La Clownterapia nell’ottica della Psicologia Positiva


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Il presente studio vuole approfondire l’importanza della risata, tematica molto sentita nella cura e nell’assistenza del bambino ospedalizzato. L’ospedalizzazione in età pediatrica può essere, spesso, fonte di traumi più o meno evidenti, che mettono a dura prova le capacità individuali di adattamento del bambino portando conseguenze negative di carattere psichico. La permanenza in ospedale è caratterizzata da un’intensa sofferenza, connessa alla paura del dolore e del ricovero e comporta una serie di cambiamenti nella vita del piccolo paziente: si modificano le sue abitudini di vita, avviene la separazione dalla mamma e dalle persone care, il ricorso a pratiche terapeutiche sovente molto invasive accrescendo, in tal modo, i sentimenti di solitudine, disperazione, confusione e rabbia. Data la consapevolezza della presenza di situazioni angoscianti e traumatizzanti per il bambino, l’inserimento di allegria, gioia e serenità permette l’attuazione di una vera e propria relazione di aiuto per il giovane degente.

Numerose ricerche in ambito di Psicologia Positiva, riportate da Seligman (2000), dimostrano che emozioni e pensieri modificano il funzionamento corporeo scoprendo che non sussiste una netta separazione tra il sistema nervoso, endocrino ed immunitario. In sostanza, la Psicologia Positiva afferma che il riso apporta dei benefici certi nella sfera psichica dell’individuo.

In primo luogo viene illustrata la storia della clownterapia analizzando, inizialmente, la scienza della gelotologia soffermandosi, in particolar modo, sull’importanza e sugli effetti del riso sull’organismo e sui neuroni specchio. Successivamente il lavoro illustrerà l’intuizione di Patch Adams ed il contributo di Mr. Stubs. Infine si presenterà la figura dei clown dottori all’interno dei reparti pediatrici analizzando la funzione psicopedagogica del clown, la sua importanza nella relazione con i bambini ed il tema dell’umanizzazione pediatrica.

Successivamente il lavoro si concentra sui modelli teorici della Psicologia Positiva considerando come fondamentali i contributi di Seligman, Ckikszentmihalyi, Peterson e Friedrickson. Di conseguenza verrà posta l’attenzione sugli aspetti caratterizzanti della psicologia positiva come l’ottimismo, la creatività, la felicità, la gratitudine, il perdono e la resilienza.

Infine, dopo aver affrontato il tema dell’umorismo analizzando le teorie e le funzioni ad esso connesse, si prenderà in analisi il modello del clowning terapeutico prendendo in esame l’importanza del gioco a livello terapeutico e la funzione ed il ruolo del clown terapeutico in ospedale. Successivamente il lavoro si soffermerà sull’analisi della clownterapia come strumento di resilienza del clown dottore illustrando alcuni fenomeni che caratterizzano il vissuto emotivo del clown in ospedale quali il clown shift ed il burnout.

La gelotologia

La gelotologia è una nuova area di ricerca nata intorno al 1980. La disciplina studia il fenomeno del ridere, del buonumore e del pensiero positivo, con particolare riguardo alle sue potenzialità terapeutiche ed al benessere psicofisico e sociale concentrandosi sulla cura del malato e non sulla malattia. La persona non è più vista unicamente in funzione della sua patologia, ma come centro di un approccio sistemico-globale che va dalla terapia farmacologica tradizionale al sostegno emotivo.

La gelotologia getta le sue basi sugli studi di psiconeuroendocrinoimmunologia (P.N.E.I), scienza che sostiene la diretta influenza degli stati mentali e delle emozioni sul sistema immunitario e viceversa. (Bottaccioli, 2005)

Tra il sistema nervoso, endocrino ed immunitario sussiste una forte relazione per cui, un sostanziale mutamento in uno di questi, provoca cambiamenti anche sugli altri influenzando, in maniera rilevante, le condizioni di salute dell’individuo. Le ricerche condotte nell’ambito della gelotologia hanno dimostrato che, attraverso la risata, vengono intensamente attivate le ghiandole del corpo che producono le endorfine, neurotrasmettitori dotati di proprietà analgesiche capaci di stimolare il sistema immunitario, potenziando e migliorando le condizioni di salute (Dionigi, Gremigni, 2010). La scoperta dello straordinario potere della risata si deve a Norman Cousins, uno scrittore americano che venne ricoverato

in un sanatorio. Qui, i giovani degenti si divisero spontaneamente tra coloro che credevano nella possibilità di guarire, ed altri che cedevano passivamente alla malattia. Norman ed il suo gruppo si lasciarono coinvolgere in attività creative e la percentuale di dimessi guariti fu molto alta. Tale esperienza lo rese consapevole di quanto la forza della mente possa vincere la malattia, giocando un ruolo fondamentale nella sua vita (Fioravanti, Spina, 1999). Nel 1979 gli venne diagnosticata la spondilite anchilosante, una grave e debilitante malattia dei tessuti connettivi delle articolazioni che lo costrinse all’immobilità, con un’aspettativa di vita molto bassa. Fattosi dimettere dall’ospedale, con l’aiuto del medico curante portò avanti una cura a base di massicce iniezioni quotidiane di vitamina C ed una buona dose di buonumore indotta con film comici e con vecchi filmati di Candid Camera (Fo, 1997). Grazie alla sua personale cura, dopo un anno si era completamente ristabilito confermando che ridere diminuisce il dolore, stimola la produzione di endorfine e rafforza, di conseguenza, il sistema immunitario.

Diversi medici ritennero che anche altri comportamenti, oltre al buonumore, fossero stati importanti nel suo modo di affrontare la malattia quali la fiducia nell’autoguarigione, l’assenza di panico e la volontà intrinseca di aver condiviso la responsabilità della terapia con i dottori. (Fioravanti, Spina, 1999). Come è possibile notare Norman Cousins decise di essere protagonista e fautore della propria guarigione operando cosi un totale “ribaltamento della forma”.

L’importanza del riso

Il riso provoca un aumento del ritmo di sintesi delle encefaline, mediatori del sistema nervoso centrale, aziona la secrezione di endorfine che, oltre a dare una situazione di benessere generale, stimolano soprattutto il sistema immunitario riattivandolo completamente (Fry, 2001).

A conferma che ridere sia un’attività innata, Provine (2001) ha osservato che bambini nati sordi e ciechi mostrano di ridere senza aver mai percepito la risata di altre persone.

Fisiologicamente l’umorismo costituisce il fondamento di una buona salute mentale, al contrario, la sua mancanza indica la presenza di problemi sottostanti come la depressione o l’alienazione. La funzione positiva del ridere sul metabolismo è stata verificata anche nei neonati osservando che quelli che ridono più frequentemente crescono più velocemente e più sani.

Il ruolo dei neuroni specchio

Il riso è davvero contagioso e la spiegazione scientifica di tale comportamento innato è stata fornita da Rizzolatti e da altri ricercatori dell’università di Padova che, intorno al 1950, hanno scoperto, per serendipità, l’esistenza dei neuroni specchio chiamati così per la loro capacità di riflettere le azioni degli altri. I ricercatori hanno scoperto che quando osserviamo un nostro simile compiere un’azione, per empatia nel nostro cervello si attivano quegli stessi neuroni coinvolti quando ci accingiamo a quella stessa azione, preparando il nostro sistema nervoso ad imitare il gesto altrui (Fioravanti, Spina, 1999). In altre parole, quindi, i neuroni specchio permettono di comprendere il significato delle azioni altrui, di imitarle e di capirne le intenzioni alla base, comportandosi similmente ai neuroni motori, che si attivano per un’azione propria, ma con la peculiarità di innescarsi in risposta ad un’azione vista. Rizzolatti e Sinigaglia, (2006) precisano che il venir meno dei neuroni specchio, o la loro scarsa capacità di attivarsi, possono produrre differenti livelli di patologia e di deficit mentali come appurato negli individui autistici. I bambini con autismo provano difficoltà nel comprendere le emozioni degli altri manifestando capacità verbali limitate.

Gli effetti del riso

La risata è un vero e proprio farmaco contro le malattie cardiovascolari mentre, a livello psicofisico, produce un abbassamento della pressione sanguigna; libera endorfine nell’organismo con quattro effetti principali riscontrabili: calmante, antidolorifico, euforizzante ed immunostimolante; dilata i vasi sanguigni con la conseguente rigenerazione dei tessuti. In più, ridere produce un aumento dell’immunoglobulina e permette un abbassamento del livello di cortisolo conosciuto come l’ormone dello stress (Fioravanti, Spina, 2006).

La clownterapia

La clownterapia, definita come terapia del sorriso, consiste nell’applicazione di un insieme di tecniche derivate dal circo e dal teatro di strada, in contesti di disagio in cui ci si avvale della presenza di clown-dottori, professionisti a metà strada tra l’ambito sanitario e quello artistico che portano, all’interno delle strutture, la terapia della risata (Dionigi, 2009).

Scopo della clownterapia è di generare un miglioramento dell’umore nelle persone. La comicoterapia, con i suoi effetti benefici sul sistema immunitario, vuole mitigare la cosiddetta distanza terapeutica tra medico e paziente.

A tal proposito, Thomas Sydenham, autorevole medico del XVII secolo, era solito affermare che “l’arrivo di un buon clown esercita, sulla salute di una città, un’influenza benefica superiore a quella di venti asini carichi di medicinali” (Dionigi, Gremigni, 2010). Da questa rivoluzione del rapporto medicopaziente si può dire che prese avvio la moderna Clownterapia.

Il contributo di Mr. Stubs

Sebbene si supponga che i clown fossero presenti negli ospedali fin dai tempi di Ippocrate, il momento di inizio universalmente riconosciuto del loro ingresso si colloca intorno alla fine del XIX secolo quando “I Fratellini”, un famoso trio di clown, iniziarono saltuariamente a far visita negli ospedali.

La loro idea ebbe inizio l’anno precedente, quando Michael Christensen ebbe l’intuizione di usare una vecchia borsa da medico regalatagli dal fratello deceduto. Nella primavera del 1986, la direttrice del Babies & Children’s Hospital del Columbia-Presbyterian Medical Center di New York chiese a Michael di presenziare, come Mr. Stubs, in un importante evento in cui si celebravano i bambini sottoposti ad interventi di chirurgia cardiaca. Pochi giorni dopo, indossando un camice da medico, Mr.Stubs fece il suo primo ingresso all’interno dell’ospedale nei panni di un clown dottore.

L’intuizione di Patch Adams

Contrariamente a quanto si crede, infatti, Patch Adams non è stato il fondatore di questa pratica ed i clown dottori non sono necessariamente medici. È doveroso sottolineare che, per diventare tali, bisogna seguire un’adeguata formazione perché, in ambienti di sofferenza, si rischia che la comicità possa risultare dannosa.

Il suo messaggio è che una risata, ma soprattutto un abbraccio, possono curare di più e meglio delle più consolidate terapie. Il dottor Adams sostiene che l’umorismo può svolgere una funzione di anestetico naturale, permettendo di accorciare le distanze tra medico e paziente e consentendo di entrare più velocemente in empatia. Nel suo libro “Salute” (1993) trattò l’importanza del rapporto tra medico e paziente sottolineando che, durante gli studi universitari, si discuteva dell’importanza della distanza professionale estendendo anche all’interno dei reparti l’etica della distanza. Sostenne, inoltre, inevitabile il transfert in quanto ogni essere umano possiede un qualche tipo di impatto. Patch asserì che i maggiori successi in medicina implicano l’attenzione verso gli altri rivolgendo ai colleghi la domanda: “quando un paziente parla del suo bisogno di essere abbracciato, lo abbracciate?” Solo il rapporto diretto mette in relazione il medico con il paziente. Adams continuò fermamente a dichiarare che “le persone hanno bisogno di altre persone per ridurre le loro angosce e la loro solitudine” (Adams, 1993, pag. 85). Asseriva anche: “Ci insegnarono a porre al paziente domande veloci, invasive con il solo fine di stabilire rapidamente quali esami richiedere o quali farmaci prescrivere. Imparammo a chiedere queste informazioni di vitale importanza in cinque, dieci minuti al massimo. Il nome, gli amici, la fede del paziente, ovviamente, non rientravano nel tempo stabilito: considerati irrilevanti per la pratica medica” (Adams, 1993, pag. 86). Mise in luce l’importanza di una relazione fondata sull’ascolto, sul coinvolgimento e sulla fiducia. È evidente che l’approccio di Adams non si sovrappose al modello teorico elaborato da Christensen essendo i due modelli accomunati, fondamentalmente, dalla stessa finalità, cioè incrementare il benessere del paziente. Tuttavia Adams parla di joying e loving care (prendersi cura attraverso la gioia e l’amore) contestando l’atteggiamento di distacco professionale tra il personale sanitario e il malato. Egli sostiene, da sempre, che il rapporto fra medico e paziente debba andare oltre la seriosità della medicina convenzionale. Vanno sottolineati alcuni elementi comuni tra il pensiero di Christensen e quello di Adams che condividono lo stesso obiettivo di portare gioia incoraggiando le persone ad essere più umane oltre a saper ascoltare ciò di cui l’altro ha bisogno prendendosi il tempo necessario. Tuttavia è differente il modo in cui questi assunti vengono messi in pratica: Patch Adams è un medico professionista che si traveste da clown, mentre Michael Christensen è un clown professionista che indossa i panni del dottore. Inoltre, nel pensiero di Adams, non vi è alcuna differenza tra un clown professionista e una persona qualunque con un buffo naso rosso.

La presenza dei clown dottori all’interno dei reparti pediatrici

L’ospedale, nel corso degli anni, ha acquisito un ruolo essenziale nella prevenzione del disagio e della malattia, accanto a quello più tradizionale di luogo finalizzato alla cura. Con il passare del tempo si è finalmente compreso che la sua atmosfera opprimente non facilita la guarigione, soprattutto nei bambini. All’interno dei reparti pediatrici, si fa ampio utilizzo del gioco, del contatto emotivo e si usa la cura del ridere, riscontrando che questo approccio ha l’effetto di alleviare la sofferenza nei piccoli pazienti anche grazie alla presenza di clown in ospedale con un effetto tangibile sul loro umore (Fo, 1997).

Nel 1988, è stata redatta la Carta di EACH (European Association for Children in Hospital) che accoglie in 10 punti i diritti del bambino in ospedale. Nel punto 7 si legge “il bambino deve avere la piena possibilità di gioco, di ricreazione e studio adatti alla sua età, essere ricoverato in un ambiente adatto e seguito da personale adeguatamente preparato” (http://suem.ulss.tv.it/EACH.html). L’obiettivo è di umanizzare i reparti pediatrici migliorando la qualità della degenza con ambienti più accoglienti e personale attento. Fare il clown che fa il dottore significa giocare a un gioco di ruolo enfatizzando ciò che il medico fa realmente. Per parodiare la figura del medico e sdrammatizzare questo evento, il clown dottore può auscultare con lo stetoscopio posizionandolo sulla pianta del piedino del bambino, muovendosi in maniera impacciata nella stanza di degenza, simulare di conoscere l’ambiente in cui si opera in modo originale o trasformare un guanto sterile in un palloncino. Un aspetto fondamentale del lavoro dei clown dottori, che sta alla base di un positivo incoraggiamento delle relazioni sociali, consiste nel dare potere al bambino identificandosi con lui in quanto ugualmente sfortunato. All’interno dei reparti pediatrici, i bambini sono sottoposti ad una routine alla quale non sono abituati e a cui non possono sottrarsi e reagiscono, di conseguenza, manifestando paura, rabbia, scoppi d’ira, tremori ed apatia (Li, 2007). Il clown dottore vuole offrire al bambino una nuova chiave di lettura della propria condizione emotiva e cognitiva, con lo scopo di aiutarlo a contrastare il proprio stato di passività davanti alla malattia facendo leva sugli aspetti emotivi e relazionali interpretando sia le emozioni del bambino che le proprie (Farneti, 2004).

La funzione psicopedagogica del clown

È l’ospedale, dunque, che deve andare incontro ai bisogni del bambino e non viceversa, diventando il luogo in cui considerare tutte le varie esigenze del piccolo in un’ottica di alleanza terapeutica tra le diverse figure professionali che operano in ospedale.

A questo proposito, Linge (2012) identifica tre fondamentali caratteristiche della qualità dell’assistenza del clown dottore che rappresentano un valore psico-pedagogico unico. In particolare, deve aiutare a superare i confini creando uno spazio immaginario parallelo che permetta di trascendere i limiti della realtà concreta, mettendo temporaneamente da parte la necessità di un adattamento forzato che la realtà di cura richiede al bambino. La seconda caratteristica prevede che l’intervento del clown proponga allegrie e risate mediante la sorpresa e l’umorismo, senza contropartita al bambino, senza imporre restrizioni, costrizioni, regole o richieste. La terza qualità, infine, consiste nella possibilità di creare un contrappeso positivo, rappresentato dalla distrazione leggera e gioiosa che controbilanci, momentaneamente, le difficoltà o la pena dei trattamenti medici. Il contributo di Linge è considerevole per valorizzare il clown dottore come una figura terapeutica ausiliaria che, attraverso l’espressione dell’empatia, mostra al bambino, esposto a una difficile situazione di malattia e di cura, che i suoi sentimenti e i suoi bisogni sono compresi e rispettati.

Il clown nella relazione con i bambini

A seconda delle età e del periodo previsto di degenza, comunque, si lavora in modo specifico, seguendo le tappe indicate dai diversi autori della psicologia dell’età evolutiva considerando che, spesso, il bambino ospedalizzato subisce una regressione a livello psicologico e la fase di sviluppo in cui si trova non sempre corrisponde all’età cronologica. Nel bambino da zero a tre anni, dato il rapporto simbiotico con la madre e la possibilità che il piccolo sia spaventato dalla figura del Clown, questi lavora prima di tutto con la mamma facendola partecipare attivamente ad alcuni giochi e situazioni comiche accompagnandosi, magari, con una musica dolce. Il bambino dai tre ai sei anni si trova nell’età definita “dello sviluppo simbolico preconcettuale” dove non riesce a distinguere il mondo della realtà e quello della fantasia. Collocandosi a metà strada tra i due mondi, il clown dottore lavora con i giochi di magia, che riescono a rendere fiabesco l’interno dell’ospedale. È utilissimo, in questa età, sfruttare il fattore “magia=guarigione”. Questa consapevolezza viene rafforzata da qualche oggetto (tecnica dell’ancoraggio o dell’oggetto transazionale) che contiene, o materializza, un fluido magico che nell’immaginario del bambino è così forte da attivare l’effetto placebo, potente alleato terapeutico. I bambini dai sei ai dieci anni si trovano nel periodo della scolarizzazione avendo perso, ormai, parte dell’egocentrismo e risultando maggiormente disponibili a collaborare attivamente. Si cerca di far esprimere le emozioni negative legate all’esperienza dell’ospedalizzazione attraverso la proiezione, l’imitazione, la sublimazione, le tecniche dell’uso del capro espiatorio e, dove possibile, la verbalizzazione al fine di far liberare il bambino da paure, ansie, dolore e frustrazione. I ragazzi dai dodici ai sedici anni tendono a distaccarsi dalla famiglia e a cercare un’autonomia di pensiero e d’azione. Contestando e criticando i genitori, il loro atteggiamento appare duro e provocatorio nei confronti del mondo. Con gli adolescenti, tutto il rapporto si gioca su un approccio comico adulto, talvolta passando per il loro mondo di riferimento come la musica, lo sport o i videogiochi e, se i ragazzi lo permettono, è possibile spingersi oltre grazie all’uso dell’empatia (Ferrari, 2008).

L’umanizzazione pediatrica

L’intervento del clown dottore va inserito nell’ambito dell’umanizzazione dei contesti di cura. Umanizzare significa fare riferimento all’individuo nella sua globalità, curando la malattia, promuovendo la salute e garantendo un ambiente capace di favorire una crescita sana ed armoniosa a livello fisico, emotivo, sociale e spirituale. L’ospedalizzazione rappresenta, al contrario, un importante fattore di rischio per l’equilibrio psicofisico e per lo sviluppo delle abilità cognitive, emozionali, sociali e fisiche del minore (Filippazzi, 2004). In questa situazione, il paziente pediatrico si trova di fronte a un cambiamento radicale rispetto a ciò a cui era abituato che lo può portare a diminuire la fiducia nell’onnipotenza dei genitori, sperimentando un vissuto di abbandono che determina un senso di instabilità emotiva e confusione (Mangini, Rocca, 1996). Questi cambiamenti sono trasversali all’età pediatrica, tant’è che perfino i bambini di pochi anni sono in grado di percepire che qualcosa si sta modificando nella loro vita (Mancaniello, 2003). Viceversa, il livello di sviluppo del bambino incide sui suoi meccanismi di comprensione e sulle sue reazioni, sia emotive che comportamentali, dinanzi alla malattia e all’ospedalizzazione (Filippazzi, 2004). Come ha sostenuto Winnicott (1974), il bambino non può essere considerato separatamente dalla coppia genitoriale e dal nucleo familiare che richiede loro la capacità di adattarsi alla nuova situazione.

I modelli teorici della psicologia positiva

La psicologia positiva è una delle aree più recenti delle scienze psicologiche che ha nel benessere, colto nelle sue molteplici sfaccettature, il suo centro fondamentale di indagine. È nata agli inizi del XXI secolo come disciplina scientifica autonoma. Si caratterizza per aver posto l’attenzione sui punti di forza e sulle risorse degli individui e sulle qualità positive quali la responsabilità sociale e la partecipazione civica, proprie dei contesti sociali che realizzano il bene comune (Delle Fave, 2007). Vuole rappresentare una scienza dell’esperienza soggettiva positiva, delle qualità positive di personalità in grado di migliorare la qualità della vita e prevenire numerose patologie. L’origine della crescente attenzione riguardo il tema del benessere nella sua più ampia accezione, è da ricercare nei cambiamenti avvenuti nella seconda metà del secolo scorso quando, le nuove scoperte nel campo della medicina, della psicologia e delle scienze sociali, facevano avvertire i limiti delle fredde teorie con l’esigenza di una netta revisione dei concetti di benessere e salute individuale e sociale. Intorno agli anni Settanta del secolo scorso, si verificò il passaggio dal paradigma biomedico, a forte impronta riduzionista, al paradigma sistemico biopsicosociale legato ai modelli della complessità della malattia e della salute. Questo aprì la strada allo studio della salute e del benessere attraverso l’integrazione e il raccordo di fattori di natura biologica, psicologica e sociale considerando la salute come funzionamento ottimale (Zambianchi, 2015). Se in un primo momento l’attenzione della psicologia era rivolta alla cura e al trattamento delle grandi patologie mentali, in questa seconda fase l’attenzione è stata estesa alla sofferenza e a tutti i fattori che potessero avere un effetto negativo su qualsiasi ambito della vita (Laudasio, Mancuso, 2015).

Nel 2008, Martin Seligman, presidente dell’APA, dichiarava “Non dobbiamo soltanto guarire le persone malate. La nostra missione è più grande: dobbiamo cercare di migliorare la vita di tutti gli individui” (Seligman, 2008, pag. 9). Ormai non bastava aiutare i pazienti ad essere meno infelici o meno depressi, ma occorreva incoraggiarli, una volta superate le difficoltà, ad assaporare la vita e a non ricadere più nel disagio. Si trattava, dunque, di imparare a coltivare il benessere psicologico e a servirsene come uno strumento utile per la prevenzione delle ricadute (Andrè, 2015). Seligman evidenzia come la psicologia non possa limitarsi allo studio della malattia, del danno o della debolezza ma deve anche interessarsi ai punti di forza ed alle virtù.

Sembrerebbe che i fondamenti della psicologia positiva siano stati evocati per la prima volta nel 1997 all’interno di una conversazione tra gli psicologi Martin Seligman e Mihaly Ckikszentmihalyi. Nel 1998 è collocabile la nascita della scienza della psicologia positiva ad opera di Martin Seligman, Mihaly Ckikszentmihalyi e Raymond Fowler secondo i quali la nuova disciplina deve occuparsi delle potenzialità dell’essere umano e delle sue debolezze, impegnandosi a sostenere le potenzialità del singolo con lo scopo di attuare un miglioramento generale della qualità della vita. I campi di indagine della psicologia positiva riguardano sia la sfera individuale (focalizzandosi su benessere, soddisfazione per la vita, sviluppo delle potenzialità e dei talenti individuali, sviluppo di risorse e di competenze come l’ottimismo), sia la sfera sociale ed istituzionale (esplorazione dei fattori che facilitano la costruzione di un elevato senso civico, la tolleranza e la promozione di una vera e propria salute sociale positiva) (Delle Fave, 2007). Si è analizzato che quando un individuo è posto di fronte ad un problema, le emozioni positive lo aiutano ad ampliare le possibili scelte cognitive e comportamentali a sua disposizione. Questo ampliamento cognitivo, derivante dalla presenza di emozioni positive, conduce, a lungo termine, alla costruzione di un repertorio stabile di risorse psicofisiche e comportamentali utili all’adattamento efficace all’interno dell’ambiente (Dionigi, Gremigni, 2014).

Martin Seligman e il modello PERMA

Martin Seligman, il fondatore della psicologia positiva, è convinto della possibilità di insegnare cosa sia il benessere e cerca di comprendere scientificamente cosa renda felici le persone. Specifica, così, che la felicità è un obiettivo alla portata di tutti purché si apprezzino e si mettano in pratica i comportamenti corretti, sia verso gli altri che se stessi (Seligman, 2017). Secondo lo psicologo, la teoria del benessere si articola intorno a cinque elementi e può essere compresa sintetizzando il modello PERMA, l’acronimo delle iniziali dei termini corrispondenti inglesi che lo costituiscono: l’emozione positiva, il coinvolgimento, il significato, la realizzazione e le relazioni positive.

Ckikszentmihalyi e la teoria del Flow

Il termine flow, letteralmente traducibile con flusso, fu introdotto dallo psicologo Mihaly Ckikszentmihalyi nel 1975 e sta ad indicare lo stato di completa gratificazione che si prova nell’essere completamente immersi e assorbiti in un’attività al punto di perdere quasi la consapevolezza di sé, della fatica e del tempo che trascorre (André, 2015). Il flow rappresenta un’esperienza ottimale in cui la prestazione dell’individuo è al culmine e si sperimenta uno stato d’animo positivo e di entusiasmo. Pur trovandosi in uno stato di alterata percezione del tempo, dello spazio e degli eventi circostanti, non si ha mai nessuna sensazione di mancanza di controllo della situazione.

Peterson e la classificazione VIA

Peterson e Seligman hanno sviluppato un sistema di classificazione dei tratti positivi degli individui, il Values In Action (VIA). Essi definiscono la “buona vita” a partire da sei virtù, universalmente riconosciute come valori imprescindibili: la saggezza, il coraggio, l’umanità, la giustizia, la temperanza e la trascendenza (Dionigi, Gremigni, 2014).

Friedrickson e il modello dell’ampliamento-costruzione

Sulla base di queste evidenze Barbara Friedrickson ha sviluppato il modello dell’ampliamentocostruzione basato sull’assunto che, di fronte ad un problema, le emozioni positive dilatano il repertorio cognitivo e comportamentale a disposizione del singolo. Questo ampliamento della prospettiva cognitiva, nell’immediato, conduce a lungo termine alla costruzione di un repertorio stabile di risorse psicofisiche e comportamentali utili per favorire un adattamento efficace all’ambiente (Laudadio e Mancuso, 2015). Gli studi condotti in seguito hanno fornito una maggiore comprensione su quanto sia importante provare emozioni positive, non solo come piacere di per sé, ma perché determina un rapporto migliore con il mondo.

L’umorismo, dalle origini alla psicologia positiva

In accordo con Solfaroli Camillocci e Vella (2005), l’umorismo come una particolare disposizione di spirito che permette di cogliere in ogni situazione, anche la più drammatica, il risvolto comico. Non porta a ridere di tutto, né a minimizzare o a sottovalutare ciò che è causa di sofferenza, dolore ed angoscia, ma lascia intatta la capacità di soffrire. Se le circostanze lo permettono, può sfogarsi in una risata liberatoria, altrimenti si manifesta attraverso una smorfia quasi impercettibile ed essere recepito come una sorta di empatia. L’umorismo può svolgere un ruolo fondamentale per migliorare la qualità della vita nelle istituzioni sanitarie. Può essere una valida strategia utilizzata dai pazienti per gestire la propria condizione, un efficace strumento in mano al personale sanitario per contrastare lo stress della vita ospedaliera costituendo, anche, un ottimo strumento per ridurre l’ansia nei bambini degenti. In questo contesto, la figura del clown dottore rappresenta quel sostegno necessario per portare leggerezza in un luogo già carico di tensione. Essendo l’intervento del clown fortemente basato sulla componente umoristica il suo apporto, in ambito sanitario e sociale, può mirare ad aumentare i punti di forza dell’individuo. È stato dimostrato che, le persone che provano un maggior numero di emozioni positive nella loro vita, risultano essere maggiormente soddisfatte. L’umorismo appare essere così uno dei più veloci ed effettivi mezzi per ridurre simultaneamente le emozioni negative ed incrementare quelle positive (McGhee, 2010). Lo scopo del clown, in conclusione, è di porsi in una posizione di ascolto attivo ed attento ai contesti ed alle situazioni in cui opera, in modo da elaborare le migliori strategie di comunicazione ed interazione con tutte le persone presenti nei contesti dell’intervento (Flangini 2010). Il suo obiettivo è di indurre una modifica nello stato emotivo dei pazienti, favorendo l’aumento delle emozioni positive e il decremento di quelle negative. Potremmo quindi definire il clown un “interprete delle emozioni” (Dionigi, Gremigni, 2010).

Le teorie dell’umorismo

Nel corso dei secoli, il crescente interesse nei confronti dell’umorismo ha permesso la nascita di un numero elevato di teorie. Queste possono essere classificate in diversi modi e i vari autori concordano sul fatto che nessuna di queste, presa singolarmente, ne spiega ogni aspetto senza mostrare delle carenze. Per la descrizione delle più importanti, faremo riferimento alle tre che, secondo Ruch (1998), si sono dimostrate di maggiore interesse in ambito psicologico, influenzando ~ 39 ~ notevolmente l’indagine delle differenze individuali e la produzione di materiale di ricerca. Si analizzeranno, in particolare, le teorie del sollievo, della superiorità e dell’incongruità. All’interno della teoria del sollievo ricadono diverse teorie per lo più di impostazione psicanalitica. Tra le varie, quella di Freud, padre della teoria psicanalitica dell’umorismo per eccellenza, viene esposta nel celebre testo “Il motto di spirito e il suo rapporto con l’inconscio” pubblicato nel 1905. La teoria freudiana che ha influenzato, in misura significativa, la ricerca fino alla prima metà del XX secolo, spiega come la risata abbia la funzione di scaricare un eccesso di energia pulsionale repressa dovuta agli impulsi sessuali ed aggressivi. L’umorismo è, perciò, visto come fenomeno comunicativo che permette al soggetto di esprimere i contenuti inibiti e relegati nell’inconscio, solitamente repressi, in modo accettabile e tollerato dall’interlocutore. Di conseguenza, Freud definisce l’umorismo come uno dei diversi meccanismi di difesa che permettono di fronteggiare situazioni difficili senza essere sopraffatti dalle emozioni spiacevoli mantenendo una visione realistica di ciò che sta accadendo.

La teoria della superiorità si basa, di contro, sul costrutto secondo cui chi interagisce attraverso battute e scherzi si presenta come una persona con accresciuta autostima, padronanza e sicurezza di sé. Gruner, esperto di linguaggio e comunicazione e docente presso l’università della Georgia, è il maggior teorico contemporaneo della teoria della superiorità. Concepisce l’umorismo come un’aggressione giocosa sostenendo come esso rappresenti un gioco in cui vi è una competizione, una sfida che vede dei vinti e dei vincitori (Fioravanti, Spina, 1999). Gruner basa la sua teoria sulla prospettiva evoluzionistica, dove aggressività e competizione sono le caratteristiche più importanti per l’evoluzione della specie. La risata ha la funzione di riportare sia l’equilibrio nell’organismo sia di manifestare una sorta di vittoria contro le sfide della vita.

L’ultima a teoria che Ruch analizza è quella dell’incongruità che si focalizza in maniera più specifica sugli aspetti cognitivi e meno su quelli sociali ed emotivi dell’umorismo. Si ritiene che la percezione di un’incongruità sia il fattore cruciale per determinare se qualcosa sia più o meno spiritoso. Il riso proviene sempre dalla percezione di un’incongruità constatata in maniera improvvisa fra un concetto e l’oggetto reale richiamato al pensiero. Koestler, l’autore di riferimento di tale teoria, ha coniato il termine “bisociazione” con il quale descrive la capacità di associare, accostandoli, due o più aspetti mai collegati tra loro in precedenza, o perfino concettuali, così che la realtà possa essere interpretata, ogni volta, in due sensi del tutto indifferenti (Fioravanti, Spina, 1999). Chiariamo che il termine “incongruità” si richiama al fatto che per essere divertenti, le cose devono essere incoerenti e sorprendenti da come ci aspetteremmo.

Le funzioni dell’umorismo

Secondo Carritelli (2013) le principali funzioni dell’umorismo sono quella competitiva, manipolativa, ludica, supportiva e trascendentale. ~ 42 ~ La funzione competitiva si riferisce al bisogno di affermare se stessi sopraffacendo gli altri attraverso l’autodifesa o l’aggressione ed è ritenuta quella meno utile al mantenimento delle relazioni. Assolve al compito di provocare reazioni negative o aggredire qualcuno che si ritiene essere un antagonista. La funzione manipolativa parte dal bisogno di sedurre, persuadere e convincere gli altri e può essere positiva o negativa a seconda della bontà o dell’eticità delle nostre intenzioni. È senz’altro quella che oggi viene maggiormente impiegata in modo implicito o esplicito nella pubblicità, nella politica e nel commercio avendo, come motivazioni di base, la persuasione e la seduzione. La funzione ludica si riferisce al piacere e al godimento nell’usare l’immaginazione ed il gioco creativo. L’utilizzo della comicità rientra in tale funzione ed abbraccia tutte quelle manifestazioni comiche finalizzate alla semplice risata, al divertimento giocoso e al piacere intellettuale. A differenza delle altre funzioni, la finalità ludica è pura, poiché trascende da qualsiasi altra finalità ed è sempre innocente in quanto non presuppone nessun’altra intenzione oltre a quella del piacere comico. L’aspetto ludico dell’umorismo si manifesta sul piano non verbale attraverso l’espressione mimica del viso e la gestualità del corpo ed i Clown usano un repertorio di smorfie, facce e versi gutturali tipici, nell’attesa che il bambino possa ricambiarli con un sorriso. Con la funzione supportiva l’umorismo assume il ruolo di facilitare la comunicazione, favorire lo scambio e l’empatia rafforzando i legami e creandone nuovi. Si basa sul bisogno di aiuto e sostegno con terapie e si traduce concretamente con il senso dell’appoggio, dell’aiuto e della protezione che hanno, come comune punto di partenza, l’esigenza di offrire, a se stessi ed agli altri, una forma di conforto che vede l’umorismo come una sdrammatizzazione degli aspetti tragici dell’esistenza e come mezzo per affrontare le situazioni difficili con leggerezza. Attraverso la funzione supportiva il clown dottore riesce ad instaurare un dialogo comico con i pazienti. Anche quando non fa ridere, la funzione supportiva non è mai nociva perché gli interlocutori si sentiranno comunque lusingati e gratificati per l’interesse dimostrato per la relazione. La funzione trascendentale, infine, si fonda sul bisogno di dare senso alla vita per raggiungere una maggiore consapevolezza di sé e del mondo. Tra tutte le funzioni finora analizzate, questa ci coinvolge più profondamente, avvicinandosi al nostro bisogno di dare un senso a ciò che siamo e che facciamo. Possiamo notare che l’unica funzione che meglio si accomuna alla funzione trascendentale è quella ludica. Al contrario di quest’ultima è, però, motivata dall’esigenza di una ricerca filosofica e spirituale che usa l’umorismo per affrontare tematiche esistenziali, per mettere alla prova modelli di pensiero e per cercare di comprendere il valore ed il significato della vita. Le motivazioni principali che spingono ad esercitare questa funzione sono l’autoconsapevolezza e la ricerca del senso (Carritelli, 2013).

L’umorismo come strategia di coping

Il termine coping deriva dal verbo inglese “to cope” cioè “far fronte a, affrontare”. Il vocabolo appare nei testi di psicologia dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, ma ancora non sembra avere una definizione ben precisa e condivisa. Dall’analisi della letteratura in merito all’argomento, si nota come il coping sia stato considerato una caratteristica relativamente stabile della personalità, con differenze individuali nelle reazioni a vicende traumatiche (Zani, Cicognani, 1999). L’interesse per lo studio dell’umorismo come fonte di scarico dello stress si deve alla psicanalisi. Fu Freud che inquadrò, per la prima volta, il coping come meccanismo di difesa che permette di affrontare i conflitti emotivi e le fonti di stress interne o esterne, enfatizzando gli aspetti ironici. L’umorismo tende ad alleviare la tensione consentendo di rivedere gli avvenimenti in chiave diversa, contestualizzando i vari aspetti ed addossando la colpa soltanto ad un aspetto specifico di quel preciso evento. Negli anni, gli studiosi Martin, Lazarus, Folkman ed altri hanno ipotizzato che l’abilità di rispondere con l’umorismo allo stress ed alle avversità possa essere un’importante ed efficace strategia di coping (Dionigi, Gremigni, 2010). Gli studi più recenti condotti da Martin nel 2007 hanno dimostrato che l’umorismo e il ridere siano di grande utilità nella riduzione dei livelli di ansia e tensione in situazioni potenzialmente stressanti. Data la sua importanza per fronteggiare tali eventi, Martin e Lefcourt (1983) hanno realizzato la Coping Humor Scale (CHS), uno strumento in grado di valutare l’utilizzo dell’umorismo come strategia di coping. Si tratta di un questionario per misurare, in maniera specifica, la capacità del soggetto esaminato di far fronte a situazioni di stress attraverso il ricorso all’umorismo. Il test è composto da 7 item rispetto ai quali al soggetto viene chiesto di indicare su una scala da 1 a 4 quanto si sente d’accordo con ciò che viene affermato in ciascuna voce. Gli studi empirici condotti dagli autori della scala hanno dimostrato che la CHS ha un valore accettabile di consistenza interna e di attendibilità test-retest, oltre ad una notevole efficacia per quanto riguarda la validità di costrutto. È bene precisare che la CHS è l’unico strumento in grado di misurare l’umorismo come ~ 45 ~ strategia di coping (Fioravanti, Spina, 1999).

L’umorismo, inoltre, in quanto funzione di coping riesce a modificare i pattern disfunzionali del comportamento dal momento che i bambini ospedalizzati spesso presentano degli atteggiamenti oppositivi.

La funzione creativa del clown in ospedale

Come si legge in Cunico (2004) le emozioni catturano e coinvolgono, stimolano, colorano la realtà e le situazioni, creano energia oppure la bloccano, cambiano le persone ed il senso stesso della vita. È opportuno che il clown dottore abbia un’alta intelligenza emotiva, strumento indispensabile regolativo dei rapporti con se stessi e con gli altri, tanto da essere riconosciuta come una risorsa vitale e determinante per il proprio ed altrui benessere (Ferrari, 2008). L’adulto ha il compito primario d’incoraggiare i più piccoli ad esprimere ed a comprendere il motivo reale delle loro paure, ansie ed insicurezze al fine di capire lo stato d’animo e la causa che l’ha determinato. “Come ti senti?”, “come si sente, secondo te, il tuo compagno dopo quanto è accaduto?”, “come ti sentiresti al suo posto?”, “tu come avresti reagito?” sono alcuni esempi di un possibile percorso all’interno delle emozioni più profonde che il clown dottore dovrebbe intraprendere con i piccoli ~ 51 ~ pazienti, tenendo presente che non sono sempre i fatti in sé a farci sentire tristi o felici, ma anche e soprattutto ciò che pensiamo, percepiamo o ci attendiamo rispetto ad una determinata realtà (Di Pietro, 1999). Uno dei compiti della clownterapia è educare alle emozioni, rispettandole per come si presentano, senza tentare di modificarle, ma semplicemente di accoglierle e viverle. Sono proprio queste a dare il colore alle nostre esperienze, rendendole piacevoli o spiacevoli, ricche o povere. Proprio per questo motivo agiscono sulla memoria permettendo un maggior apprendimento ed una marcatura indelebile dell’esperienza vissuta, non sempre piacevole. Alcuni ricordi emotivamente dolorosi restano impressi per sempre nella persona alterando il suo benessere psicofisico. Un’altra funzione rilevante delle emozioni è di suscitare degli stimoli e degli obiettivi, proprio perché sono in grado di creare una spinta all’azione mobilitando le energie che sono dentro di noi per la crescita psicologica. Di conseguenza, le emozioni sono fondamentali per non correre il rischio di adagiarsi sulla propria quotidianità. Non a caso sono proprio queste che ci aprono o ci chiudono all’altro permettendoci di strutturare una rete sociale che ci fa sentire unici perché appartenenti, e parte fondamentale, di gruppi più o meno grandi (Cunico, 2004). Da questo breve accenno sul valore delle funzioni delle emozioni, ne consegue che il clown dottore deve necessariamente mostrarsi attento alle emozioni suscitate, soprattutto se si tratta di bambini o adolescenti. Nel momento che precede l’età adulta, se non si è stati abituati a riconoscere le emozioni e ad esprimerle, potrebbero mancare i presupposti psicologici che caratterizzano l’affettività adulta. Un’esperienza emotiva ed affettiva carente, o addirittura negativa, può procurare la mancanza di fiducia in se stessi o negli altri condizionando il soggetto maturo (Poli, 2019). Quindi un bambino che non viene aiutato a comprendere, superando, i sentimenti negativi connessi al suo periodo di ricovero, rischia di diventare un adulto chiuso in se stesso, incapace di gestire, di controllare e di convivere con le emozioni che sperimenta nella quotidianità (Cunico, 2004).

La clownterapia come strumento di resilienza del clown dottore

Definiamo resilienza psicologica la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando le difficoltà e gli eventi negativi che si incontreranno sul cammino. Essa costituisce l’atteggiamento contrario di chi, di fronte alle avversità anche piccole, si arrende e perde la speranza o la motivazione, essendo innata negli esseri umani e potendo essere ulteriormente arricchita nel corso della vita (Trabucchi, 2007). Di fatto, il clown dottore deve essere un individuo resiliente, ovvero deve presentare una serie di caratteristiche psicologiche inconfondibili. Deve mostrarsi ottimista, capace di leggere gli eventi negativi come momentanei e circoscritti, ritenere di possedere un ampio margine di controllo sulla propria vita e sull’ambiente che lo circonda, essere fortemente motivato a raggiungere gli obiettivi che si prefigge, tendendo a vedere i cambiamenti come una sfida e come un’opportunità piuttosto che una minaccia. Il clown dottore, di fronte a sconfitte e frustrazioni, è capace di non perdere mai la speranza. La clownterapia diviene un incentivo ad essere maggiormente resilienti in quanto la nostra sensibilità allo stress deriva da come interpretiamo gli eventi e dalla modalità con la quale siamo in grado di fronteggiare quel determinato problema. La sensibilità allo stress dipende strettamente dalla valutazione cognitiva, ovvero dal modo con cui interpretiamo normalmente gli eventi in base al nostro modello mentale del mondo e da come questa determina la risposta comportamentale, emozionale e fisiologica agli eventi. La persona resiliente è in grado di ristrutturare cognitivamente qualcosa, ovvero riesce a trovare degli elementi positivi in un evento modificando il modo di guardarlo e di approcciarsi ad esso (Trabucchi, 2007).

Il fenomeno del clown shift

Il passaggio da persona a clown, e viceversa, è stato indagato di recente in maniera approfondita da Dionigi, Ruch e Platt (2016). Lo shift cognitivo che avviene nel momento in cui si vestono i panni del clown e si inizia a vedere e ad interagire in maniera clownesca, è stato definito come clown shift. Lo studio dei ricercatori ha mostrato come vi siano due dimensioni che favoriscono il passaggio (positive beliefs e reflective awarness) e due che lo ostacolano (cognitive interferences e anxiety).~ 53 ~ Le dimensioni si riferiscono sia al senso di autoefficacia personale (positive beliefs) che alla consapevolezza delle procedure da rispettare prima, durante e dopo il turno in ospedale (reflective awarness). I fattori inibenti, invece, riguardano l’ansia sperimentata prima e durante il turno da clown dottore (anxiety) e la tendenza a perdersi in pensieri non rilevanti durante l’attività (cognitive interferences). È emerso che tali dimensioni siano modificabili attraverso un valido ed accurato training formativo.

Il fenomeno del burnout

I Clown Dottori non sono i “forzatori della risata” perché in certe situazioni, come nell’imminenza di un evento estremo, la loro leggerezza può apparire fuori luogo. In questa situazione, il clown si toglie il naso rosso e resta, se è il caso, a disposizione nell’autenticità del suo essere persona. Sono momenti in cui è presente un’intensità emotiva molto forte, quasi insostenibile, in cui soltanto la consapevolezza di una condizione trascendentale della vita può essere di conforto (Fioravanti, Spina, 2006). Questi operatori lavorano con e sulle emozioni sia proprie che del paziente e, per poter agire al meglio, devono intraprendere un percorso soprattutto su se stessi. La parola bournout compare, per la prima volta, all’inizio del secolo scorso per indicare una condizione riscontrata in psichiatri che, a causa del sovraccarico di lavoro, manifestavano un forte disinteressamento emotivo e un rapido esaurimento, sia nei propri confronti che verso i pazienti. Intorno alla metà del Novecento, la psicologa Christina Maslach definì il bournout come una sindrome da esaurimento emotivo che porta a spersonalizzare e ridurre le capacità personali, specialmente nei soggetti che si prendono cura di altre persone (Maslach, 1992). Il termine venne coniato dopo che la psicologa osservò una durevole persistenza di apatia, indifferenza, nervosismo, irrequietezza e cinismo nelle “helping professions” dopo mesi, o anni, di generoso impegno. In seguito, il bournout è stato definito come un processo molto complesso articolato in più fasi. La prima fase, di esaurimento emotivo, è caratterizzata dalla mancanza di energia necessaria ad affrontare la realtà quotidiana, sostituendola con sentimenti di apatia e distacco vedendo esaurirsi le proprie risorse emozionali. La seconda coincide con la depersonalizzazione, cioè quell’atteggiamento di ostilità che coinvolge primariamente la relazione professionale di aiuto, ora vissuta con fastidio, freddezza e cinismo, sottraendosi al coinvolgimento e limitando la qualità e la quantità dei propri interventi. Successivamente si riscontra una ridotta realizzazione professionale vista come un fallimento dovuto alla percezione della propria inadeguatezza con un conseguente senso di colpa. Psicologicamente il bournout rappresenta la risposta ad una situazione avvertita come intollerabile per la distanza tra la quantità di richieste e le risorse individuali disponibili per rispondervi positivamente. Ne consegue un senso di impotenza per la convinzione di non poter modificare tale situazione o per eliminare l’incongruenza tra ciò che l’operatore ritiene che l’utente si aspetti e ciò che, realmente, è in grado di offrire. Ciò porta ad un esaurimento di energie che può avere molteplici manifestazioni come sintomi fisici, psicologici, reazioni comportamentali sul luogo di lavoro e cambiamenti di atteggiamento nei confronti dei pazienti (Malach, 1992). Come analizzato, la sindrome da bournout è di tipo multifattoriale perché prevede l’interazione di fattori socio ambientali e determinanti individuali e, nei clown dottori, risiede nella difficoltà nel vestire adeguatamente i panni del proprio alter-ego clown.

Il training formativo

Fra le varie strategie per prevenire lo stress, il training formativo si è dimostrato particolarmente efficace ed un ottimo fattore protettivo nei confronti del bournout. Il training aiuta ad accrescere il repertorio delle competenze artistiche in modo da dare al clown dottore una serie di strumenti da utilizzare nelle diverse situazioni, aiutandolo ad evitare di cadere nella routine delle azioni. Inoltre, effettuare un lungo e valido training, aiuta i membri del gruppo a sentirsi parte di un team con il risultato che sarà maggiormente possibile stabilire legami e relazioni positive. Dall’esperienza sappiamo che, oltre a fornire delle abilità artistiche, il percorso di clownterapia prevede l’acquisizione di competenze di tipo psicologico, utili a gestire la relazione con il paziente permettendo, anche, di amministrare meglio il proprio vissuto (Dionigi, Flangini, Gremigni, 2012). Altre possibili strategie contro lo stress consistono nel dialogo con uno psicoterapeuta, effettuare incontri mensili di supervisione di gruppo oppure tenere un diario dove riportare i vissuti e le emozioni provate.

Il debriefing appare l’occasione ideale per elaborare le esperienze appena vissute. Non sono sedute terapeutiche, bensì momenti di condivisione con il proprio compagno clown durante i quali confrontarsi e comprendere che le reazioni e le emozioni vissute non sono uniche, ma possono essere state percepite dal compagno nella stessa maniera. Attraverso una presa di consapevolezza, è possibile analizzare quanto è accaduto nel turno appena terminato, cogliendone aspetti positivi e carenze a livello sia artistico che relazionale.

L’importanza della condivisione sociale delle emozioni

Nel momento in cui i clown dottori entrano in reparto, non sanno mai cosa li potrà aspettare e devono essere preparati, con spirito rilassato e giocoso, ad ogni evento si possa presentare. Nondimeno, ne possono risentire a livello psicologico in conseguenza delle situazioni incontrate, vista l’eterogeneità delle condizioni psichiche e fisiche che i degenti possono presentare (Flangini, 2010). Come abbiamo analizzato, le professioni di aiuto, in cui rientra la categoria dei clown dottori in ambito sanitario, sono a forte rischio di insorgenza di sintomi di bournout e stress (Jenaro, Flores, Arias, 2007). Uno degli strumenti per favorire la rielaborazione degli eventi è condividere socialmente le emozioni vissute. La condivisione sociale delle emozioni porta alle tre conseguenze di coalizione, forgiatura e coordinazione (Peter, 2007). Attraverso la condivisione si crea una coalizione e si plasma la relazione tra chi parla e chi ascolta ottenendo un miglior coordinamento delle azioni verso il destinatario. La supervisione psicologica a cadenza periodica e costante è un requisito fondamentale per la costruzione di un’équipe di clown dottori. Lo psicologo è parte dell’équipe e, pertanto, organizza incontri mensili con il gruppo di clown e, all’occorrenza, stabilisce anche degli incontri individuali. Studi esplorativi mostrano che il personale sanitario che intraprende percorsi di sostegno psicologico rivela una maggiore fiducia, uno spiccato senso di appartenenza e comprensione, sia delle proprie reazioni emotive che di quelle con cui entra in relazione. È bene che i clown dottori effettuino almeno un intervento di supervisione di gruppo al mese. Durante tale sessione è necessario che lo psicologo crei un’atmosfera rilassata e di condivisione, chiarendo il proposito e lo scopo dell’incontro e dando informazioni sulle regole di base e sul processo che si andrà ad effettuare (Corey, 2011). La finalità di una supervisione consiste nell’incoraggiare i membri a condividere i propri sentimenti, positivi o negativi, così come le emozioni, sia verso il proprio operato che verso il gruppo dei colleghi (Jenaro, Flores, Arias, 2007). È apprezzabile che lo psicologo esponga le diverse funzioni che i partecipanti hanno. Quello di ascolto, senza fornire suggerimenti o critiche; di supporto tecnico, caratterizzato dal lavoro del clown dottore durante il turno in corsia; di confronto tecnico, ovvero di consigli per migliorare il proprio operato; di supporto emotivo, basato sulla condivisione degli stessi vissuti; di confronto emotivo, secondo il quale il gruppo diventa uno strumento per guardarsi in maniera imparziale e di condivisione della realtà sociale, per riuscire a comprendere le situazioni come le vede chi parla. Queste funzioni assumono una particolare rilevanza anche alla luce del fatto che una delle cause del bournout è l’assenza di sostegno sociale. La difficoltà nel definire confini ben delineati è un fattore che può condurre a sviluppare sintomatologie e a causare bournout. Molto spesso, questi operatori si trovano la loro sfera privata invasa dal lavoro che svolgono. Per questo motivo è bene che, durante gli incontri di supervisione, i membri espongano il loro vissuto, si confrontino ed ottengano informazioni dallo psicoterapeuta e dai colleghi su come gestire al meglio la situazione. Nel corso dell’ultima decade, gli studi scientifici hanno mostrato che le persone colpite da un avvenimento emotivamente toccante, tendono a parlarne nei giorni e nelle settimane successive. Questo fenomeno, detto condivisione sociale delle emozioni, rappresenta una modalità attraverso cui le emozioni adempiono la loro funzione sociale (Dionigi, Gremigni, 2014). Numerosi studi hanno evidenziato l’efficacia positiva delle narrazioni personali sulla salute fisica e sul benessere personale (Corey, 2011). Scrivere di eventi emotivi consente di organizzare e ricordare gli eventi stessi in modo più coerente, integrando emozioni e pensieri. Ciò aiuta a strutturare meglio la propria storia e a darle significato in modo da renderne gli effetti più gestibili a livello emozionale. La regolazione delle emozioni è possibile grazie ad una riduzione dell’eccessiva attivazione, rappresentando un metodo efficace per agire sui meccanismi psicologici che contribuiscono al processo di reintegrazione. Il fine è di comunicare i propri stati d’animo facendo prevalere la funzione espressiva, di conseguenza l’attenzione si concentra sulle emozioni provate (Boedella, Liss, 1986). Per questo motivo, nella clownterapia risulta fondamentale che il clown dottore tenga un diario di bordo in cui esprimere stati d’animo, sentimenti e sensazioni di chi scrive in relazione a fatti ed esperienze di vita. La particolarità del diario è che scrivente e destinatario sono la stessa persona, chi lo elabora scrive per sé una specie di cronaca giornaliera, privata e riservata. Il diario, quindi, compilato ogni qualvolta si effettui un intervento di clowning in ambito sanitario, aiuta a narrare le esperienze emozionali accadute nel corso della giornata (Bellelli, Curci, Mastrorilli, 2004).

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