Correlazione tra utilizzo di videogiochi violenti e sviluppo dell’aggressività in età evolutiva


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Introduzione

Lo scopo di questo articolo è quello di mostrare la correlazione che intercorre tra l’utilizzo dei videogiochi violenti da parte di bambini e adolescenti e il successivo sviluppo di condotte aggressive, andando anche a valutare le possibili ripercussioni a livello non solo psicologico, ma anche neurologico. Il gioco, infatti, da strumento ludico e di divertimento, diventa il mezzo che determina la loro corruzione morale per l’influenza che riesce ad esercitare. Si inizia con l’assimilazione della modalità di parlare e di comportarsi dei personaggi di questi videogiochi, il cui unico pregio è quello di essere privi di morale e valori, fino ad arrivare all’acquisizione di comportamenti violenti agiti verso la società. Questi videogiochi possono assumere caratteristiche differenti e possono anche avere differenti livelli di influenza, a seconda della modalità di gioco che propongono, ma ad accomunarli tutti è l’obbiettivo finale: restare l’ultimo a qualsiasi costo. La questione preoccupante è che tali giochi, con annessi i messaggi e i valori veicolati (anche se sarebbe più corretto parlare della loro assenza in questo genere), vengono utilizzati da bambini, i quali ancora non posseggono quella maturità che gli consente di distanziarsi dai messaggi e dai contenuti veicolati al loro interno. Sono due i maggiori rischi di questo utilizzo improprio: prendere questi personaggi come fonte di ispirazione e riproporre questi comportamenti aggressivi nel contesto familiare e sociale; sviluppare una tolleranza verso l’aggressività, arrivando anche a considerarla come un comportamento normale.

Affinché, però, non si abbia una visione troppo rigida ed estremista su questo argomento, è giusto e necessario affermare che molti studi dimostrano che un uso sano, equilibrato e adeguato dei videogiochi possa incrementare alcune capacità dei bambini e aiutarli a superare eventuali difficoltà che possano incontrare nel percorso di crescita. Consentono, ad esempio, lo sviluppo di capacità acquisiste nel processo educativo (Griffiths, 2002): il linguaggio, tramite la discussione e la condivisione di argomenti; le capacità matematiche, tramite l’interazione con i contatori dei punteggi; le capacità sociale, poiché rappresentano argomento di discussione con i coetanei e possibilità di incontro tramite le piattaforme online; la curiosità (La Barbera, Ferraro & Sideli, 2007), la quale è alla base dell’apprendimento.

La scelta di questo tema è legata all’idea che nessuna persona al mondo nasca buona o cattiva, quanto sia piuttosto l’ambiente esterno a determinare l’assunzione di tali condotte. I dati raccolti sugli effetti dei videogiochi fanno riferimento ad un’età compresa tra i 5-6 anni e i 14-15 anni.

Videogiochi violenti e aggressività

Prima di partire con l’analisi di questa relazione e dei possibili effetti che può determinare, è bene analizzare cosa sia realmente l’aggressività.

Il concetto di aggressività è molto antico e può essere considerato come uno degli atteggiamenti più caratterizzanti l’uomo e la sua condotta. Il termine “aggressività” deriva dalla parola latina aggredior, che risulta composta da ad-gradior. Il verbo gradior significa “avanzare” e “attaccare”, mentre la preposizione ad sta per “contro” e “allo scopo di” (Baldoni, 2015). Il termine “aggressività”, quindi, non rappresenta solo l’atto di “aggredire”, ma anche quello di “intraprendere”; contiene in sé molteplici idee e definizioni non per forza connesse con un atteggiamento aggressivo. A questo proposito, è necessaria un’ulteriore specificazione: aggressività e violenza non si equivalgono. Il termine “violenza”, che deriva dal latino vis (“forza”), viene associato all’esperienza più negativa e distruttrice dell’aggressività; questo concetto, inoltre, è limitato ai comportamenti che prevedono la minaccia o l’utilizzo della forza fisica (Baldoni, 2015). Quindi, non tutte le manifestazioni aggressive sono violente, ma tutti i comportamenti violenti sono considerati delle forme di aggressione.

L’aggressività è una parte fondante dell’uomo e non può essere esclusa dalla propria personalità, poiché può ricoprire un ruolo adattivo. È anche vero, però, che la modalità di espressione di questo comportamento varia ampiamente e sistematicamente: l’aggressività non può essere eliminata da sé stessi, ma può essere controllata e gestita in modo funzionale. L’uomo, inoltre, si è sempre interrogato sulla nascita e sullo sviluppo di questa sua componente, e solo negli ultimi tempi ha concepito il modello GAM, “Modello Generale dell’Aggressività”, di Anderson e Dill (2000) come lo strumento migliore per conciliare la maggior parte delle teorie sull’aggressività. Il GAM è un modello dinamico (Anderson e Carnagey, 2004), socio- cognitivo ed evolutivo che comprende variabili situazionali, individuali e biologiche. Secondo questo modello, il comportamento sociale dipende: dall’interpretazione del soggetto nei confronti degli stimoli interni ed esterni, dalle sue modalità di risposta e dalle aspettative sui risultati. Il Modello Generale dell’Aggressività si concentra, inizialmente, su una persona in una situazione all’interno di un particolare sistema sociale. A determinare la nascita del comportamento aggressivo sono tre punti focali: gli input personali e situazionali, cioè le differenze individuali (tratti, atteggiamenti e valori sulla violenza) e gli stimoli aggressivi esterni; lo stato interno caratterizzato dalle cognizioni accessibili (pensieri e script aggressivi) e dalle emozioni accessibili (sentimenti ostili e risposte motorie) e dall’attivazione fisiologica percepita; il risultato del processo di valutazione e interpretazione della situazione. Quindi, in base alle caratteristiche personali e situazionali, il soggetto vive uno stato di attivazione interno. Quando si presenta uno stimolo esterno, la persona, partendo dal suo stato interiore, attua una rapida valutazione iniziale e automatica della situazione, a cui segue un’analisi più controllata dalla quale può emergere il comportamento aggressivo. Questa risposta comportamentale induce nell’altro una risposta che, se aggressiva a sua volta, determina la nascita di un conflitto; se, invece, non è aggressiva, determina la sua estinzione. Tramite il GAM, quindi, si può riuscire a comprendere i processi interni che determinano l’attivazione della condotta aggressiva e come questa sia connessa alla percezione della situazione da parte del soggetto in relazione al proprio modo di pensare e di concepire la realtà.

Per iniziare l’analisi di questa correlazione tra l’utilizzo dei videogiochi violenti e lo sviluppo dell’aggressività, si deve comprendere l’impatto e la diffusione che questo strumento sta avendo non solo nella nostra società, ma anche nella nostra vita quotidiana. Vorrei partire con il mostrare l’impatto che ha sulla popolazione tramite il Secondo Rapporto Annuale sullo stato dell’industria videoludica in Italia (La Barbera, Ferraro & Sideli, 2007) pubblicato dall’associazione Aesvi (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani) nel 2006, nel quale si riscontra che i videogiocatori corrispondono al 43% della popolazione tra i 18 e i 44 anni, con una maggioranza del genere maschile (61%), mentre il 29% del gruppo è composto da bambini e adolescenti. Più recentemente, invece, è stato pubblicato il “Rapporto Annuale sul mercato dei videogiochi in Italia” nel 2020 dall’IDEA (Italian Interactive Digital Entertainment Association) il quale non solo mostra un aumento ancora maggiore del numero dei videogiocatori e l’intensificarsi della produzione e vendita dei videogiochi, ma anche che quelli più venduti sono di azione, sport e sparatorie e che le piattaforme preferite dagli utenti sono i dispositivi mobili, come tablet e cellulari. Tramite la classificazione svolta da Capuano (2018) e Dima (2020), andremo ad analizzare le caratteristiche cardine di questi generi prediletti. I videogiochi d’azione (come The Last of Us e Devil May Cray) vogliono rendere la sessione di gioco più adrenalinica tramite scene tagliate che fanno scoprire poco alla volta tutti gli elementi dell’esperienza, creando la suspance e lasciando il giocatore con il fiato sospeso. I videogiochi sportivi (come FIFA e NBA) simulano non solo le partite di gioco, ma anche tutte le trattative e le strategie che devono essere adottate per riuscire a vincere. I videogiochi di sparatorie o i cosiddetti FPS (First Person Shotter) sono caratterizzati principalmente da soldati in guerra che devono svolgere delle missioni per sopravvivere (come Call of Duty). La motivazione cardine che spinge le persone ad utilizzare i videogiochi è quella dell’immedesimazione (Ghezzo & Pirone, 2007), che si concretizza con la scelta dell’avatar e che determina la modifica della psiche del soggetto: il giocatore, infatti, diventa il vero protagonista che osserva e agisce direttamente nell’azione. Si avrà un’immedesimazione quasi completa nel caso dell’avatar estensione, cioè un personaggio privo di identità al quale si attribuisce la personalità del giocatore, dal momento che c’è una corrispondenza quasi perfetta tra il personaggio e l’utente; questa tipologia è molto frequente nei giochi FPS dove compaiono solo le mani del soldato e tutto viene visto e vissuto in prima persona. Questi avatar, in qualsiasi forma si presentino nei videogiochi, portano avanti valori (in particolare quelli dell’astuzia, coraggio, abilità e aggressività) positivi e negativi, con cui si relazionano all’ambiente, alle situazioni, agli altri personaggi nella storia e agli obbiettivi da raggiungere. In uno studio svolto sugli effetti che possono avere i videogiochi, Gabbiadini (2013) elenca tre ragioni secondo le quali la loro influenza è maggiore rispetto a qualsiasi altra forma di media: il tipo di fruizione, dal momento che il giocatore è completamente immerso nel mondo virtuale dove agisce direttamente o tramite un personaggio di cui domina le azioni; maggiore possibilità di identificarsi con il protagonista; ogni comportamento, sia esso positivo o negativo, è rinforzato tramite premi e ricompense. Ciò andrà, inoltre, a determinare la nascita di emozioni che influenzano la sessione di gioco e spingono l’utente a giocare sempre di più.

Andremo adesso ad analizzare l’impatto neurobiologico e psicologico che possono avere i videogiochi violenti sui bambini e adolescenti, e come questi possano influenzare l’attuazione di comportamenti e atteggiamenti aggressivi; inizieremo con l’approfondimento dei correlati neurobiologici, per poi seguire con quelli psicologici. Primo effetto che può avere l’utilizzo di videogiochi violenti, soprattutto se utilizzati in età molto precoce, è la desensibilizzazione alla violenza; come mostrato, infatti, da una ricerca svolta da Strenziok (2011), l’esposizione ripetuta a strumenti di comunicazione violenta causa questa desensibilizzazione agli stimoli aggressivi, studiata attraverso minori risposte della conduttanza cutanea (misura delle variazioni continue nelle caratteristiche elettriche della pelle) del sistema nervoso simpatico: con l’aumentare dell’intensità aggressiva presentata all’interno di alcuni video, i soggetti dello studio mostravano una minore conduttanza cutanea simpatica, cioè non si avevano sulla pelle le tipiche manifestazioni della paura (come pelle d’oca o aumento della sudorazione). Altro effetto è la diminuzione dell’attività della corteccia orbito- frontale laterale sinistra, considerata, da Bricolo e collaboratori (2006), il corrispettivo neurobiologico della violenza, quando il soggetto è esposto a scene di violenza, con il rischio di assumere un comportamento aggressivo e disinibito non solo nel gioco, ma anche nella vita reale. Inoltre, alcune persone decidono volontariamente di correre un pericolo, al fine di ricercare sempre maggiori emozioni: sono le personalità “sensation- seekers”, cioè caratterizzate da un eccessivo accumulo di dopamina nel cervello e da risposte del mesencefalo iperattivo (Heilter, 2014); questo fenomeno si manifesta anche con l’uso eccessivo dei videogiochi violenti, in modo simile all’uso della violenza, ma anche in caso del piacere di vivere situazioni pericolose. Questa personalità “sensation- seekers”, se non portata all’eccesso, svolge, in realtà, una funzione adattiva durante la fase evolutiva, dal momento che riesce a far vivere situazioni nuove e incerte che lo fortificano. Se troppo marcata, invece, non solo porta alla ricerca di condizioni pericolose, ma conduce a considerare il mondo come meno “minaccioso” (Norbury & Husain, 2015). Se, però, nel videogioco si hanno sempre altre vite, ciò non accade nella realtà.

A livello psicologico, sono tre le ragioni che determinano la maggiore influenza dei videogiochi rispetto a qualsiasi altre forma di media (Bushman, 2011):

  1. Giocare al videogioco è un processo attivo, che implica un maggiore apprendimento tramite la partecipazione attiva all’azione;
  2. Maggiore identificazione con i personaggi, la quale può essere di due tipi (Konijn, Bijvank & Bushman, 2007): sulla somiglianza, nella quale il soggetto si identifica con il personaggio poiché hanno in comune delle caratteristiche che il giocatore ritiene importanti, e desiderata, nella quale l’utente copia i comportamenti del personaggio del gioco;
  3. Premiare il comportamento aggressivo dando punti o permettendo l’avanzamento dei livelli o ancora tramite rinforzi verbali, come “Ottimo colpo!” dopo aver ucciso il nemico.

Per quanto concerne l’impatto sulla cognizione, Anderson e Dill (2000) affermano che l’esposizione ai videogiochi violenti ha un impatto maggiore a livello cognitivo, rispetto a quello emotivo e comportamentale: il rischio maggiore non è l’influenza emotiva che il videogioco violento può suscitare, quanto la sua capacità di insegnare. Un’ultima associazione che si riscontra tra l’utilizzo di videogiochi violenti e lo sviluppo dell’aggressività è rappresentato dal disimpegno morale, cioè una “predisposizione cognitiva in cui gli individui reinterpretano i loro comportamenti immorali” (Yao et all., 2019, pag. 663); tramite questo strumento, il soggetto spegne momentaneamente la sua coscienza così da attuare comportamenti aggressivi senza il minimo senso di colpa. Il disimpegno, quindi, non solo viene incentivato dai videogiochi violenti per permettere di passare al livello successivo, ma può essere anche un predittore delle condotte aggressive in seguito ad un’ampia fruizione di questi giochi (Li, Du & Gao, 2020) implicando lo sviluppo di una personalità aggressiva.

Nonostante tutte queste prove, però, molte persone le considerano come dicerie e irreali; le ragioni (Bushman, 2011) che portano avanti sono:

  1. La tipica frase del giocatore è: “Io gioco sempre a questi videogiochi violenti e non ho mai ucciso nessuno”; questa rappresenta l’unione dell’euristica della disponibilità (cioè una strategia cognitiva che valuta la probabilità di un evento in base alla disponibilità dell’informazione nella mente del soggetto) e il “problema del tasso di base” (cioè l’assenza di un numero sufficiente di prove): le persone trovano difficile valutare gli effetti negativi dei videogiochi poiché è basso il tasso degli omicidi commessi per questa ragione.
  2. Effetto della terza persona”, cioè credere che gli effetti negativi colpiscano sempre gli altri e mai sé stessi; si ammette l’esistenza di queste conseguenze, ma non l’idea che si possano ripercuotere su di sé.
  3. La ripetizione delle case produttrici che negano con fermezza la possibilità di sviluppare un comportamento aggressivo a seguito della fruizione dei loro videogiochi.
  4. La maggiore facilità nel cogliere le conseguenze biologiche piuttosto che quelle psicologiche.

Esistono, però delle evidenze che mostrano come non esista alcuna correlazione tra l’utilizzo di videogiochi violenti e lo sviluppo dell’aggressività: possono essere usati come strumenti catartici, dal momento che incanalano l’aggressività dei giocatori, così che non siano portati ad esprimerla nel mondo reale (De Castro et all., 2018); i processi decisionali mostrano che il comportamento aggressivo dipende dal contesto entro il quale si trova l’utente (come definito dal GAM). Inoltre, lo studioso Przybylski (2009) notò che lo sviluppo della condotta aggressiva era correlata con l’aumento della frustrazione, indipendentemente dal genere del gioco; su questa linea, anche De Castro (2018) riscontrò che ad aumentare la possibilità dell’assunzione degli atti aggressivi è l’utilizzo di videogiochi competitivi violenti e non violenti. Non è, quindi, la componente violenta a determinare la relazione con l’aggressività, ma la competitività insita nel gioco. Anche se paradossale, Super- Mario, considerato come il primo gioco che viene regalato ad un bambino, può suscitare comportamenti aggressivi a causa della presenza di livelli da superare e cattivi da sconfiggere: può far nascere in lui un tale stato di eccitazione e nervosismo che sfocerà in seguito in condotte aggressive.

Conclusioni

L’obbiettivo di questo lavoro è di sensibilizzare su un argomento che spesso viene spesso sottovalutato, quando invece nasconde una grande quantità di pericoli. Ogni aspetto nella nostra realtà, infatti, è fonte di educazione e apprendimento andando ad influenzare i nostri comportamenti e pensieri, e stesso ruolo ricoprono i videogiochi violenti. Il bambino, infatti, non possiede la capacità mentale che gli consente di discernere la realtà dalla fantasia, ma si lascia suggestionare da ogni cosa apprendendo tutto ciò che gli viene presentato. Risulta necessario, quindi, all’interno di una società in cui si matura sempre più velocemente, stare molto attenti ai contenuti che proponiamo ai bambini e adolescenti. Ad aiutare, comunque, è non solo la presenza di un adulto che favorisce la comprensione della differenza tra il mondo virtuale e reale, ma anche la classificazione dei videogiochi, i quali indirizzano verso una scelta più ponderata e saggia circa i contenuti da proporre. Esistono, inoltre, dei programmi che possono aiutare a prevenire questa correlazione. Il primo prevede l’uso dei giochi di lotta come forma di prevenzione per lo sviluppo del comportamento aggressivo poiché non solo ne mediano lo sviluppo, ma consentono anche di sviluppare una condotta prosociale con cui si comprende il peso delle proprie azioni e le possibili conseguenze (Cucchielli, 2016). Altri studi mostrano come la gestione delle emozioni (Trip & Bora, 2012), la modifica del pensiero e delle credenze dei bambini (Vassilopoulos, Brouzos & Andreou, 2014) e le relazioni familiari durante il periodo di crescita e maturazione (Lochman, 2003) riescano a ridurre le condotte aggressive nei bambini tramite l’esposizione a modelli positivi. Uno studio più recente si pone l’obbiettivo di sviluppare la coscienza correlata all’utilizzo consapevole di videogiochi di qualsiasi genere per non incorrere nel rischio della dipendenza (Munoz & Bonato, 2002). L’intento, quindi, non è quello di condannare il videogioco, quanto piuttosto quello di mostrare i pericoli e le strade buie per riuscire ad intraprendere quelle più luminose e senza ostacoli.

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