La famiglia risorsa nella malattia oncologica in età evolutiva. Suggerimenti per un intervento di psiconcologia pediatrica


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Il presente lavoro, assumendo come cornice teorica di riferimento l’approccio sistemico-relazionale, pone l’accento sull’importanza della famiglia come risorsa per il piccolo paziente nell’adattamento alla malattia neoplastica. Infatti, questo ha come obiettivo quello di evidenziare non solo come il cancro sia un evento che sconvolge le dinamiche esistenti all’interno del sistema familiare, ma anche di individuare quali siano quelle competenze e quegli interventi che possono favorire il ripristino del normale equilibrio familiare, in un orizzonte che possa quindi offrire una cura globale non solo al bambino, ma anche alla sua famiglia e alle relazioni presenti in essa. Tutto ciò per fare in modo che le risorse familiari siano così attivate e potenziate, per prevenire e controllare i fattori di rischio e per favorire i normali processi di adattamento della famiglia a questo evento stressante.
Nello specifico, l’articolo è circoscritto all’analisi dell’esperienza della malattia oncologica all’interno della famiglia nucleare. Inoltre, le trasformazioni della famiglia e i suoi processi di adattamento sono esaminati nel periodo che va dalla diagnosi di cancro sino alla remissione della malattia, ad esclusione quindi dei casi di recidiva, della fase terminale e delle cure palliative.

Introduzione
Seppur presenti in letteratura molti studi sul tema della malattia oncologica in età pediatrica, minori sono i contributi clinici e di ricerca che indagano le trasformazioni e l’adattamento dell’intero sistema familiare a questo evento traumatico (Soccorsi, Lombardi, Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi, Rubbini Paglia, 1989; Van Schoors, Caes, Verhofstadt, Goubert, Alderfer, 2015). Da qui nasce, dunque, l’idea di questo lavoro, con l’obiettivo di analizzare questi aspetti, in rapporto alla malattia oncologica di un figlio. Infatti, nonostante i progressi della medicina, l’esperienza del cancro e il relativo trattamento sono un evento ancora difficile e destabilizzante sia per i bambini sia per i loro familiari, poiché la malattia tumorale, oltre alle problematiche fisiche, provoca numerose e complesse difficoltà psicologiche, relazionali e familiari (Oppenheim, 2010,).
Partendo da queste premesse, l’elaborato cerca di focalizzare l’attenzione sulla necessità di un approccio multidisciplinare nel quale, accanto alle risorse della chirurgia, della chemioterapia e della radioterapia, trovi il giusto spazio il sostegno e l’intervento psicologico ai piccoli pazienti e alle loro famiglie, al fine di aiutare il complesso sistema familiare ad affrontare, non solo il decorso e le fasi della malattia, ma anche tutte le complesse implicazioni psicologiche e relazionali che questa contiene e porta con sé.

L’esperienza del cancro vissuta dal bambino e dalla sua famiglia
L’esperienza della malattia è quella specifica condizione umana nella quale il paziente e i suoi familiari conoscono, accolgono, coabitano e gestiscono i sintomi fisici, psicologici, relazionali e sociali legati alla patologia e ai suoi trattamenti (Walsh, 2008). Per tale motivo Siri, Badino e Torta (2007, 112), sostengono che «[…] è possibile parlare della patologia oncologica non solo come patologia dell’individuo, ma anche come malattia familiare». Il bambino malato di cancro e la sua famiglia, difatti, costituiscono una totalità che si trova ad affrontare insieme tutte le fasi della malattia e tutte le conseguenze derivanti da questa, arrivando a inserire questo evento nella loro storia familiare e attivando in questo modo anche le risorse per conseguire un adattamento funzionale (Crotti, Esposito, 2005). Infatti, anche se il tumore infantile, da un punto di vista biologico, colpisce esclusivamente il bambino, in realtà provoca dei turbamenti e uno sconvolgimento dell’intero sistema familiare il quale, essendo travolto dalla situazione e dai significati negativi elicitati dalla malattia stessa, è costretto a modificare le proprie relazioni, la propria struttura e le sue abituali modalità di funzionamento.

I processi psicologici e relazionali nella famiglia del bambino neoplastico
La diagnosi di tumore del proprio figlio irrompe nel ciclo vitale della famiglia come un evento paranormativo, che deve essere affrontato e gestito in maniera tempestiva, ma con il quale la famiglia si può trovare a convivere per un prolungato lasso di tempo. La consapevolezza di una malattia potenzialmente mortale di un figlio, è per l’intero sistema familiare un fattore di elevato stress e di forte disagio emozionale che, seppur nella criticità della situazione, spesso conduce la famiglia a mettere in atto diversi tipi di risorse e varie strategie di coping.
Ogni famiglia vive l’esperienza della malattia in modo del tutto particolare e ciò può dipendere da una molteplicità di fattori come, per esempio, la storia personale della famiglia, le relazioni con la famiglia d’origine, gli eventi di lutto passati, le dinamiche relazionali tra i coniugi, l’età del figlio e lo stato di avanzamento della malattia (Bobbo, 2004).
Assumendo una prospettiva sistemico-relazionale è possibile affermare che i vissuti psicologici ed emotivi e le dinamiche relazionali dei membri della famiglia influenzano l’intero sistema familiare, decretando anche l’adattamento del bambino alla malattia, alla sofferenza, ai trattamenti e alle ripetute ospedalizzazioni. La famiglia, di fatto, fornisce il contesto all’interno del quale il bambino è in grado di dare un significato alla propria malattia, trovando anche i mezzi per reagire a questa (Baider, 2014).
La diagnosi e le diverse fasi della malattia tumorale innescano nella famiglia molteplici processi a livello psicologico e relazionale. In particolare, in seguito a questo evento, i membri della famiglia acquisiscono delle nuove consapevolezze circa la precarietà e la possibile dissolubilità dei propri legami e, inoltre, spesso s’instaurano delle diverse modalità di comunicazione e d’interazione all’interno dei diversi sottosistemi, nonché delle modificazioni nella distribuzione delle funzioni e dei ruoli familiari. Il sistema familiare, nel corso di questo periodo, sperimenta anche delle intense dinamiche emotive e, nell’affrontare la malattia, ogni membro struttura dei difficili e articolati vissuti psicologici (Gritti, Di Caprio, Resicato, 2011).
Gli atteggiamenti e le reazioni emotive dei familiari, il più delle volte, sono paragonabili a quelli vissuti dal bambino malato, poiché all’interno del sistema familiare s’innesca un vero e proprio contagio emotivo che passa attraverso la comunicazione, i comportamenti e le interazioni (Sandrin, 2000). I sentimenti che generalmente sono sperimentati dalla famiglia sono l’ansia, la preoccupazione, il rifiuto, la rabbia, la solitudine, la depressione, il dolore, la tristezza e la speranza, una serie di stati emotivi, spesso ambivalenti, che portano la famiglia ad adattarsi alla condizione di convivere con una situazione di per sé inaccettabile e inimmaginabile.
Contemporaneamente al procedere delle fasi caratteristiche della patologia tumorale, la famiglia attraversa, inoltre, un processo emotivo articolato in diversi stadi, nel tentativo di mantenere l’omeostasi e di adattarsi all’evento della malattia. Una prima fase è quella dello shock, un momento di crisi che può permanere per qualche giorno dal momento della diagnosi e che proietta la famiglia in uno stato di confusione e di angoscia tali da non permettere il regolare svolgimento della vita quotidiana (Tremolada, Axia, 2004). In seguito, il sistema familiare attraversa un periodo di negazione, nel quale cerca di difendersi e di lottare contro la malattia, ignorandola o sottovalutandola. In questa fase, che può manifestarsi con diversi gradi d’intensità e con una durata più o meno lunga, la famiglia ricerca spasmodicamente degli ulteriori pareri medici che smentiscano la diagnosi che gli è stata comunicata (Siri, Badino, Torta, 2007). A questi periodi segue poi una fase di adattamento, nella quale il nucleo familiare comincia a elaborare e ad accettare la nuova situazione, attivando le proprie risorse interne ed esterne, in vista di una nuova configurazione del sistema familiare (Ferri, Panier Bagat, 2000).
Tutti questi stadi, che scandiscono le reazioni emotive della famiglia alla malattia tumorale, possono subire, però, delle variazioni nella durata, nell’intensità e nella gravità, secondo la specifica struttura e organizzazione familiare (Valtolina, 2004).
Come affermato in precedenza, dal momento della diagnosi, il sistema familiare avvia tutta una serie di processi e di cambiamenti, necessari per circoscrivere la pericolosità e l’incombenza dell’evento “cancro” (Crotti et al., 2005, p. 34). Nello specifico, la famiglia contrasta l’impatto della diagnosi, mettendo in atto una serie di meccanismi di difesa che gli consentono di stabilizzare e fermare lo svolgimento della propria storia, rimanendo ferma nella fase del ciclo di vita antecedente la scoperta della malattia e attuando una stasi del contesto relazionale (Soccorsi et al., 1984). Modificando gli ordinari processi e le abituali relazioni tra la dimensione dello spazio e quella del tempo, la famiglia s’illude e cerca, attraverso queste modalità, di contenere la paura della morte e di evitare di proiettarsi verso un futuro che porta con sé questa angosciosa minaccia (Rubbini Paglia, Menenti, 2007).
In particolare, Soccorsi (1984), in seguito a un lungo e attento lavoro svolto con i bambini e le famiglie in un day hospital di oncologia pediatrica, ha raggruppato i meccanismi di difesa familiari in due tendenze principali: dei meccanismi che comprendono le alterazioni della struttura familiare con interessamento del confine individuale e dei meccanismi che riguardano la ridistribuzione dei ruoli nella struttura familiare.
In un primo momento, successivo alla diagnosi e al primo ricovero, i genitori adottano un meccanismo d’iperprotettività sia nei confronti del bambino malato sia degli eventuali figli sani. I genitori e il fratello malato si “fondono” tra di loro, creando un sistema estremamente chiuso ed invischiato nel quale il bambino può essere al riparo dal pericolo della malattia. Il resto della famiglia e, in particolare, i figli sani vengono, invece, allontanati da questa situazione e, in questo modo, protetti dai genitori. Tale meccanismo di difesa familiare pone il bambino malato in una situazione di simbiosi compensativa, mentre sottopone gli altri fratelli a un’espulsione protettiva più o meno drastica anche in base all’età, allo stadio della malattia, alle relazioni familiari e allo status socio-economico della famiglia (Rubbini Paglia, Menenti, Maurizi, 2005).
Nel corso dell’iter terapeutico e della malattia, nella famiglia avviene un ulteriore cambiamento che, questa volta, coinvolge i ruoli generazionali. Il bambino affetto da cancro, infatti, gradualmente si fa carico di funzioni proprie del ruolo genitoriale, assumendo comportamenti adulti o, al contrario, tirannici nei riguardi dei propri genitori e degli operatori sanitari, mentre i figli sani, sentendosi abbandonati e non riconoscendosi più in questo ruolo, sperimentano una condizione di orfanilità (Soccorsi et al., 1984). Secondo questa prospettiva, inoltre, anche la famiglia e l’équipe sanitaria, nel corso della malattia, andrebbero a costituire un unico sistema, dove lo staff si trova ad assumere un ruolo genitoriale rispetto alla famiglia oncologica che si pone in una posizione di “figlia”.
Con l’avanzare della malattia oncologica la famiglia può incrementare l’utilizzo di questi meccanismi di difesa, creando uno stato di totale indifferenziazione, dove l’eccessiva fusionalità impedisce di scorgere i confini individuali. Nelle famiglie dei bambini malati di cancro, spesso, è possibile notare come tale funzionamento sia sostenuto dall’incomunicabilità o dalla modalità comunicativa del “far finta” (Soccorsi et al., 1984). Alla fine della terapia, invece, quando il tumore del bambino si trova in una fase di remissione, la famiglia pian piano attenua e riduce i suoi meccanismi di difesa, anche se in questa fase la cessazione delle terapie crea un nuovo momento di crisi e d’incertezza per l’intero sistema familiare, il quale deve riorganizzarsi riprendendo il suo normale ciclo di vita (Soccorsi et al., 1989).
E’ importante rilevare, però, come l’adozione di questi meccanismi di difesa, da parte della famiglia, sia un processo sano nell’ambito di una situazione così complessa e infausta e come la rigidità del sistema familiare, che di volta in volta aumenta o diminuisce in base alle condizioni di salute del bambino, possa essere superata e interrotta.

L’impatto del cancro: le trasformazioni e i processi di adattamento della famiglia
A partire dall’orientamento sistemico-relazionale assunto, è fondamentale valutare le famiglie che attraversano l’esperienza della malattia tumorale, come sistemi in evoluzione, poiché ciò consente di non giudicare come permanente una reazione poco adattiva al momento della diagnosi, ma anche di non considerare tale impatto come l’unico ostacolo che la famiglia di un bambino malato di cancro deve affrontare. Quando un sistema familiare è posto davanti alla sfida della malattia, quest’ultima porta con sé un movimento evolutivo anomalo che la famiglia deve riuscire a compiere per proseguire il suo ciclo di vita, rispettando e assolvendo tutti i suoi compiti di sviluppo. L’evento critico del cancro costringe la famiglia a una transizione, dal momento che le abituali modalità di funzionamento familiare si rivelano insufficienti per affrontare la situazione, che necessita, invece, dell’attuazione di processi di adattamento. Durante la fase di adattamento, la famiglia deve necessariamente rivedere tutti i suoi equilibri e ogni componente del sistema è sollecitato ad attivarsi per la gestione di questa situazione stressante. Nel corso di questo periodo, infatti, la famiglia tenta di mantenere o ripristinare l’omeostasi, acquisendo e individuando nuove risorse o attivando comportamenti utili allo scopo, cerca di ridurre le richieste cui deve far fronte e di assegnare o cambiare i significati attribuiti alla sua situazione. In particolare, il processo di adattamento della famiglia sarà strettamente collegato al significato che la famiglia conferirà alla malattia e alla sua capacità di organizzare e mettere in atto in modo efficiente le proprie risorse personali, familiari e sociali (Di Leo, 2005).
Di fronte a un’esperienza così dirompente, il bambino malato e la sua famiglia devono ricorrere a tutte le strategie di adattamento di cui dispongono, creandone anche di nuove, sotto l’impulso di questo impatto, e mostrando capacità di riadattamento continuo in base alle diverse fasi della malattia (Paggetti Di Maggio, 2006).
Dal momento della diagnosi e durante l’iter terapeutico, la famiglia metterà in atto una serie di trasformazioni che influenzeranno la dimensione emotiva, l’organizzazione della vita familiare, la costruzione e il divenire delle relazioni.
Per la famiglia, come per il piccolo paziente, la malattia è un trauma, una rottura degli abituali ritmi spazio-temporali, che richiede una profonda riorganizzazione dell’andamento familiare che, associato ai livelli di gravità dello stato di salute del bambino, è fonte di stress, di confusione e di fatica per tutto il sistema familiare. Per affrontare i livelli di tensione imposti dalla malattia neoplastica, le famiglie modificano i loro livelli di coesione e di flessibilità, cambiando e perdendo alcuni ruoli, rivoluzionando le funzioni, le regole e le relazioni, stravolgendo le loro attività, ritmi, compiti e priorità abituali, ossia la routine familiare. Infatti, l’avvento del cancro scatena tutta una serie di esigenze e di difficoltà che si vanno ad aggiungere a quelle già comunemente esistenti all’interno di un sistema familiare, il quale deve bilanciare tutti questi bisogni, includendo anche la pianificazione di tempi e spazi per la cura e l’accudimento del bambino malato (Ferri et al., 2000). La famiglia e, in particolar modo, i genitori non devono però occuparsi e preoccuparsi solo della relazione e dei bisogni del bambino malato, ma devono anche essere attenti a gestire i rapporti con i bambini sani, con gli altri parenti, con gli amici e con lo staff sanitario (Paggetti Di Maggio, 2006).
La famiglia che non vive ed elabora il tumore del bambino solamente come un problema da risolvere può riconquistare un proprio equilibrio, dove la malattia trova un suo spazio nella storia familiare, non solo come handicap, ma come una condizione che pone delle necessità e dei compiti particolari. La famiglia adattata può riuscire a dare un significato alla patologia del bambino, per quanto questo possa essere un evento inspiegabile e inaccettabile, può arrivare ad aumentare la sua coesione interna, senza correre il rischio di mettere sullo sfondo le esigenze della coppia coniugale, dei fratelli sani o della famiglia nel suo insieme (Ferri et al., 2000).

Le risorse e i vincoli della famiglia di fronte alla malattia oncologica: alcuni fattori che possono condizionarne l’adattamento
La malattia oncologica in età pediatrica rappresenta una crisi per l’intero sistema familiare: un potenziale pericolo da affrontare o un’opportunità di crescita da sfruttare. Questa, infatti, provoca un normale e imprescindibile periodo di disorganizzazione al quale ogni famiglia risponde con particolari strategie di adattamento. Nello specifico, il processo di adattamento si configura come la risposta che il sistema mette in atto ai vincoli che gli vengono posti dall’ambiente ed è caratterizzato da un insieme di reazioni emotive, comportamentali e cognitive in grado di stabilire un nuovo equilibrio, che consente al sistema familiare di mantenere la propria unità, di affrontare i disturbi transitori e di integrare quelli permanenti, fronteggiando l’esperienza della malattia oncologica (Società Italiana di Psiconcologia [SIPO], 1998).
L’esito di tale processo appare, però, soggettivo e mediato dalla presenza di diversi fattori, come le risorse e i vincoli (Scabini, 1993) individuali, familiari e sociali, che l’evento della malattia neoplastica è in grado di attivare e rivelare in un determinato sistema familiare. I vincoli della famiglia possono essere identificati con tutti quei nodi problematici che possono ostacolare l’evoluzione e la realizzazione dei compiti di sviluppo, mentre le risorse sono rappresentate dalle potenzialità e dalle abilità evolutive proprie di un determinato sistema familiare (De Francisci, Piersanti, 2006). A tal proposito, è importante rilevare come i vincoli e le risorse appartenenti a un sistema familiare, siano anche il risultato della trasmissione intergenerazionale, ossia del patrimonio psicologico e culturale che le generazioni precedenti hanno tramandato a quelle successive (Gambini, 2007).
In particolare, concependo i cambiamenti e i vissuti che si originano nella famiglia con un bambino malato oncologico come un esito normale della situazione stressante, le possibili qualità e criticità della famiglia sono considerate in termini di fattori di protezione e di rischio, per fare in modo che sia integrata alla prospettiva sistemico-relazionale un’ottica preventiva che possa consentire, una volta individuati alcuni dei fattori di protezione e di rischio, la progettazione d’interventi in grado di promuovere il benessere di queste famiglie.

I fattori di protezione
Il cancro infantile è un’esperienza molto stressante, tuttavia i risultati di diverse ricerche (Grootenhuis, Last, 1997; Van Schoors et al., 2015) dimostrano come la maggior parte delle famiglie, nonostante alcune difficoltà emotive, psicologiche, relazionali e sociali, spesso, riescano ad affrontarlo e a gestirlo in maniera adeguata, non lasciandosi sopraffare dalla difficile situazione e dai molteplici e potenziali fattori di rischio contenuti in essa.
Le variabili che possono concorrere alla promozione della salute e allo sviluppo del bambino e del sistema familiare, vengono definite fattori di protezione, ossia «caratteristiche individuali o condizioni ambientali che incrementano le probabilità e le capacità della persona di adattamento e di mantenere-aumentare uno stato di benessere» (Santinello, Dallago, Vieno, 2009, p. 87).
In particolare, alcuni fattori di protezione, che possono avere un ruolo cruciale nel fronteggiamento e superamento da parte della famiglia della malattia oncologica, sono:
La resilienza individuale e familiare: Esaminando le risposte dei diversi membri della famiglia alle sfide poste dal cancro pediatrico, è possibile costatare come nella maggioranza dei casi questi siano individui resilienti. Ad esempio, autori come Stam, Grootenhuis e Last (2001) hanno evidenziato come molti bambini malati di tumore abbiano una regolazione emotiva al pari di quella dei coetanei sani. Inoltre, in diversi casi, non sono state riscontrate disfunzioni psicologiche e psicopatologiche significative (p. 492). Anche i fratelli sani mostrano degli effetti positivi in seguito all’esperienza della malattia oncologica del fratello e, in particolare, è stato rilevato come si presenti in essi un’accresciuta empatia, maturità, indipendenza e responsabilità (Alderfer, Long, Lown, Marsland, Ostrowski, Hock et al., 2009). La capacità di resilienza è stata individuata anche in molti genitori di bambini malati di cancro. Infatti, nonostante questi, dopo la diagnosi, presentino elevati livelli di ansia, stress emozionale, disturbi del sonno, malesseri somatici e sintomi del Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), dopo alcuni mesi, è possibile notare come i livelli di stress possano essere equiparati a quelli del campione normativo (Grootenhuis et al., 1997, p. 467). La resilienza familiare, invece, può essere definita come la capacità della famiglia di ritornare, sostenere e raggiungere livelli competenti di funzionamento, in seguito alla messa in discussione di questi, dalla diagnosi di cancro del proprio figlio (Van Schoors et al., 2015, p. 858). In particolare, le famiglie resilienti mostrano specifiche abilità di adattamento e strategie di coping in tre aree: i sistemi di credenze familiari (significazione delle situazioni avverse, atteggiamento positivo, trascendenza e spiritualità), le strutture organizzative (flessibilità, coesione, presenza di risorse sociali ed economiche) e i processi comunicativi (chiarezza, espressione libera delle emozioni, strategie collaborative di risoluzione dei problemi) (Walsh, 2008, p. 33). Le famiglie resilienti sono, perciò, caratterizzate da calore, affettività, supporto emotivo e dalla presenza di una struttura coesa, flessibile e ben funzionante.
Il sostegno reciproco nella cogenitorialità: Il sostegno reciproco nella cogenitorialità ha come responsabilità e obiettivo la messa in atto, da parte di entrambi i genitori, di azioni congiunte volte alla creazione di un clima familiare supportivo e armonioso. All’interno del quale, la crescita e l’educazione dei figli diviene un progetto portato avanti insieme al partner cogenitoriale, ponendo sempre attenzione agli obiettivi reciprocamente condivisi (McHale, 2010, pp. 6-5). In particolare, i genitori che anche in caso di malattia del figlio mantengono un coparenting, sostenendosi vicendevolmente nel loro ruolo e nelle loro funzioni genitoriali, riescono ad assumere anche l’effettiva cogestione della malattia oncologica, orientando positivamente le loro energie verso la cura del bambino, dei fratelli sani e della loro relazione di coppia.
L’adeguatezza delle cure genitoriali: Il tema delle cure genitoriali è strettamente collegato a quello di parenting, «un costrutto multidimensionale in cui s’intersecano dimensioni affettive e cognitive, che guidano il comportamento dei genitori, ovvero gli stili parentali e le pratiche educative» (Greco, Rosnati, 2006, p. 122). Gli aspetti fondamentali del parenting sono legati alla funzione di cura genitoriale e si esplicano, in particolare, nel calore, inteso come la capacità di fornire affetto, accoglienza e contenimento, nella responsiveness, ossia l’abilità di riconoscere e corrispondere le esigenze del bambino e, infine, nel controllo, che consiste nella capacità da parte delle figure adulte di imporre dei limiti, delle regole e un’educazione ai propri figli. Un parenting funzionale, caratterizzato dal rapporto dinamico ed equilibrato tra il processo di accudimento e le necessità del bambino, è un importante fattore di protezione, poiché questo influisce in maniera positiva sulla crescita e sul benessere fisico, psichico e relazionale dei figli (Paradiso, 2015). Fondamentale nell’esperienza di malattia è, dunque, l’assunzione e l’attivazione, da parte della coppia genitoriale, di atteggiamenti, comportamenti e risorse che la rendano capace di stabilire una relazione caratterizzata da protezione, sostegno e assistenza, appropriata allo sviluppo psicofisico dei figli. In particolare, durante tutte le fasi della malattia, i genitori che adottato questo stile educativo accolgono e contengono le emozioni del bambino, controllando allo stesso tempo anche le proprie, per evitare di trasmettere al figlio la propria ansia e le proprie angosce di morte. Inoltre, questi genitori sono particolarmente attenti e rispondono prontamente ai bisogni dei loro figli e, nel caso in cui le condizioni di malattia o l’ospedalizzazione, impedissero al genitore di soddisfare un bisogno del proprio bambino, questi spiegano il motivo di questa impossibilità ai piccoli pazienti, facendogli comprendere come questa esigenza potrà magari essere soddisfatta solo in un secondo momento.
Il coinvolgimento dei fratelli sani: L’interesse verso i fratelli sani è una variabile decisiva, poiché partecipando e subendo anch’essi tutti gli effetti della malattia del fratello, sia sul piano materiale sia su quello emotivo, ciò aiuta a contenere le loro emozioni d’ansia e d’isolamento, alimentando un clima familiare di sincerità, apertura comunicativa e condivisione. Ciò di cui necessitano i fratelli sani è l’informazione e la comunicazione, poiché queste gli permettono di attribuire dei significati da condividere all’interno dell’ambiente familiare. Infatti, la spiegazione e l’ammissione da parte dei genitori della presenza di un problema reale, porta i bambini sani a sentirsi partecipi di ciò che sta accadendo all’intera famiglia, evitando di sentirsi esclusi e ingannati. Inoltre, in questo modo, i genitori forniscono agli altri figli degli strumenti adeguati per comprendere e giustificare le trasformazioni che hanno sconvolto la loro vita quotidiana: le ripetute assenze e alcuni comportamenti del fratello malato, le continue separazioni dalle figure genitoriali e gli inspiegabili e frequenti soggiorni da amici e parenti (Valtolina, 2004). Per l’esperienza psicologica dei fratelli sani è, dunque, importante che la famiglia, rispettando sempre la loro età e sensibilità, riferisca a questi bambini la condizione del fratello malato, gli consenta di vedere il bambino degente e di conoscere l’ambiente di cura, al fine di favorire il loro adattamento sociale ed emotivo, prevenendo eventuali disagi nella formazione dell’identità e della fiducia in se stesso, negli altri e nei propri genitori (Zonta et al., 2004). Le famiglie che s’impegnano a favore dei figli sani, nonostante la situazione di crisi, riconoscono, comprendono e accolgono la loro inquietudine e frustrazione per queste circostanze. Inoltre, tali genitori mantengono il loro abituale ruolo educativo con tutti figli evitando, ad esempio, in caso di litigio tra fratelli, di schierarsi automaticamente e protettivamente dalla parte del bambino malato. Quest’ultimo aspetto, infatti, risulta essere particolarmente importante, poiché contribuisce a preservare la relazione fraterna e le essenziali funzioni del sottosistema dei fratelli, come quella della socializzazione e della negoziazione.
La rete di supporto e la familiarità dell’ospedale: La possibilità di poter contare su specifiche risorse sociali è per la famiglia un’importante risorsa. Risiedere in una zona dove sono presenti strutture che erogano specifici servizi sanitari, psicologici o sociali, oppure avere delle reti di supporto informale, come degli amici, i vicini o i genitori di altri bambini malati di cancro, può facilitare i processi di adattamento della famiglia alle trasformazioni indotte dalla malattia neoplastica (Di Leo, 2005). Un altro importante fattore di protezione è costituito anche dall’ospedale e dalla familiarità e accoglienza che il piccolo paziente e la sua famiglia riescono a trovare all’interno di questo e con il personale che vi lavora. Infatti, i professionisti e la struttura ospedaliera hanno un ruolo fondamentale nel vissuto di malattia e d’ospedalizzazione dell’intera famiglia e, in particolare, sono le caratteristiche strutturali e organizzative del reparto e le modalità di relazione e organizzazione presenti all’interno di questo, ad avere un fondamentale impatto.

I fattori di rischio
Oltre all’individuazione e al potenziamento delle risorse di cui la famiglia dispone, è fondamentale monitorare costantemente anche le eventuali condizioni di rischio nelle quali questa può incorrere, poiché i fattori protettivi e quelli di rischio sono indipendenti tra di loro, tanto che la presenza di un alto livello di protezione non si correla necessariamente con un basso livello di rischio e viceversa (Borca, 2008).
I fattori di rischio possono essere designati come l’insieme di specifiche «caratteristiche individuali o condizioni ambientali la cui presenza si associa ad una maggiore probabilità di sviluppare disagio» (Santinello et al., 2009). I fattori di rischio, infatti, possono essere considerati come eventuali antecedenti di una condizione di morbosità che, una volta individuati consentono, però, di predire e intervenire in maniera mirata sulle diverse traiettorie di sviluppo, favorendone un esito positivo.
Le variabili di rischio, prese in esame nelle successive parti dell’articolo, saranno speculari ai fattori di protezione sopra indicati: per ogni fattore di protezione elencato, vi sarà un corrispondente e opposto fattore di rischio possibile.
Alcuni dei fattori potenzialmente patogeni, che possono concorrere alla manifestazione di risposte disadattive da parte della famiglia, sono:
Il blocco del ciclo di vita della famiglia: La diagnosi di cancro del proprio figlio può gettare le premesse per un arresto del ciclo vitale della famiglia la quale, spesso, avendo timore e non riuscendo ad affrontare né il presente né il futuro, rimane ferma allo stadio di sviluppo precedente l’insorgenza della malattia, come in una fase di stallo. L’angoscia di morte provocata da questa grave patologia mette in discussione il cosiddetto “mito dell’unità familiare”, spingendo il sistema ad arrestare il proprio sviluppo, al fine di preservare l’esistenza della famiglia stessa e la continuità delle sue relazioni. Negando il fluire del tempo e bloccando qualsiasi comunicazione, infatti, i membri della famiglia s’illudono di poter contenere e impedire l’evento della morte (Crotti et al., 2005, p. 34). Inoltre, l’esperienza della malattia oncologica, aggiungendo alle normali tappe di sviluppo inaspettati eventi critici e nuovi bisogni, aumenta le difficoltà della famiglia di proseguire in maniera armonica la propria evoluzione. Quando avviene un blocco del ciclo di vita della famiglia vi è, dunque, un’interruzione del normale corso del ciclo vitale con la conseguente comparsa di sintomi, che mostrano lo stato di malessere momentaneo dell’intero sistema (Loriedo, Picardi, 2000).
Il conflitto e la crisi di coppia: La malattia oncologica del proprio figlio è una circostanza che può concorrere a rendere più fragile e vulnerabile la relazione di coppia. Difatti, molte volte, tale evento crea nuove difficoltà e conflitti, o riattualizza e aumenta problemi presenti già prima della diagnosi di malattia, provocando una crisi coniugale. In particolare, l’evento critico scardina l’ordine che la coppia era riuscita a raggiungere sino ad allora, procurando degli effetti e degli squilibri anche sul patto coniugale, il quale si basa sull’incontro e la compresenza all’interno della relazione di coppia di aspetti legati sia alla dimensione affettiva sia a quella etico-normativa (Iafrate, Gennari, 2006, p. 107). La crisi di coppia è quindi un momentaneo scompenso tale da scatenare stress ed esasperazione emotiva, alla cui base vi è un forte conflitto tra i coniugi che, se non è adeguatamente affrontato, può avere un ruolo cruciale nella dissoluzione del legame (Giuliani, Iafrate, Marzotto, Mombelli, 1992, p. 23). Nello specifico, il conflitto di coppia è un «disagio che si riferisce alla relazione intima, alla reciproca comprensione e al venir meno di modalità condivise di relazione di coppia» (Mosconi, Gallo, 2008, p. 181). Nell’esperienza della malattia neoplastica, la fonte di maggior conflitto tra i coniugi, sembra riguardare la ripartizione delle cure e dell’assistenza da fornire al bambino malato. La difficoltà a trovare un accordo e a riorganizzare i tempi e gli spazi familiari e coniugali, infatti, spesso porta le madri a sperimentare sentimenti di abbandono e isolamento e un sovraccarico emotivo e fisico. Inoltre, tali incomprensioni generano delle difficoltà nella comunicazione e una perdita di contatto emotivo all’interno della coppia (Annunziata, Apicella, Arena, Gliatta, Modica, Orsatti et al., 2012). Come sostiene Soccorsi (1977), infatti, nelle famiglie con una diagnosi di malattia oncologica, l’atteggiamento di negazione e trascuratezza da parte dei genitori verso la realtà di coppia, i suoi bisogni e il patto coniugale, può causare una sorta di divorzio senza separazione (p. 46). Nel corso di questa difficile esperienza, la crisi di coppia rappresenta, dunque, un potenziale fattore di rischio che deve essere attentamente monitorato e gestito, ma che allo stesso tempo può essere anche sfruttato per condurre l’intera famiglia verso una nuova fase di sviluppo e di maturazione.
Il maltrattamento intergenerazionale: Il maltrattamento rappresenta il sintomo che manifesta l’esistenza di relazioni familiari disfunzionali e dannose che possono dare origine a una continuità della violenza, poiché questa si viene spesso a creare nel tempo, attraverso le generazioni (Emiliani, Simonelli, 1997). L’aver subito violenze nell’infanzia da parte delle proprie famiglie di origine, infatti, può essere un fattore predittivo dell’assunzione di condotte abusanti da parte del genitore nei confronti dei propri figli. Tale fattore di rischio, inoltre, nel caso della malattia oncologica del bambino, può assumere una rilevanza maggiore in quanto, in questa complessa esperienza, oltre alla presenza di questo pesante vissuto, i genitori si trovano a fronteggiare difficili stati emotivi e ulteriori stress familiari, che potrebbero amplificare e favorire negli stessi la messa in atto di comportamenti maltrattanti sia sul piano fisico sia su quello psicologico. In particolare, un parenting disfunzionale può sfociare in un parenting maltrattante quando il genitore, non solo non è in grado di far fronte in maniera adeguata ai bisogni del bambino, ma effettua anche una distorsione, modificazione e negazione delle esigenze di questo (Paradiso, 2015). Nonostante l’esistenza di diverse tipologie di maltrattamento, nel caso di famiglie che hanno ricevuto una diagnosi di cancro, l’inadeguatezza delle cure genitoriali si riflette, soprattutto, in fenomeni di maltrattamento emotivo e trascuratezza fisica. Quest’ultima, maggiormente presente in famiglie che vivono in contesti sociali svantaggiati sia da un punto di vista economico sia culturale (Emiliani et al., 1997). Questo fattore di rischio, molto spesso già presente prima dell’insorgenza della malattia, può condurre gli adulti ad ignorare il vissuto emotivo del piccolo paziente e a trascurare i molteplici bisogni fisici di cui necessita in questo particolare stato di salute. Inoltre, in queste famiglie è possibile rintracciare delle ridondanze come, in particolare, un alto livello di conflittualità, elevata distruttività e incapacità di formare e mantenere dei legami. In questo sistema familiare, infatti, è presente un appiattimento emotivo e relazionale, nel quale i bambini divengono degli oggetti di cui i genitori non sono in grado di individuare i bisogni, prendendosene responsabilmente cura (Carrà, Marta, 1995).
Il disimpegno verso i fratelli sani: L’esistenza di fratelli sani è un fattore che rende alcuni sistemi familiari ancora più vulnerabili durante la gestione della malattia oncologica. Situazioni particolarmente a rischio, infatti, possono emergere in famiglie nelle quali sono presenti anche bambini o ragazzi sani, altri individui in crescita che necessitano di cure e supporto, oltre al bambino malato (Chiodino, 2003). Come sostenuto in precedenza, conseguentemente alla diagnosi della malattia tumorale, la famiglia pone in essere una serie di meccanismi di difesa, che portano a uno sconvolgimento e a una scissione nel sistema familiare. I genitori e il piccolo paziente, in particolare, in seguito a quest’avvenimento strutturano una relazione simbiotica, formando quasi un sistema a parte, mentre i fratelli sani, venendo indirettamente e protettivamente esclusi, cercheranno con fatica di trovare una collocazione all’interno di questa (Rubbini Paglia, Apreda, Riccardi, 2007). Se tale meccanismo di difesa diviene, però, troppo rigido o si protrae nel tempo, ciò potrebbe condurre la famiglia al rischio di un disimpegno nei confronti dei fratelli sani. Quando avviene un disimpegno familiare verso i bambini sani, questi ultimi sperimentano un’eccessiva separazione e un distacco emotivo dal resto della famiglia la quale è totalmente assorbita nella cura del fratello malato. In una tale circostanza, i confini familiari divengono molto rigidi e la comunicazione è difficile o totalmente assente sia per quanto riguarda lo scambio d’informazioni che quello emotivo (Gambini, 2007). Conseguenza di questo, è l’assenza di una figura familiare che fornisca ai figli sani un supporto, una condivisione emotiva e che impedisca l’amplificarsi dei vissuti d’isolamento e d’esclusione, frequentemente sperimentati dai fratelli in questa complessa situazione. Molto spesso, i fratelli sani rischiano, infatti, di essere dei grandi assenti all’interno di quest’esperienza (Rubbini Paglia, Costantini, Di Giovanni, 2003). I genitori agiscono questo disimpegno escludendo i figli dal rapporto diretto con gli altri membri della famiglia. Tanto è vero che, spesso, questi sono affidati a parenti e amici, ma ciò non fa che aumentare in essi il distress e la percezione di essere stati abbandonati e dimenticati (Ripamonti, 2015). In particolare, il disimpegno, porta i genitori ad avere molteplici difficoltà a comunicare la diagnosi, l’iter terapeutico e le conseguenze della malattia ai figli sani, i quali non possiedono informazioni adeguate e attendibili sulle condizioni del proprio fratello e convivono con la presenza di “non detti” o di “segreti di famiglia” che generano confusione, inquietudine e sofferenza (Valtolina, 2004). Inoltre, l’isolamento, l’estromissione e il silenzio favoriscono sempre rappresentazioni penose e paurose (Feltrin, 2005). A livello clinico, i bambini che non sono coinvolti e accompagnati nell’esperienza della malattia oncologica del proprio fratello, possono manifestare, oltre a dei disturbi psicologici e relazionali, anche delle problematiche comportamentali quali l’impulsività, l’irrequietezza e deficit dell’attenzione, che spesso si concretizzano in prestazioni scolastiche carenti (Calza, 2003).
Lo stato d’isolamento della famiglia e la sfiducia verso l’ospedale: Possono essere considerate maggiormente come famiglie a rischio, quei sistemi che, contemporaneamente alla malattia, sperimentano e vivono anche una condizione d’isolamento rispetto all’ambiente sociale nel quale sono inseriti. Uno stato di emarginazione della famiglia può essere provocato, in primo luogo, dall’assenza o dall’inadeguatezza di una rete sociale, formale o informale, in grado di accompagnare e supportare il nucleo familiare nell’esperienza della malattia oncologica. A tal proposito, in uno studio di Manne, Duhamel e Redd (2000), è emerso come l’assenza di un senso di appartenenza a una rete sociale e la mancanza della possibilità di esprimere le proprie emozioni e pensieri legati al cancro con amici, familiari ed esperti possa favorire un mancato adattamento della famiglia e del piccolo paziente a questa esperienza (Ivi). Inoltre, i risultati di una ricerca di Hoekstra-Weebers, Jaspers, Kamps, Klip (2001), hanno evidenziato come le famiglie con un bambino malato di cancro godono di una buona rete di supporto nei momenti che precedono e seguono la diagnosi, mentre tendono a sperimentare uno stato d’isolamento nel corso dell’anno successivo, con un peggioramento di questa condizione, soprattutto, dopo i primi sei mesi dalla diagnosi (Ivi). Una condizione di emarginazione della famiglia può essere aggravata ulteriormente, anche dalla presenza di specifiche variabili socio-demografiche come, ad esempio, difficoltà economiche, povertà rurale o urbana, perdita del lavoro, distacco dal proprio sistema culturale di supporto per necessità mediche del bambino, appartenenza a una nazionalità estera o a una subcultura molto differente rispetto a quella esistente nel contesto di cura (Guarino, 2006). Un’eccessiva distanza e riprovazione del sistema familiare verso l’ospedale, può originarsi anche in seguito all’inefficacia dei trattamenti o potrebbe derivare da esperienze e storie personali e familiari passate, che possono portare i membri della famiglia ad approcciarsi alla realtà ospedaliera con determinate attese o pregiudizi.

Suggerimenti per gli interventi di psiconcologia pediatrica: prendersi cura del bambino malato e della sua famiglia
La psiconcologia è definita pediatrica quando il suo oggetto di studio si circoscrive ai fattori psico-sociali sperimentati da quei pazienti che, in età infantile e adolescenziale, vivono insieme alle loro famiglie la complicata esperienza della malattia oncologica (Adducci, Poggi, 2011). Specificatamente, la psiconcologia pediatrica s’interessa a tutti quegli aspetti della patologia che possono influenzare il percorso di sviluppo del piccolo paziente e ha come obiettivo il mantenimento del benessere psico-fisico dei malati di cancro in età evolutiva. Inoltre, tale disciplina, oltre a concentrarsi sul bambino, agisce anche sull’ambiente familiare nel quale questo è inserito, poiché, in seguito alla diagnosi di tumore, la famiglia subisce delle modificazioni e degli effetti che non possono essere trascurati. In età pediatrica, l’intervento psiconcologico è strutturato, quindi, in una prospettiva di sviluppo e ha come fine quello di supportare il piccolo paziente nella sua crescita, cercando di mantenere il più possibile inalterato l’equilibrio mentale e le condizioni di vita quotidiane sia del bambino malato sia della sua famiglia, individuando e potenziando le risorse presenti in essi. Inoltre, gli interventi di psiconcologia pediatrica hanno come obiettivo quello di favorire l’integrazione di questa esperienza, benché dolorosa, nella storia e nell’identità individuale e familiare, allo scopo di salvaguardare la qualità di vita presente e futura, prevenendo per quanto possibile, conseguenze psicologiche a medio e lungo termine.
Dopo aver tracciato un preciso quadro teorico di riferimento e individuato alcuni dei fattori di protezione e di rischio, che possono influenzare l’esperienza di malattia della famiglia, il focus viene ora spostato sull’intervento e il trattamento dell’intero nucleo familiare, il quale necessita di essere accompagnato lungo tutte le fasi di questo difficile evento. L’attuazione di specifici interventi psicologici, infatti, può mediare l’impatto che i fattori di rischio, precedentemente individuati, possono esercitare sul sistema familiare, incrementando e favorendo, invece, le risorse dell’intero sistema. Come si evince dal seguente schema, in quest’ultimo paragrafo, a partire dai diversi livelli dell’approccio sistemico-relazionale esaminati e dai fattori di protezione e i rispettivi fattori di rischio individuati precedentemente, saranno proposti degli specifici interventi psicologici destinati alla famiglia con un bambino malato oncologico. L’attenzione sarà rivolta, soprattutto, a una serie di azioni volte a supportare l’ambiente familiare e sociale, poiché questi sono gli elementi più trascurati nella presa in carico della malattia oncologica del bambino.

Interventi di enrichment familiare
L’enrichment familiare è una forma d’intervento indirizzata alla famiglia sana, con l’obiettivo di potenziare le competenze e le abilità specifiche delle coppie coniugali e genitoriali, al fine di migliorare ulteriormente il funzionamento della famiglia e prevenire eventuali sviluppi problematici, che potrebbero compromettere la qualità e la stabilità delle relazioni presenti in essa. Tale programma terapeutico ha una natura preventivo-promozionale, poiché, piuttosto che focalizzarsi sugli aspetti di vulnerabilità della famiglia, si concentra sui fattori protettivi e sull’arricchimento delle risorse, delle capacità e degli elementi di resilienza insiti nella famiglia stessa, la quale è considerata come un’entità che possiede in sé le competenze per far fronte in maniera efficace ai possibili eventi critici del suo ciclo vitale (Bertoni, 2006). L’enrichment crea un ambiente sociale caratterizzato dal supporto e dall’aiuto, nel quale i coniugi o i genitori sono posti al centro del processo terapeutico, dato che sono riconosciuti come soggetti responsabili, capaci di riflettere, scegliere, agire e cambiare (Iafrate, Rosnati, 2007). A livello organizzativo, tali programmi prevedono la formazione di piccoli gruppi di coppie coniugali o parentali, che lavorano insieme per tutta la durata del programma sotto la guida di due conduttori, che hanno la funzione di facilitare sia le dinamiche di gruppo sia quelle familiari. Mediante il gruppo è possibile ricreare una realtà con dei processi simili a quelli familiari, inoltre, all’interno di questo, i membri, facilitati dalla presenza di un clima di fiducia e di rispetto reciproco, riescono a condividere le proprie esperienze, paure e sofferenze, abbandonando la diffusa concezione privatistica della coniugalità e della genitorialità. Alla base del cambiamento vi è, dunque, il lavoro di gruppo impiegato e considerato come lo strumento privilegiato per la promozione e lo sviluppo delle risorse in tutti i componenti delle coppie (Bertoni, Marzotto, Scabini e Tamanza, 2012). I programmi di enrichment familiare sono articolati in maniera specifica, tanto che i partecipanti sono coinvolti, nei diversi incontri, sia in sessioni di tipo teorico che in attività pratiche, come esercizi di vario genere e giochi di ruolo, nelle quali vengono date alle coppie degli stimoli particolari per lavorare su determinate aree, sfruttando di volta in volta diverse capacità relazionali, emotive e cognitive (Bertoni, 2006).
Nella pratica clinica, esistono dei programmi di enrichment familiare caratteristici per la coppia coniugale e la coppia genitoriale in quanto, tali sottosistemi, presentando delle peculiarità, delle relazioni e delle funzioni diverse, necessitano di proposte di arricchimento indicate, sebbene l’origine e i principi di fondo di entrambi gli interventi siano i medesimi.
Nell’esperienza della malattia oncologica infantile, l’enrichment familiare potrebbe essere proposto a tutte le famiglie, in quanto attivando le risorse familiari presenti e latenti, aiuterebbe questi sistemi a potenziare le proprie capacità di resilienza individuale e familiare, aumentando la possibilità di affrontare questo evento destabilizzante in maniera più cosciente, responsabile e risoluta. Infatti, questi programmi possono guidare le coppie, con un figlio malato oncologico, nella riflessione sui propri vincoli, ma soprattutto nel raggiungimento di una certa consapevolezza circa le proprie risorse, al fine di essere ancora più competenti e poterle, dunque, utilizzare nella gestione di questo evento paranormativo.
In particolare, dai risultati ottenuti con l’enrichment familiare, compaiono molteplici effetti positivi riscontrati sia sui genitori sia sui figli. L’applicazione di tali programmi, di fatto, sembra migliorare la capacità dei genitori di esercitare le proprie funzioni affettive e normative e, inoltre, molteplici benefici sono rilevati anche nella relazione di coppia e in quella genitore-figli, le quali risultano essere caratterizzate da un minor livello di conflittualità e da maggiori scambi positivi. Al termine di questo intervento, inoltre, vi è anche un miglioramento nello stato di salute di tutti i membri della famiglia (Iafrate et al., 2007).
In seguito ad una valutazione dei rischi presenti in un determinato gruppo familiare, lo psiconcologo, secondo i casi, potrebbe formare dei gruppi di coppie selezionando chi necessita maggiormente di un arricchimento coniugale o di un arricchimento genitoriale. In questo modo, è possibile potenziare e focalizzarsi maggiormente su quel sottosistema che risulta più deficitario in uno specifico gruppo familiare, portando contemporaneamente, però, dei benefici anche nelle altre relazioni familiari.

Incontri informativi di supporto alla genitorialità
La diagnosi di tumore, alcune volte, fa emergere e amplifica l’incapacità dei genitori di fornire cure adeguate al proprio figlio, infatti, in una mutata condizione come questa, sono diverse le coppie genitoriali che mostrano di non saper rispondere ai bisogni fisici e psicologici di cui il bambino necessita. Per evitare gli effetti negativi di questo fattore di rischio possono essere attuati con i genitori degli interventi di tipo informativo, allo scopo di sostenere le loro funzioni e competenze genitoriali in un momento così delicato come quello della malattia oncologica del proprio bambino. In particolare, la presenza di un parenting disfunzionale può essere ben contrastata da questi tipi di interventi, dal momento che questi possono essere utilizzati a scopo preventivo con tutte le famiglie e la loro applicabilità non richiede degli elevati costi sia in termini materiali sia di risorse umane.
I programmi informativi sono degli interventi di base, rivolti a tutti i genitori, che mirano ad accrescere le conoscenze dei familiari su specifiche tematiche, mediante l’apprendimento cognitivo di nuove informazioni. Questi, infatti, sono principalmente dei gruppi di sensibilizzazione che hanno la funzione di trasmettere delle informazioni in modo chiaro e divulgativo. Gli incontri informativi di supporto alla genitorialità hanno l’obiettivo di trasformare alcune competenze, atteggiamenti e comportamenti dei genitori nei confronti dei propri figli e favorire specifiche modificazioni nella gestione della relazione con questi (Santinello et al., 2009).
Nel caso del supporto alla genitorialità nell’ambito della malattia oncologica in età pediatrica, tali riunioni dovrebbero essere tenute, per esempio una volta la settimana, da uno psicologo e da alcuni operatori sanitari, e articolate su argomenti specifici come: i bisogni particolari dei figli malati, le funzioni genitoriali, i comportamenti di cura verso i figli, la relazione genitori-figli, la gestione della vita familiare, il ruolo educativo ed eventuali problematiche educative. La partecipazione a questi percorsi formativi, oltre a rendere le coppie genitoriali maggiormente competenti nel sostegno al proprio bambino, potrebbe aiutare i genitori a sviluppare una rete di sostegno con le altre famiglie ricoverate e a sentirsi meno soli e disorientati di fronte alla propria inadeguatezza e alle molteplici domande che emergono nel corso di questa difficile esperienza (Oppenheim, 2006). In questo modo è possibile, dunque, promuovere l’acquisizione da parte dei genitori di nuove capacità e atteggiamenti adeguati al soddisfacimento e alla risoluzione di rinnovati bisogni, problemi e stili di vita familiari che la malattia neoplastica del bambino impone.

Gruppi di parola per i fratelli
Il Gruppo di parola è un intervento preventivo-promozionale che mira a far emergere le risorse potenziali dei bambini che sperimentano una situazione di sofferenza all’interno del proprio sistema familiare. Questo è un gruppo omogeneo, formato da bambini che possiedono una specifica realtà familiare e relazionale che li accomuna, il cui obiettivo fondamentale è il sostegno preventivo, al fine di agevolare l’adattamento dei giovani alla nuova condizione familiare (Bonadonna, Farinacci, Marzotto, 2015). Tali gruppi, solitamente, sono composti da un numero di sei o otto bambini e prevedono un programma che si articola in quattro incontri di due ore alla settimana guidati da uno o due professionisti, che propongono una serie di attività libere o maggiormente strutturate (Bertoni et al., 2012).
Il Gruppo di parola è un’occasione di cura per i figli, espressamente ideato e strutturato sulla base delle loro esigenze. Tale gruppo, infatti, è un particolare spazio all’interno del quale i giovani possono liberamente dar voce alle loro emozioni, pensieri, desideri e bisogni, attraverso la parola, lo strumento principale di questo intervento (Bertoni et al., 2012). I bambini, sfruttando il supporto del gruppo e la presenza di pari che vivono la loro stessa condizione, riescono nei Gruppi di parola ad assumere un ruolo in ciò che li riguarda, prendendo la parola e condividendo nel gruppo anche le questioni familiari più dolorose.
All’interno di un Gruppo di parola, particolare importanza è data alle competenze del conduttore, il quale deve formulare domande, parafrasi e verbalizzazione, con l’intento di esplorare la dimensione emotiva dei bambini, esortare le loro funzioni intellettive e di attribuzione di significato e di condivisione con i membri del gruppo. Il clinico, inoltre, dirige il gruppo assumendo, in maniera equilibrata, sia la funzione materna di accoglienza e contenimento, sia la funzione paterna, maggiormente di guida (Bertoni et al., 2012).
In un’esperienza come quella della malattia oncologica, dove gli adulti spesso attuano il silenzio come meccanismo per difendere i figli, è possibile proporre e intervenire mediante i Gruppi di parola, specificatamente pensati e strutturati nell’ambito dell’oncologia pediatrica. In questo modo, sarebbe possibile creare uno spazio all’interno del quale i fratelli si sentano liberi di esprimere i propri vissuti, riuscendo a elaborare i cambiamenti che stanno vivendo, senza che questa situazione porti a delle conseguenze dannose per l’intera famiglia. Infatti, proprio in un momento nel quale sono esclusi dalla relazione con i propri genitori, i quali vivono un rapporto simbiotico con il figlio malato, questi possono con il Gruppo di parola trovare il mezzo per condividere le proprie angosce, paure ed emozioni, sfruttando la presenza di altri membri che stanno vivendo la loro stessa situazione, come risorsa terapeutica.
Come sostengono Bonadonna, Farinacci e Marzotto (2015, 52) «[…] il vuoto di parola in famiglia è proprio ciò che finisce per “riempire” la testa dei bambini, soprattutto di una confusione di domande, […] di fantasmi potenzialmente angoscianti. Di qui il concetto di parola che nutre e che allo stesso tempo “svuota” la mente e il cuore […]». I bambini hanno, dunque, bisogno di conoscere, di avere delle informazioni circa la malattia del proprio fratello, di sapere quali cambiamenti accadranno in seguito a questo evento traumatico e, allo stesso tempo, hanno bisogno di persone adulte che li aiutino a individuare le loro capacità, attribuire dei significati ai loro vissuti e a conservare le proprie relazioni familiari.

Gruppi di auto-mutuo-aiuto
I gruppi di auto-mutuo-aiuto sono degli interventi a valenza psicologica e non strettamente psicoterapeutica molto diffusi in oncologia, anche se dalla letteratura (Varetto, Ramonda, Stanizzo, Torta, 2007; Biondi et al., 1995) è possibile costatare come questi siano sfruttati, principalmente, con adulti malati di cancro, mentre per i familiari di rado è previsto un intervento di questo tipo.
Il gruppo di auto-mutuo-aiuto è un piccolo nucleo volontario, costituito da persone che possiedono una situazione problematica comune e che hanno la volontà di riuscire a superarla nel migliore dei modi, sfruttando il supporto e l’aiuto fornito dal gruppo stesso (Santinello et al., 2009). Essi generalmente sono formati da pari, che si uniscono spontaneamente per assicurarsi reciproca assistenza nel soddisfare bisogni comuni, come superare un handicap o un problema esistenziale, oppure per raggiungere un cambiamento personale o sociale desiderato. Nei diversi incontri ogni componente può raccontare e condividere la propria esperienza all’interno di un gruppo che lo ascolta e partecipa empaticamente, inoltre, ha la possibilità di apprendere nuove strategie di fronteggiamento, grazie alla testimonianza e ai consigli di coloro che sono riusciti ad affrontare in maniera funzionale la medesima difficoltà. Tali gruppi, oltre a fornire un sostegno emotivo, nuovi modelli, informazioni e relazioni sociali, offrono anche una forte ideologia nella quale i membri si riconoscono e s’identificano, aumentando la coesione e l’efficacia del gruppo stesso (Santinello et al., 2009).
I gruppi di auto-mutuo-aiuto, essendo spesso utilizzati con i genitori di figli disabili, i quali possiedono un’esperienza, un vissuto e delle problematiche molto simili a quelle delle famiglie con una diagnosi di cancro infantile, potrebbero rivelarsi una fonte di grande aiuto anche per le famiglie che affrontano questa particolare situazione, assumendo una certa rilevanza nella loro esperienza. Nell’ambito dell’oncologia pediatrica, i gruppi di auto-mutuo-aiuto potrebbero essere utilizzati come una risorsa aggiuntiva e alternativa a quelle disponibili tradizionalmente, incrementando l’offerta di sostegno e di assistenza prevista per i familiari dei bambini malati di cancro. Per di più, il loro setting non specifico e le loro caratteristiche molto semplici li rendono facilmente applicabili anche in un contesto particolarmente complesso come quello dell’ospedale.
L’auto-aiuto sostiene la creazione di un’esperienza di condivisione che sconfigge la tendenza di questi genitori a chiudersi nel loro dolore e a isolarsi, li agevola nell’individuazione di nuove strategie di risoluzione dei problemi e nella familiarizzazione con l’espressione delle proprie emozioni e della propria sofferenza, che può essere accolta e contenuta da persone che stanno vivendo le medesime difficoltà (Sorrentino, 2006). Per le famiglie che godono di una scarsa rete sociale, inoltre, i gruppi di auto-mutuo-aiuto possono divenire fonte di sostegno sociale, un fattore di protezione molto importante per le famiglie con una diagnosi di tumore infantile. I gruppi self-help, infatti, promuovono la creazione di relazioni interpersonali significative, che mobilitano il sostegno sociale sia percepito sia ricevuto (Tognetti Bordogna, 2005). Peraltro, lo scambio d’informazioni ed esperienze con gli altri genitori può contribuire anche alla compensazione delle carenze della struttura ospedaliera, diminuendo alcune volte la sfiducia che i familiari possono nutrire nei confronti di questa e aumentando le loro capacità di adattarsi a questa situazione critica.

Conclusione
Da quanto esposto fino ad ora, emerge come l’esperienza della malattia neoplastica sia fonte di grande disagio emozionale non solo per il bambino, ma anche per il sistema familiare. Il tumore maligno, infatti, può essere considerato come una malattia della famiglia, poiché la diagnosi di questa patologia provoca un forte stress sia all’interno sia all’esterno di questa, attivando le risorse di tutti i familiari e modificando le dinamiche e gli equilibri esistenti sino allora. Come per il piccolo paziente, anche per i genitori e i fratelli sani, l’insorgenza della malattia oncologica costituisce una situazione traumatica, che per essere affrontata richiede la messa in atto di strategie e capacità diverse, rispetto a quelle normalmente utilizzate dalla famiglia per fronteggiare i quotidiani eventi del ciclo vitale (Guarino, 2006).
In conclusione, possiamo affermare che, grazie al percorso delineato, è stato possibile sviluppare diverse riflessioni. In particolare, è stato evidenziato come la malattia neoplastica sia un evento paranormativo che il bambino affronta e vive congiuntamente alla sua famiglia e che produce dei cambiamenti nell’organizzazione, nella struttura e nelle relazioni familiari. Inoltre, si è riusciti nell’intento di guardare alle reazioni che si originano nella famiglia, come a delle risposte sane e temporanee alla situazione di emergenza. E si è visto anche come il nucleo familiare possa costituire per il bambino un’importante risorsa, in grado di facilitare e predire l’adattamento del piccolo paziente alla malattia e all’ospedalizzazione, preservando la salute mentale di questo e dell’intero sistema. Infatti, con un adeguato sostegno, la famiglia ha in sé le capacità per superare questo momento di crisi, riorganizzandosi e trovando una nuova omeostasi. Mediante il presente lavoro è emerso anche come la psicologia, integrandosi con le discipline prettamente mediche, possa fornire degli importanti benefici all’oncologia pediatrica, poiché questa contribuisce al raggiungimento da parte di tutti i membri della famiglia di un pieno stato di salute, così com’è inteso attualmente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

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