio indossando dei guanti.

Il modello classico dell’FBI per la stesura del profilo psicologico

Il modello di profiling creato dall’FBI è di tipo induttivo, ed utilizza una base di dati, derivati dalle interviste ai criminali all’interno delle carceri, per generare delle ipotesi sulle caratteristiche dell’autore sconosciuto di un reato. Questo modello prevede 5 fasi più 1 finale che sarebbe la cattura (www.apistafredda.it):

  1. Profiling imput: raccolta di ogni genere di prova materiale derivante dall’analisi della scena del crimine. Il profiler in questa fase non dovrebbe avere nessuna informazione su eventuali sospetti perché questo potrebbe influenzare il suo lavoro;

  2. Decision process models: si organizza e classifica tutto il materiale prodotto nella fase precedente e si prende in considerazione la dimensione dell’attività criminale. Ci sono alcune domande che un profiler si può porre come che tipo di omicidio è stato commesso, qual è il rischio a cui era sottoposta la vittima, in quale sequenza l’assassino ha compiuto gli atti sia prima che dopo l’omicidio, quanto controllo ha esercitato sulla vittima, dov’è stato commesso il crimine e se sono presenti elementi che rimandano allo staging1 o undoing (tentativo di ridurre l’impatto emotivo del crimine commesso).

  3. Crime assesment: viene ricostruito il comportamento dell’assassino con particolare attenzione al rapporto tra la vittima e l’aggressore.

  4. Criminal profiling: è la fase della stesura del profilo in cui vengono elencate le caratteristiche sociodemografiche, fisiche, comportamentali, gli stili di vita e il tipo di occupazione del sospetto;

  5. Investigation: è la traduzione delle indicazioni emerse dall’elaborazione del profilo che viene consegnato agli investigatori per eliminare alcuni sospetti, se emergono dei nuovi elementi il profiler dovrà rielaborare il profilo e consegnarlo nuovamente. Nel rapporto che viene consegnato sono presenti anche delle informazioni che possono orientare le strategie di interrogatorio da utilizzare;

  6. Apprehension (individuazione e cattura): questa è una fase ipotetica, nella quale il lavoro del profiler si può rivelare utile per mettere a punto delle strategie di interrogatorio ad hoc per i sospetti interrogati in base alle caratteristiche psicologiche dell’assassino presenti all’interno del profilo.

Campi di applicazione del profilo psicologico

I settori in cui si applica tradizionalmente il criminal profiling sono gli omicidi seriali a sfondo sessuale e non, gli stupri seriali, le molestie su minori, i crimini rituali e la piromania. Più il crimine è violento, gratuito o sessualmente connotato e più utile si rivela l’elaborazione di un profilo. L’omicidio in cui è presente una motivazione sessuale resta il capo di applicazione elettivo per il criminal profiling (www.apistafredda.it).

L’omicidio con una motivazione sessuale è il più difficile da risolvere perché l’estraneità tra l’assassino e la vittima rende poco efficaci i tradizionali metodi d’indagine, in quanto l’opportunità riveste un ruolo più importante rispetto al movente. Quando si affronta questo tipo di omicidio bisogna sempre pensare che potrebbe far parte di una serie ed è necessario procedere partendo dagli unici elementi che si hanno a disposizione: la vittima e la scena del crimine (Perrotta, Pais, 2015).

Holmes e Holmes (1996) affermano che il profilo risulta più utile nel momento in cui la scena del crimine riflette la psicopatologia, come può accadere nei casi di aggressione a sfondo sadico. Secondo il Crime Classification Manual, possiamo distinguere sei differenti tipi di omicidio in cui il profiling può tornare utile (Picozzi, Zappalà, 2002): single murder, serial murder, mass murder, spree killing, rape (stupro), arson (incendio doloso), bombing (attentato dinamitardo).

La tecnica del profilo geografico

L’obiettivo del profilo geografico è quello di delimitare un’area geografica come probabile luogo di residenza di un reo, autore di diversi crimini. A. J. Quelet (1796-1874) e A. M. Guerry (1803-1868), furono i primi ad usare i dati statistici e demografici per mettere in relazione l’incidenza dei reati all’età, al sesso, alla professione, al livello di istruzione, al ceto sociale e all’etnia. L’attenzione all’ambiente fisico e sociale nello studio della criminalità fu invece posta da Shaw nel 1929, nei suoi studi sistematici sugli ambienti urbani degradati con un alto tasso di criminalità (Picozzi, Zappalà, 2002).

Queste ricerche vennero proseguite dai sociologi della Scuola di Chicago che indicarono con il termine “aree criminali” le zone delle città nelle quali nasce e risiede la maggior parte della criminalità urbana, successivamente questo approccio si estese anche allo studio della criminalità giovanile (Shaw e McKai, 1942).

Il profilo geografico si affianca a quello psicologico e sono presenti due componenti: una qualitativa e una quantitativa. La prima, che si può definire soggettiva, è basata sulla ricostruzione e l’interpretazione della mappa mentale del criminale; molti di loro hanno una mappa al cui centro è posta la loro base dalla quale partono per compiere i loro crimini, mentre la seconda, che si può definire oggettiva, è basata sull’utilizzo di tecniche matematiche e geografiche e di una misura quantitativa per analizzare ed interpretare il pattern risultante dall’insieme dei punti che corrispondono ai luoghi dei delitti (Mastronardi, De Luca, 2005).

Per costruire un valido profilo geografico bisogna rispettare alcune condizioni (Ciappi, 1997):

  • devono verificarsi una serie di crimini che possono essere collegati tra loro, commessi quindi da un solo aggressore;

  • devono esserci almeno cinque eventi nella serie criminosa, perché con un minore numero di casi l’efficacia del profilo geografico diminuisce;

  • ogni informazione geografica, di sopralluogo e relativa alle caratteristiche della vittima, deve essere presa in considerazione.

Rossmo (1996), elenca i fattori più importanti per costruire il profilo geografico: ubicazione del crimine, strade e autostrade di collegamento, limitazioni fisiche e psicologiche, conoscenza del territorio, composizione demo-sociografica del quartiere, attività abituali delle vittime e disposizione dei cadaveri. Mettendo insieme questi elementi, si otterrà un profilo geografico standard composto da questi passaggi (Mastronardi, De Luca, 2005):

  • esame del fascicolo del caso, inclusi i rapporti investigativi, le testimonianze, l’autopsia e il profilo psicologico;

  • esame dettagliato della scena del crimine e delle fotografie della zona;

  • intervistare chi si occupa delle indagini e gli analisti che si occupano del crimine;

  • visitare, se possibile, tutte le scene del crimine;

  • analizzare i dati demografici e le statistiche criminali del quartiere;

  • studiare la rete stradale, il territorio e le zone d’accesso;

  • compilazione del rapporto finale.

Sono tre le tipologie di risultato che gli studi sull’analisi di spostamento criminale forniscono (Picozzi, Zappalà, 2002):

  1. la distanza media di spostamento;

  2. la delimitazione di un’area circolare di spostamenti;

  3. la legge di decadimento.

Risulta sempre importante analizzare la successione temporale dei delitti e i movimenti che vengono effettuati prima e dopo, in quanto si pensa che il criminale riproduca in maniera speculare, nell’allontanarsi dalla scena del crimine, i comportamenti adottati per avvicinarsi al luogo dell’omicidio (ibidem).

Si è notato che se il reo è già stato condannato o è conosciuto dalle forze dell’ordine, tenderà a cambiare spesso il suo luogo di residenza più di quanto non faccia un criminale incensurato (Canter, 1994).

Gli studi condotti sul percorso compiuto dall’assassino per raggiungere il luogo del delitto hanno portato alle seguenti osservazioni (Picozzi, Zappalà, 2002):

  • il crimine viene spesso commesso vicino alla residenza del criminale;

  • il numero di crimini commessi decresce all’aumentare della distanza dalla sua abitazione;

  • i giovani criminali commettono omicidi molto vicini alla loro casa e sono meno mobili degli adulti;

  • ci sono diversi comportamenti spaziali in base al reato commesso. I crimini violenti si verificano più vicino alla residenza del criminale rispetto ai reati commessi contro la proprietà;

  • con la crescita della carriera criminale è presente un allargamento dell’area di attività in cui si esercita l’azione predatoria e aumenta il tempo impiegato per spostarsi;

  • gli spostamenti spesso avvengono verso zone ad alta concentrazione di reati.

David Canter, ha elaborato presso l’Unità di profilo Geografico del Dipartimento di Psicologia Investigativa dell’Università di Liverpool, un modello per stilare un profilo geografico.

Sulla base di uno studio di Canter e Larkin del 1993, sul comportamento geografico di 45 criminali che operavano a Londra e applicando il concetto di sfera criminale, sono stati individuati due tipi di comportamenti criminali (Canter, 1994):

  • Residente (marauder): utilizza la propria area abitativa come centro attorno al quale svolgere la sua attività predatoria. Secondo il modello della sfera criminale, il soggetto si muove dalla sua base per compiere i delitti, e successivamente vi fa ritorno, agendo in direzioni diverse per ogni omicidio;

  • Pendolare (commuter): commette i delitti fuori dalla sua area di residenza e quindi non è presente nessuna relazione geografica tra il luogo di vita abituale e la zona in cui compie i reati.

Nell’85% dei casi che sono stati analizzati, l’area di residenza dell’aggressore è collocabile all’interno di una circonferenza il cui diametro è dato dalla distanza tra i punti più lontani in cui sono stati commessi i crimini (Picozzi, Zappalà, 2002).

Ritroviamo quindi due principi alla base del modello di Canter (Canter, 2021; Picozzi, Zappalà, 2002):

  1. molti criminali commettono i reati vicini al loro luogo di abitazione, le distanze medie dal crimine sono notevolmente basse, le distanze aggregate seguono le funzioni di decadimento, in alcuni casi esiste una zona cuscinetto localizzata proprio vicino al luogo di residenza del criminale;

  2. all’aumentare della sua esperienza, aumenterà il tempo impiegato per gli spostamenti dalla residenza al luogo del delitto e quindi l’area dei crimini si allargherà.

Il secondo modello è quello elaborato da Rossmo nel 1996, ispettore capo del Dipartimento di Vancouver, e si chiama Criminal Geographic Targeting (CGT). Il CGT è un programma computerizzato che analizza le informazioni spaziali collegate ad una serie di crimini per determinare l’area più probabile di residenza del killer. Il sistema prevede la creazione di una superficie di probabilità che viene costruita disponendo su una griglia i luoghi dei delitti identificati tramite coordinate spaziali tridimensionali. Il risultato viene applicato ad una cartina topografica della zona in cui sono stati commessi i crimini e si ottiene il geoprofilo, nel quale vengono evidenziate le zone in cui si ritiene maggiormente probabile che viva il criminale (Mastronardi, De Luca, 2005).

Conclusioni

In questo articolo è stato analizzato il comportamento omicidiario seriale dal punto di vista criminologico e psicologico. Si è cercato di delineare cosa si cela dietro la figura del serial killer, figura che affascina tanti scrittori di romanzi e di serie tv che li portano nelle case di tutte le persone, che a volte, a causa del tipo di sceneggiatura addirittura arrivano ad empatizzare con chi commette questi atti brutali (come successe con il film del 2019 Ted Bundy – Fascino Criminale).

È stata esplorata a fondo la figura del serial killer, cercando di comprendere ciò che lo porta a compiere delitti multipli ed è stata effettuata un’analisi dal punto di vista psicologico. In questo caso la psicologia viene vista come la disciplina che permette di guardare con maggiore attenzione ciò che si ha di fronte e che permette di comprendere quello che spesso non si riesce a comunicare.

L’unico trattamento che risulta essere efficace sui serial killer è quello preventivo, quindi agire sulla famiglia ai primi segnali di squilibrio, quando il mondo della fantasia non ha ancora preso il sopravvento.

Essendo un fenomeno ricco di sfaccettature, è stato impossibile dare una sola definizione di serial killer e di omicidio seriale; si può affermare che il termine serial killer risulta essere piuttosto recente, ma il fenomeno in realtà è sempre esistito. Le definizioni fornite hanno permesso di delineare e descrivere in maniera completa il fenomeno e di descrivere i diversi aspetti del fenomeno per avere un quadro completo.

Con il seguente articolo si è quindi cercato di delineare quali sono i vissuti e le esperienze che hanno segnato la vita di questi individui tanto da fargli perdere la loro umanità, infatti come sosteneva Freud “c’è una storia dietro ogni persona. C’è una ragione per cui loro sono quel che sono. Loro non sono così perché lo vogliono. Qualcosa del passato li ha resi tali e alcune volte è impossibile cambiarli” (Freud, 1971, 58).

1 Lo staging è quando un killer altera volontariamente la scena del crimine prima dell’arrivo della polizia. Douglas (1995) differenzia la messa in scena, che è un aspetto del MO e compare quando l’assassino vuole depistare le indagini, dalla messa in posa che rappresenta la firma del criminale.

Riferimenti Bibliografici

AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION. (2014). DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Milano: Raffaello Cortina Editore.

BERTELLI, B. (2008). Devianza, forme di giustizia, prevenzione. Trento: Artimedia Valentina Trentini.

BETSOS MERZAGORA I., PONTI G. (2008). Compendio di criminologia. Milano: Raffaello Cortina Editore.

BRUZZONE, R. (n.d.). Che cos’è il Criminal Profiling. In https://pistafredda.it/cold-case-2/cold-case/che-cose-il-criminal-profiling/ (07/04/2021).

BUTTARINI, M., COLLINA, M., LEONI, M. (2007). I serial killer: un approccio psicologico e giuridico al fenomeno. Forlì: Experta Edizioni.

CANEPA, G., LAGAZZI M. (a cura di). (1988). I delitti sessuali. Padova: CEDAM.

CANTER, D. (1994). Criminal Shadows. Inside the Mind of a Serial Killer. London: Harper Collins.

CANTER, D. (2021). Studiare il comportamento criminale. Roma: corso internazionale di psicologia criminale.

CANTER, D., ALISON, L. (1999). Profiling Property Crimes: Vol IV. Offender Profiling Series. Ashgate: Aldershot.

CANTER, D., LARKIN, P (1993). The environmental range of serial rapist. Journal of Environmental Psychology, 13, 63-69.

CIAPPI, S. (1998). Serial killer: metodi d’identificazione e procedure investigative. Milano: Franco Angeli.

COPSON, G. (1995). Coals to Newcastle: Part1. A study of offender profiling. London: Home Office, Police Research Group.

DE LUCA, R. (2001). Anatomia del serial Killer, 2000: nuove prospettive di studio e intervento per un’analisi psico – socio- criminologica dell’omicidio seriale nel terzo millennio. Roma: Giuffrè Editore.

DE LUCA, R., MACRÌ, C., ZOLI, B. (2013). Anatomia del crimine in Italia. Milano: Giuffrè Editore.

DE LUCA, R. (2020). Eskidab 2020: la banca dati Europea dei serial killer; analisi dell’omicidio seriale in Europa. Roma: corso internazionale di psicologia criminale.

DE LUCA, R. (2021). Serial killer. Da Jack lo squartatore ai mostri di Rostov e di Foligno, una lunga linea di sangue attraverso l’Europa. Roma: Newton compton editori.

DE PASQUALI, P. (2001). Serial killer in Italia. Un’analisi psicologica, criminologica e psichiatrico-forense. Milano: Franco Angeli.

DI PIETRO, I. (2005). Il profilo del serial killer: problematiche definitorie e classificatorie in https://www.massimofranzin.it/pdf/profiloserialkillerilariadipietrotesigiuristrudenza.pdf (22/03/2021).

DOUGLAS, J. OLSHAKER, M. (1995). Mindhunter. la storia vera del primo cacciatore di serial killer americano. Milano: Longanesi.

DOUGLAS, J., RESSLER, R., BURGESS, A., HARTMAN C. (1986) Criminal profiling from crime scene analysis. Behavioral Sciences and The Law, vol. 4, pp. 401-421.

EGGER, S. A. (1990). Serial Murder: an elusive phenomenon. New York: Praeger.

FERRACUTI, F. (1988). (a cura di). Criminologia e psichiatria forense delle condotte sessuali normali, abnormi e criminali. Milano: Giuffrè.

FERRARSI, A. O., OLIVERIO, A. (1997). Capire il comportamento. Bologna: Zanichelli.

GERBERTH, V. J. (1996). Practical Homicide Investigation: Tactics, Procedures and Forensic Techniques. Florida, Boca Ranton: CRC Press LLC.

GRECO, A. (2014). Serial Killer, omicidi seriali: rilievi investigativi e quadri psichiatrico- forensi. Antonio Greco.

GURALNIK, D. B. (1978). Webster’s New World Dictionary of the American Language. Cleveland: The World Publishing Company.

HICKEY, E. W. (1991). Serial Murderers and Their Victims. California: Wadsworth.

HOLMES, R. M., HOLMES, S. T. (1996). Profiling Violent Crimes. Thousand Oaks California: SAGE Publications, Inc.

Il Criminologo: Chi è e cosa fa? (n.d.) in https://www.igeacps.it/il-criminologo-chi-e-e-cosa-fa/ (24/10/2020).

Kill (n.d.) in https://www.etymonline.com/word/kill#etymonline_v_1851 (30/10/2020)

KURTZ, A. (n d.). Peter Kurten, la storia del serial killer in http://www.latelanera.com/serialkiller/serialkillerdossier.asp?id=PeterKurten (28/09/2020).

LEVIN, J., FOX, J. A. (1994). Overkill. Mass Murder and Serial Killing Exposed. Berlino: Springer.

LOMBROSO, C. (1995). Delitto, genio, follia. Scritti scelti. Torino: Boringhieri.

LUCARELLI, C., PICOZZI, M. (2003). Serial killer. Storie di ossessione omicida. Milano: Mondadori.

MALIZIA, N. (2010). Criminologia ed elementi di criminalistica. Roma: Fiera & Liuzzo Publishing.

MASSARO, G. (2002). La figura del serial killer tra diritto e criminologia in http://www.adir.unifi.it/rivista/2002/massaro/introduz.htm (07/12/2020).

MASTRONARDI V., DE LUCA R. (2005). I serial killer. Il volto segreto degli assassini seriali: chi sono e cosa pensano? Come e perché uccidono? La riabilitazione è possibile? Roma: Newton Compton.

MONZANI, M. (2007). Crimini allo specchio: omicidi seriali e metodo scientifico. Milano: Franco Angeli.

NORRIS, J. (1988). Serial Killers. New York: Anchor Books.

PAIS, S., PERROTTA, G. (2015). L’indagine investigativa. Manuale teorico – pratico. Padova: Primiceri Editore.

PICOZZI, M., ZAPPALÀ, A. (2002). Criminal profiling. Dall’analisi della scena del delitto al profilo psicologico del criminale. Milano: McGraw-Hill Education.

RAMSLAND, K. (2014) Who coined “Serial Killer”? in https://www.psychologytoday.com/us/blog/shadow-boxing/201410/who-coined-serial-killer (27/09/2020).

RESSLER, R., BURGESS, A., DOUGLAS, J. (1988). Sexual Homicide: Patterns and Motives. Londra: Simon &Schuster.

ROSSMO, K. (1996). Targeting Victims: Serial Killers and the Urban Environment. Toronto: Canadian Scholars Press.

Serial (n.d.) in https://www.etymonline.com/word/serial#etymonline_v_23265 (30/10/2020)

SHAW, C. R., MCKAI, H.D. (1942). Juvenile delinquency and urban areas. Chicago: University Press of Chicago.

SIGHELE, S. (1923). I delitti della folla. Torino: Fratelli Bocca Editori.

SIMON, R. (2013). I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno. Milano: Raffaello Cortina Editore.

TOGLIATTI, M. M., TOFANI, L. R. (1985). Famiglie Multiproblematiche. Roma: NIS.


Per scaricare l’intero articolo clicca qui