Le tecniche immaginative come strumento terapeutico: il valore dell’immagine nell’esperienza di vita


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Premessa

L’immaginazione accompagna l’uomo sin dalle prime produzioni artistiche e la distinzione odierna tra attività immaginativa ed il fantasticare si colloca nella capacità di generare per fini pratici da una parte e nell’elaborazione estetica dall’altra (Giusti, 2011).

Il concetto di “immagine” nella psicologia viene interpretato ed usato in modo estremamente differente in base all’approccio teorico con cui lo si intende, si è tuttavia d’accordo sul fatto che al di sotto dell’immagine vi sia una realtà profonda, intesa come frutto della storia interiore e del modo di stare al mondo. Dunque, la modificazione dell’immagine non si lega unicamente ad una variazione in termini simbolici, ma rappresenta una vera e propria messa in moto del soggetto verso sé stesso e verso la realtà circostante (Fabre, 2015).

La proposta dell’inserimento delle tecniche immaginative nel contesto clinico si fonda sul collegamento che si evidenzia tra mente e corpo, con la conseguente capacità dell’immaginazione di modulare ed essere influenzata dalle funzioni fisiologiche, oltre che psicologiche.

L’intero sviluppo dell’individuo sembra quindi scandito da immagini che costituiscono il percorso esistenziale, in questo senso le immagini ci definiscono ed ognuno di noi diviene portatore di immagini-chiave che definiscono il personale processo di individuazione (Widmann, 2004).

Ruolo socio-antropologico dell’immaginazione

Da sempre l’uomo trova nell’immaginario un’esperienza intensa, capace di superare la profondità di quella reale, attraverso esperienze estetiche e fenomeni allucinatori (Widmann, 2015). Nel Paleolitico, circa quaranta mila anni fa, viene sviluppata la capacità di organizzare il tempo, l’uomo comincia a costruire oggetti di utilizzo non immediato e vengono costruiti insediamenti con l’intenzione di abitarli a lungo. Inoltre, si svilupparono attività non direttamente riconducibili alla sopravvivenza: la pittura rupestre, la diversificazione e stilizzazione degli utensili, la realizzazione di ornamenti per il corpo e le nuove pratiche relative alle sepolture. I reperti rinvenuti e confrontati tra Homo Sapiens e l’uomo di Neanderthal affermano dunque una nuova capacità immaginativa. Alcuni manufatti realizzati in quell’epoca hanno all’incirca la stessa funzione degli oggetti usati dai bambini per i giochi di finzione, i quali inducono a passare dal reale all’immaginario. Dunque, l’arte rupestre ed i riti di sepoltura avevano un valore collettivo, servivano a creare un mondo immaginario e separato dal contesto fisico, seppur quest’ultimo fosse considerato e rielaborato affinché queste opere potessero acquisire valore (Harris, 2008).

In Grecia la medicina era praticata nell’asklepeion, si sono conservati molti resti dei templi-ospedali, in particolare nell’isola di Kos, a Epidauro, a Pergamo in Asia Minore, sull’isola Tiberina a Roma ed a Nora in Sardegna. Nello specifico nei siti archeologici di Nora sono ben evidenti delle piccole sale definite cubiculum che vengono ritenute “ipnosari”, ossia luoghi nei quali la cura avveniva mediante il sonno (Widmann, 2015). In tali stanze, Il letto su cui giaceva la persona era chiamato cline (da cui deriva “clinico” in italiano) e l’assistente era definito therapeutes (dal quale deriva “terapeuta”) (Hackmann et al., 2018). Aristofane racconta che il paziente fosse invitato a sdraiarsi, le luci venivano oscurate e veniva sollecitato il silenzio ed il riposo. Spesso i “pazienti” erano invitati a percorrere dei labirinti interni al tempio, durante il tragitto erano inoltre invitati a ripetere delle formule, ascoltare delle melodie, odorare incensi e bere tisane. Possiamo quindi immaginare il valore suggestivo di tali elementi, che aiutavano il soggetto a dirigere l’attenzione verso sé stesso, in un contesto capace di agevolare lo stato di rilassamento ed una condizione di alterazione della coscienza. Questo ci dice che a distanza di secoli il buio, il silenzio ed il sonno sono fattori fondamentali se si parla di immaginazione ed introspezione. Nelle stanze sopracitate i pazienti erano indotti ad uno stato di sonno (hypnos), che gli attuali ipnotisti ritengono sia in effetti un “sonno artificiale” prodotto tramite strumenti come: forme rituali, strumenti ritmici, incenso, alloro ed altre erbe. Non è da escludersi che fossero introdotte anche sostanze stupefacenti, ma delle quali non conosciamo la composizione esatta. Dunque, quel che in definitiva risulta interessante è che anche nella storia non recente esperienze immaginative rilevanti avvengono in stati modificati di coscienza (Widmann, 2015).

Le esperienze di alterazione della coscienza in altre culture si legano alla distinzione tra reale e simbolico. Ad esempio gli indiani delle Grandi Pianure, in particolare gli Sioux, con la pratica denominata “hamblecheyapi” (corrispondente alla ricerca di una visione), trasformavano l’immagine reale in immagine simbolica. Questo tipo di esperienza era ricercata in momenti cruciali della vita e l’aspetto interessante era che a compiere un ruolo fondamentale non erano le caratteristiche dell’oggetto ma quelle del soggetto ed il come questo si percepisse all’interno del fenomeno immaginativo. Questo perché nel fenomeno immaginativo e nella visione l’oggetto smette di avere valore in quanto tale, divenendo un elemento simbolico. Ogni immagine viene appresa come elemento concreto oppure come realtà simbolica ed in questo la parte attiva e soggettiva è fondamentale. Il “ricercatore” una volta ottenuta la visione dal Dio Wakan Tanka tornava nel villaggio percependosi come trasformato, spesso cambiava addirittura il proprio nome identificandosi con le qualità e l’essenza dell’immagine ricevuta, intesa come simbolo capace di plasmarne l’identità (ibidem).

Immaginazione e nuovi media

I nuovi media propongono una differenziazione tra immaginario e fantasia che prima di qualche decennio fa non esisteva, la distinzione tra immaginario ed immaginazione è legata ad una passività nel costituirsi del primo ed una attività nel vivere la seconda. I media hanno la capacità di distorcere la realtà e di restituire un’immagine confusa tra reale e costruito. Un esempio lo troviamo nella realizzazione e trasmissione delle immagini belliche dove vengono preferite immagini clamorose di esplosioni piuttosto che quelle riguardanti la sofferenza, le emozioni e la paura. L’esposizione continua e ripetuta ad informazioni molteplici comporta una sorta di anestesia e desensibilizzazione, con conseguente perdita dell’attenzione rispetto gli stimoli proposti. È noto che le immagini televisive alle quali siamo esposti abbiano la capacità di rimanere più stabilmente nella memoria rispetto a quelle autoprodotte. A tal proposito, risultano importanti le ricerche effettuate sui bambini fortemente esposti agli stimoli televisivi, i quali riportano difficoltà nell’elaborazione e nella visualizzazione di scene descritte nei brani dei libri (Widmann, 2015).

Posizioni teoriche rispetto l’immagine

Le operazioni mentali relative alle immagini mentali sono state studiate inizialmente da autori come Shepard e Metzler e proseguiti poi da Kosslyn. I primi due autori sono famosi per gli esperimenti relativi alla rotazione delle immagini mentali. La procedura prevedeva la presentazione al soggetto di figure tra loro simili nella forma, ma con diversi gradi di inclinazione. Il compito richiesto consisteva nell’effettuare una valutazione nel minor tempo possibile se le figure avessero la medesima forma prescindendo dal grado di inclinazione (Shepard; Metzler, 1971).

La teoria di Kosslyn risulta attualmente una delle più condivise e mostra come l’immagine sia da considerare in quanto “processo”, ossia come cooperazione di diversi fattori che evidenziano la singolarità di ogni individuo nel modo di immaginare e nel diverso coinvolgimento dei processi di base.

Secondo Katz le diverse capacità degli individui sono da ricondurre all’interazione tra tre fonti di conoscenza definite come: “how to knowledge”, “when to knowledge” e “self knowledge”. Il primo tipo di conoscenza riguarda la capacità di ricorrere all’uso delle immagini mentali per trovare soluzione ai diversi problemi, il secondo riguarda le credenze dei soggetti sulla possibilità di ricorrere all’impiego delle strategie immaginative, il terzo tipo fa invece riferimento ad altri fattori concorrenti alla creazione di immagini mentali, tra cui le caratteristiche di personalità dei soggetti stessi. L’elemento centrale di questo modello è il ruolo attribuito all’immaginazione cosciente, considerando l’imagery come strategia di rielaborazione dell’informazione, la cui attivazione dipende dalla tipologia dello stimolo e dalle concezioni del soggetto (Giusti, 2011).

Possiamo quindi individuare due posizioni fondamentali: la posizione strutturalista e quella funzionalista. Le teorie strutturaliste si soffermano sulle somiglianze e differenze tra le rappresentazioni mentali originate dall’esperienza percettiva e legate all’attività immaginativa. Le teorie funzionali esaminano lo scopo svolto dalla formazione e dalla manipolazione delle immagini nei compiti dove è richiesto di riconoscere oggetti a partire da descrizioni di tipo verbale.

La costruzione di una realtà interiore mediata dalle immagini si sviluppa assieme alla maturazione neuronale, sono le immagini che consentono di anticipare i comportamenti prima di metterli in atto e di creare una realtà interiore in cui i comportamenti sono anticipati mentalmente prima di essere agiti. Man mano che l’apparato neurologico cresce il bambino diviene capace non solo di creare delle immagini, ma di ricreare scene ed avvenimenti complessi. In questo senso si formano dei ricordi formati da sequenze di azioni, emozioni, intenzioni e desideri (Greenspan, 1997).

Durante lo sviluppo si afferma uno stile cognitivo peculiare che guida le persone a prediligere da una parte le rappresentazioni linguistiche o dall’altra le immagini mentali. Questo porta alla distinzione di due modelli cognitivi differenti l’uno “verbalizzatore” e l’altro “visualizzatore”. Questa definizione è stata utilizzata in ambito clinico ed educativo, attraverso l’utilizzo di questionari al fine di classificare gli individui secondo il rispettivo stile cognitivo (Di Nuovo, 2012).

Formazione delle immagini ed aspetti neurologici

Inizialmente si credeva che alla produzione ed elaborazione delle immagini mentali concorresse essenzialmente l’emisfero cerebrale destro. Tuttavia, in seguito si comprese come nel fenomeno immaginativo si assistesse ad una interrelazione di entrambi gli emisferi cerebrali. Secondo Kosslyn sulla base di ricerche svolte nel 1987, l’emisfero sinistro è deputato alla generazione di immagini che comportano relazione categoriali, mentre l’emisfero destro è specializzato in compiti sensoriali, implicati nelle abilità spaziali (come la rotazione di immagini) (Kosslyn, 1980).

Corballis, sostiene a partire dalle basi evoluzionistiche che la generazione delle immagini funziona in modo del tutto simile alla formulazione del linguaggio. Infatti, in tutte e due le condizioni si nota come un ridotto set di elementi possa essere combinato secondo regole diverse in modo da generare dei prodotti complessi. Tale componente di tipo generativo è chiamata dall’autore GAD e sarebbe sostanzialmente localizzabile nell’emisfero sinistro (Corballis, 1991). Si vede dunque come l’immaginazione sia difficilmente localizzabile in un unico emisfero e che sia più che rilevante il transfer interemisferico. Si capisce inoltre come le abilità che costituiscono l’immaginazione non siano localizzabili con precisione, seppure si ammette l’esistenza di subsistemi processuali che si riferiscono a specifiche aree e a strutture anatomiche e fisiologiche. Troviamo ad esempio collegamento relativamente al subsistema della analisi delle forme, il quale prevede una connessione tra il lobo occipitale e il lobo temporale inferiore (sistema ventrale); mentre il subsistema della analisi della posizione si riflette nel collegamento tra lobo occipitale e parietale superiore (sistema dorsale) (Di Nuovo, 2012).

Le ricerche effettuate mediante la SPECT, hanno evidenziato il coinvolgimento della regione occipitale inferiore sinistra nell’immaginazione visiva. Tuttavia, si è anche evidenziata l’esistenza di differenze individuali tra i diversi soggetti e relativamente al tipo di compito richiesto. Questo dimostra come l’emisfero destro e sinistro si attivano in modo diverso sulla base della natura delle prove e degli stimoli (De Pascalis, 1995). I lobi temporale e parietale, vengono connessi con il frontale a livello funzionale. Tale coinvolgimento del lobo frontale (posteriore ed inferiore) assume una funzione inibitoria. Ribadire questo ci fa ulteriormente comprendere come sia difficile suddividere i compiti immaginativi in singole aree cerebrali, rilevando al contempo come nei processi immaginativi interagiscano l’attenzione, la memoria, la categorizzazione e l’inibizione delle risposte contrastanti, definendo quindi l’attivazione cerebrale in modo complessivo e non parziale (Sergent, 1990).

Il ruolo delle onde μ (mu) nell’attivazione del sistema specchio: osservazione, immaginazione e comunicazione.

Gli studi classici sulle funzioni della corteccia cerebrale dei Primati, ritenevano che il flusso delle informazioni avesse un ordine preciso. Questo procederebbe dal ricevimento delle informazioni da parte delle aree posteriori della corteccia fino alle aree superiori. Una volta elaborato il percetto, questo veniva poi inviato alla corteccia motoria, nel lobo frontale, il cui compito era quello di eseguire il movimento sulla base delle informazioni sensoriali (Oliverio, 2016).

Tuttavia, i dati risalenti agli ultimi venti anni ed ottenuti dagli studi effettuati sulle scimmie, hanno fortemente messo in discussione la visione seriale dell’elaborazione corticale e riducendo il ruolo della corteccia motoria ad esecutrice del movimento. Si è scoperto infatti che la corteccia motoria si caratterizza citoarchitettonicamente dalla mancanza del quarto strato granulato (per questo viene definita corteccia granulare) e che si compone di una moltitudine di aree contenenti rappresentazioni somatotipiche complete o parziali dei movimenti. Dunque lo scopo fondamentale della corteccia motoria è quello di codificare lo scopo degli atti motori. Tale dato è stato ottenuto mediante la registrazione dei singoli neuroni effettuata in varie aree della corteccia premotoria. In tali aree, a partire dagli studi sui macachi, sono stati rintracciati e scoperti i neuroni specchio e le loro funzioni. Questi si attivano quando la scimmia esegue un atto motorio finalizzato (ad esempio l’afferrare oggetti con la mano o con la bocca) o quando osserva un’altra scimmia compiere alcune azioni. Una parte dei neuroni specchio è specializzata nell’esecuzione ed osservazione degli atti motori osservati e che sono legati ad atti motori singoli; altri invece sono aspecifici, rispondendo all’esecuzione e all’osservazione di due o più atti motori. In tal senso, proponendo una categorizzazione degli atti motori che vengono osservati, questi sono efficaci nel generare una scarica dei neuroni specchio, riproducendo in questo senso il vocabolario motorio (Fogassi, 2008).

Nei pazienti con diagnosi di disturbi dello spettro autistico si evidenzia una ipoattivazione di tale sistema a specchio. Questo non vale quando viene richiesto ai pazienti di imitare esplicitamente un movimento osservato, ma solo per alcuni tipi di azioni. I pazienti affetti da disturbi dello spettro autistico dimostrano quindi maggiore difficoltà nel comprendere le intenzioni altrui e nella comprensione dello scopo dell’azione. Questo comporta che nei soggetti con autismo ci siano problemi legati all’introiezione degli stati mentali altrui e gravi difficoltà nella lettura degli stati emozionali dell’altro, che sarebbe quindi possibile solo grazie ai neuroni specchio (Keller et al., 2011). Il sistema specchio mostra funzioni differenti: il controllo e la produzione di proprie azioni dirette verso una meta (prendere in mano una forchetta), la comprensione dello scopo e del significato delle azioni osservate (al fine di prevedere le azioni future compiute da altre persone), altre funzioni sociali (linguaggio, teoria della mente, l’empatia). I deficit sensoriali presenti nell’autismo sarebbero quindi riconducibili ad un malfunzionamento del sistema specchio e l’emergere di disfunzioni nelle fasi precoci dello sviluppo, con conseguenze a cascata. In tal senso, il deficit sociale presente nell’autismo deriverebbe da una difficoltà nella capacità di simulare le azioni degli altri “come se fossi io a farle”, determinando così una disfunzione nel comportamento sociale (ibidem). Gli studi sull’autismo risultano importanti in quanto hanno consentito la comprensione del ruolo delle onde μ, queste infatti non subiscono desincronizzazione nei soggetti autistici durante l’osservazione di compiti svolti da altri. La presenza delle onde μ è un indice elettrofisiologico importante, che indica l’attività del sistema specchio, che nei soggetti con sviluppo tipico mostra una desincronizzazione durante lo svolgimento e l’osservazione di azioni svolte da terzi (ibidem). L’imitazione è un processo che richiede la trasformazione degli stimoli visivi in piani motori. I neuroni specchio in questo processo coinvolgono prevalentemente due aree della corteccia motoria: il lobulo parietale inferiore ed il giro frontale inferiore. Questo processo è coinvolto nell’imitazione automatica ed in quella intenzionale, la prima si riferisce alla facilità con cui vengono svolti movimenti individuati nell’osservazione di movimenti simili (e la relativa difficoltà nello svolgere le medesime azioni di fronte a movimenti del tutto diversi). Nei compiti di imitazione intenzionale sarebbe invece coinvolto l’operculum frontoparietale sinistro, che si attiva sostanzialmente nei compiti di apprendimento, dove con facilità comprendiamo i movimenti o gesti da imparare, discriminandoli da quelli incidentali (ibidem).

Metabolismo muscolare e sforzo immaginato

Una capacità cognitiva peculiare degli esseri umani è quella dell’immaginare il movimento, ossia della simulazione mentale. Esiste infatti una isocronia mentale, ossia il tempo impiegato per immaginare un movimento corrisponde a quello necessario per eseguirlo. Nella preparazione sportiva ad esempio vengono impiegate abitualmente delle tecniche di rilassamento muscle-to-mind, che partono quindi da percezioni fisiche per raggiungere uno stato di tranquillità mentale e mind-to-muscle, che partono da idee mentali per raggiungere una distensione anche fisica (Widmann, 2015).

Nel grafico proposto e derivante dagli studi effettuati da Decety, risulta evidente come i tempi di camminata immaginata (x) e camminata eseguita (y) corrispondano e siano per lo più sovrapponibili (Decety et al., 1989).

Molteplici ricerche hanno evidenziato il coinvolgimento del SNS: l’immaginare il movimento infatti attiva circa le stesse aree cerebrali attivate durante l’esecuzione o l’osservazione del medesimo. Le aree coinvolte sono essenzialmente: la corteccia prefrontale, quella premotoria, l’area supplementare motoria, il giro cingolato, la corteccia parietale ed il cervelletto. In diversi studi si evidenzia anche il coinvolgimento della corteccia motoria M1, che dunque sarebbe coinvolta non solo nel ruolo esecutivo. Da questo deriva che: l’esecuzione, l’immaginazione e l’osservazione del movimento sono accomunate dalle stesse basi neuronali coinvolgendo le medesime aree cerebrali (Sgandurra, Guzzetta, Cioni, 2007).

Le cellule cerebrali non appaiono del tutto differenti da quelle muscolari, nella misura in cui queste crescono o si atrofizzano in base a quanto vengono utilizzate. L’esercizio fisico incoraggia il cervello ad un funzionamento ottimale, favorendo la moltiplicazione dei neuroni, l’infoltimento della rete neurale e così facendo, si amplificano le capacità intellettuali. Test svolti sugli animali, illustrano come durante l’esercizio fisico e specialmente nell’allenamento aerobico, le cellule nervose rilasciano proteine definite “fattori neurotrofici”. In particolare, il BDNF innesca a cascata la produzione di altre sostanze chimiche le quali promuovono la salute neuronale, dando beneficio alle funzioni cerebrali ed all’apprendimento (Ratey, 2008). L’immagine motoria risulta essere più efficace quando include le risposte fisiche che il soggetto sperimenterebbe nell’esecuzione dell’azione, contribuendo alla plasticità del sistema nervoso centrale neurale. Come è stato osservato, la plasticità funzionale che viene raggiunta con il miglioramento dell’esecuzione di una determinata sequenza motoria, può essere ottenuta anche con la ripetizione della medesima sequenza attraverso un allenamento immaginativo. Quindi, l’immaginazione motoria può attivare e rafforzare la rappresentazione mentale di un movimento e attraverso questa si prevede una corretta esecuzione effettiva dello stesso movimento (Kosslyn, Ganis, Thompson, 2001).

Rapporti tra sistema endocrino ed immaginazione

Lo studio dei neuropeptidi risulta essere importante, in quanto rappresenta un fondamentale punto di incontro tra mente ed corpo, capace quindi di spiegare la connessione psicosomatica. Questo dimostra la connessione tra sistema nervoso e sistema endocrino e che quindi i peptidi, capaci di veicolare le informazioni, sono prodotti non solo dal sistema endocrino, ma anche da quello nervoso e quello immunitario. Dunque, l’equilibrio del sistema endocrino risulta influenzato da tutte le emozioni sperimentate, in quanto ogni emozione è connessa a neurotrasmettitori capaci di stimolare direttamente il sistema nervoso inducendo differenti attività mentali. Questo richiama l’importanza dell’affiancare nella patologia ed in particolar modo nella presenza di tumori, un trattamento medico ad un sostegno di tipo psicoterapeutico. In quanto si dimostra la fondatezza e l’importanza del ristrutturare pensieri, credenze e atteggiamenti per intervenire sul miglioramento del sistema immunitario attraverso un miglioramento del piano emotivo. Se la psicoterapia ed il trattamento psicologico di certo non possono rappresentare la chiave risolutiva nelle patologie mediche gravi, risultano però un importante contributo da non sottovalutare (ibidem).

Spiegel nel 1982, in una ricerca condotta nella Stanford University, rilevò come i malati di cancro che seguono una terapia di gruppo (con l’utilizzo di visualizzazioni e l’apprendimento di tecniche autoipnotiche) riescano ad allungare la propria vita rispetto a coloro che si affidano unicamente a trattamenti di tipo medico. La ricerca durò per ben 10 anni, nel corso dei quali vennero studiate 86 donne di mezza età e con diagnosi di tumore al seno. Le donne vennero divise in due gruppi, il primo ricevette solo cure mediche, il secondo frequentava anche gruppi terapeutici settimanali, nei quali apprendevano l’autoipnosi per il controllo del dolore. Alla fine del periodo dei 10 anni, 83 donne su 86 erano decedute e le donne del secondo gruppo avevano vissuto in media 18 mesi in più delle prime. Questo risultato è molto interessante soprattutto se si evidenzia come la diffusione nel corpo della patologia sia avvenuto con le stesse modalità e tempistiche tipiche (Spiegel et al., 1982).

I primi esperimenti sulla psicoimmunologia risalgono al 1926, con i quali Metalnikov e Chorine dimostrarono l’associazione tra delle iniezioni intraperitoneale (stimolo incondizionato) e il grattamento di una parte del corpo (stimolo condizionato), l’associazione determinò la possibilità di incrementare i granulociti nell’area peritoneale soltanto con lo stimolo condizionato del grattarsi. Tali risultati non produssero effetti di rilievo nella comunità scientifica fino al 1975, quando lo psicologo americano Robert Ader in un esperimento in cui si intendeva indurre avversione per la saccarina, dopo aver fatto bere dell’acqua dolcificata ad un gruppo di topi, gli somministrò del ciclofosfamide (farmaco che induce senso di nausea). Una mono-somministrazione era generalmente utile allo scopo, tuttavia nel corso dell’esperimento molte delle cavie morirono senza una apparente ragione. Solo in seguito l’autore constatò che il ciclofosfamide è un farmaco immunosoppressore e che nei topi l’assunzione di saccarina si associasse oltra che alla nausea anche ad una depressione del sistema immunitario (Ader, Choen, 1975).

È ormai accettato che la mente funga da modulatore, esaltatore e depressore rispetto la risposta immunitaria. Sin dagli anni ’60 viene dimostrato come le immagini e le emozioni possono far aumentare o diminuire il numero di globuli bianchi, la quantità e qualità degli ormoni adrenergici, degli enzimi, degli elettroliti e dei neurotrasmettitori, tanto da parlare di “immunizzazione suggestiva”. La psiconeuroimmunologia dimostra dunque come le situazione intense di stress risvegliano intense emozioni (paura, rabbia, frustrazione, senso di impotenza) che trasmettendosi nelle reti neurotrasmettitoriali ormonali, riescono ad indebolire lo stato di salute. Nel corpo umano si evidenziano tre sistemi fondamentali con i quali si veicolano le emozioni sul piano fisico e sono: il sistema endocrino (trasmette gli ormoni), il sistema nervoso (collegato direttamente ai globuli bianchi) e la famiglia dei neuropeptidi (neurotrasmettitori con particolari fattori di crescita) che influenzano l’attività cellulare e il funzionamento genetico. Tutte le cellule impiegate nella difesa immunitaria (cellule killer, macrofagi, linfociti T e B) comunicano tra di loro e con il SNC attraverso un sistema di feedback circolare retroattivo. Tali cellule interagiscono quindi continuamente con il sistema nervoso ed il sistema endocrino, in modo tale che non ci sia modificazione sul piano immunitario che non influenzi anche gli altri due sistemi e viceversa. I linfociti infatti posseggono recettori per i neurotrasmettitori del sistema nervoso autonomo in modo tale che ogni variazione del sistema simpatico e parasimpatico produce effetti sulle cellule immunitarie stesse che vengono stimolate in diversa misura (Giusti, 2011).

Interconnessioni tra personalità, uso dell’immaginazione e risposta immunitaria

Autori come Moss e Solomon, hanno rilevato in pazienti femmine e con artrite reumatoide dei tratti più forti di masochismo, arrendevolezza, depressione e sottomissione. I parenti fisicamente sani con il fattore reumatoide presente in siero, che può dare quindi una predisposizione alla malattia sono psicologicamente più adatti e sani rispetto a quelli privati di questo anti-autoanticorpo (Solomon, Moss, 1965). Ulteriori studi trattano invece la correlazione tra alessitimia, difficoltà nell’espressione emotiva e velocità di sviluppo del cancro (Levy, 1983). Nelle patologie mentali ed in particolare nella schizofrenia, si rilevano disfunzioni immunitarie che includono alterazioni di natura quantitativa e qualitativa dipendente dalle immunoglobuline, una depressione immunitaria ed una maggiore rilevanza del livello degli autoanticorpi. A questo si aggiunge una disfunzione dei linfociti in alcuni pazienti schizofrenici, tale che le cellule assumono le sembianze di linfociti T attivati, del tutto simili a quelli rilevati nelle malattie autoimmuni (Higashi et al., 1982). Una ricerca svolta all’Università di Nottingham nella facoltà di medicina, vuole dimostrare che le personalità estroverse hanno più probabilità di avere un sistema immunitario forte rispetto a chi è socialmente più cauto. Il team ha condotto l’esperimento su 121 adulti sani (dei quali 86 femmine e 35 maschi) e di età compresa tra 18 ed i 59 anni. Ai soggetti venne somministrato un questionario in cui si misuravano le cinque dimensioni fondamentali della personalità (estroversione, nevrosi, apertura, piacevolezza e coscienziosità). Ai soggetti sono stati inoltre richiesti dei campioni di sangue ed i ricercatori hanno usato una particolare tecnologia definita microarray per analizzare moltissimi geni all’interno del DNA. Questo ha permesso di valutare il legame tra i cinque tratti di personalità descritti e l’attività genica nelle cellule del sistema immunitario. I risultati della sperimentazione rilevano che i soggetti con alti punteggi nell’estroversione dimostravano anche una espressione di geni pro-infiammatori, mentre le personalità con indice di coscienziosità maggiore avevano una ridotta espressione di questi geni. La risposta infiammatoria in quanto meccanismo difensivo dimostrava quindi un buon funzionamento del sistema immunitario. I risultati di questo esperimento furono correlati anche a comportamenti come l’attività fisica, il fumare, il bere e la sperimentazione di emozioni “negative” non riportando alcuna correlazione (Vedhara et al., 2014). A livello cerebrale, si induce una condizione di infiammazione caratterizzata da sintomi come la mancanza di appetito, cefalea, l’astenia, la depressione, la sonnolenza, l’iperalgesia e la febbre. Sintomi che solitamente insorgono in seguito a stress cronici e/o infezioni. Questo ci ribadisce nuovamente la stretta relazione esistente tra mente e corpo e le possibili conseguenze negative che una sindrome depressiva può manifestare sul sistema immunitario e viceversa, una alterazione del sistema immunitario (con conseguente cronicizzazione dello stato infiammatorio) favorisce l’insorgere di stati depressivi, ansia e disturbi cognitivi (Olivieri, 2019).

Canali fisiologici per il rilassamento

In una visione di tipo psicosomatica, possiamo pensare all’organismo come dotato sia di risposte di attivazione (lotta e fuga, stress, ansia), che di risposte e meccanismi endogeni opposti “antistress” e che si attivano secondo le necessità. Questi sarebbero in grado di controllare e modulare gli stati interni per adattare in ogni momento l’individuo alle richieste dell’ambiente. Così possiamo riconoscere nella normale storia dell’adattamento individuale fasi alternate di attivazione e sollecitazione sotto stress a relativi momenti di rilassamento e distensione in fasi successive. Un esempio concreto si rintraccia quando si assiste al cosiddetto “sospiro di sollievo” dopo uno stato di paura o spavento. Questo può essere un esempio in miniatura di quanto affrontato sinora. Analizzando il tracciato psicofisiologico si mostra una modulazione ortosimpatica e parasimpatica con registrazione di un’aritmia sinusale nel tracciato dell’elettrocardiogramma (ECG), un lieve rallentamento della frequenza cardiaca nella fase di espirazione, una momentanea riduzione della tensione muscolare, una dilatazione vascolare periferica, una riduzione delle frequenze rapide dell’elettroencefalogramma, a cui possono essere associati un lieve senso di distensione psichica ed un lieve aumento del senso di autocontrollo (Andreassi, 1980). Gli stati mentali avviati nel corso del rilassamento si legano a modificazioni psicofisiologiche collegate a loro volta ad effetti benefici relativamente a diversi disturbi sia somatici, che mentali. Per favorire l’autocontrollo, la riduzione dell’ansia, l’aumento di distacco con l’ambiente ed il potenziamento dell’autoconsapevolezza viene insegnato in particolar modo la concentrazione sugli stati interni, sul qui ed ora e sull’uso del respiro. Dunque, le tecniche di rilassamento utilizzano delle riposte naturali dell’organismo, prodotte in fasi di distensione, riposo e attivazione; utilizzando in altri termini i meccanismi di tipo neurovegetativo, muscolare, endocrino e comportamentale (Arias et al., 2006).

Ruolo clinico-applicativo dell’immaginazione

Il ruolo applicativo delle immagini mentali è stato un argomento di dibattito già dalle origini della psicologia. Sin dai primi passi di tale disciplina, l’introspezione venne proposta come strumento dominante per l’indagine psichica, definendo come le immagini fossero la componente principale della mente. Wilhelm Wundt ritenne l’immagine mentale tanto importante da ergerla come componente fondante di tutto il pensiero. A contestare questa opinione fu William James, il quale definì le immagini come alla base dei pensieri concreti, ponendo in risalto l’importanza della parola come modalità espressiva del pensiero astratto (Risoli, Antonietti, 2015).

Le evidenze a favore dell’esistenza di rappresentazioni interne (sotto la forma di immagini) prendono spunto dagli studi di Paivio, il quale definì come le parole differiscono di intensità e valore sulla base di quanto siano capaci di evocare delle immagini. Ulteriori evidenze empiriche si legano al progresso tecnologico ed all’uso del neuroimaging, mettendo d’accordo tutte le aree della psicologia sulla legittimità del costrutto “immagine mentale” ed il ruolo di questo nella complessità dell’attività psichica (ibidem).

Pressoché tutte le terapie che fanno uso di immaginazione convergono ad oggi sull’importanza del carattere realistico delle immagini. Le immagini utilizzate sono quindi tridimensionali, multi sensoriali, dinamiche, mutabili ed emozionali. Le terapie immaginative sfruttano le esperienze immaginali, per esempio l’ipnosi crea pseudo-allucinazione ipnotiche, la terapia cognitiva ricerca situazione che coinvolgano emotivamente e nella RED si realizza uno scenario immaginativo realistico. Nello scenario immaginativo opera quindi un io-corporeo-immaginario che vive esperienze sensoriali complete (ibidem).

Le psicoterapie possono quindi essere distinte fondamentalmente in psicoterapie “parlate” e psicoterapie “psicofisiche”. Le psicoterapie parlate si occupano principalmente della neocorteccia, della memoria fredda, della lingua, partono dal racconto per poi arrivare ad associazioni emotive, a memorie calde ed integrano le parti con un percorso top-down. Le psicoterapie di tipo “psicofisico” partono dalla registrazione dei cinque sensi (odori, gusti, suoni ed immagini), i sensi vengono usati come strumento per attivare memorie e poi modificarle, influenzarle o integrarle rispetto le memorie esplicite con riflessi conseguenti sul mondo emotivo e comportamentale. In questo senso si procede con un approccio bottom-up e delineando un numero di approcci molteplice che ha in comune il partire dal corpo (Hinnenthal et al., 2013).

In ogni soggetto il rapporto tra le immagini costruisce un dinamismo proprio e si arricchisce a partire dai desideri e dalla storia interiore. L’evoluzione dell’immagine non si lega solo ad una crescita rispetto una funzione simbolica e di natura proiettiva, vi è infatti una messa in moto totale del soggetto, che manifesta i propri moti interiori (Fabre, 2015).

Rassegna delle principali tecniche mente corpo

Jacobson nel 1938 basandosi sugli studi sul sussulto nervoso ipotizzò la presenza di una relazione tra gli stimoli emotivi ed il grado di tensione muscolare. Propose quindi il rilassamento muscolare progressivo con l’obiettivo di ridurre la tensione muscolare del soggetto a riposo. Eliminare la tensione residua vuole dire permettere al soggetto di utilizzare i momenti di riposo come momenti di intenso recupero energetico. Il metodo proposto consiste nel contrarre e rilassare in modo alternato i diversi gruppi muscolari fin quando non si ottiene il grado di rilassamento muscolare desiderato. Le fasi che compongono il metodo sono diverse e definite. Innanzitutto ci si allena a percepire la tensione e la distensione dei muscoli, quindi ci si esercita nel percepire le sensazioni che i muscoli danno quando non sono né distesi e né contratti, infine ci si allena a percepire la presenza di tensione e distensione mentale (Bertolotti, 2014). Si intuisce come la pratica del rilassamento richieda l’esecuzione di esercizi sistematici, il metodo proposto è stato usato con successo per ridurre la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Questo fu solo uno dei metodi più usati, ad oggi esistono molteplici tecniche di rilassamento che accompagnano l’efficacia ad un minor impegno in termini di esercizio e pratica quotidiana. La pratica del rilassamento rileva una particolare funzionalità in legame al tentativo volontario di ridurre la tensione muscolare (Dayhoff, 2002).

Un’ulteriore tecnica importante da citare è il training autogeno, partendo dal termine si capisce come si faccia riferimento ad un “training” ossia un allenamento, mentre “autogeno” sta ad indicare un fenomeno autoprodotto. Infatti, il soggetto genera il comportamento con l’allenamento ed in questo modo si stimola attivamente e diviene indipendente rispetto al proprio terapeuta (Goldwurm, Sacchi, Scarlato, 1986). La tecnica in questione venne proposta da Shultz a partire dagli inizi del 1900 e consiste in un programma sistematico grazie al quale insegnare alla mente ed al corpo a rispondere a comandi verbali utili a ridurre l’attivazione corporea. Per ottenere questo vengono indotte alcune sensazioni fisiche. Le osservazioni di Schultz si originano dall’uso dell’ ipnosi, durante la quale l’autore notò che allo stabilizzarsi della induzione ipnotica seguivano un effetto di pesantezza e di calore. La pesantezza appare come esperienza di rilassamento muscolare, il calore come manifestazione della vasodilatazione periferica (ibidem). Tali studi portarono alla formulazione del training autogeno come un insieme di esercizi fisiologici e non, studiati per deconnettere l’organismo come per l’ipnosi e permettere la realizzazione degli stati propri della suggestione. Potremmo pensare il training autogeno come una forma autoipnotica provocata a partire da modificazioni volontarie del tono muscolare, insieme ad una concentrazione della coscienza e dell’immaginazione su precise cenestesie (De Bousingen, 1980). Dunque, il training autogeno consente di sovrapporre le caratteristiche di un corpo rilassato a quelle di un corpo teso ed un aspetto centrale in questa tecnica è nel dare suggestioni e lasciare che il corpo risponda escludendo così un controllo cosciente, permettendo la percezione di sensazioni di calore e pesantezza (Dayhoff, 2002).

L’uso del respiro e della respirazione addominale risulta fondamentale perché semplice da imparare e da attuare, il suo utilizzo riduce l’attivazione in qualunque situazione di stress o tensione muscolare. Il respiro si lega enormemente allo stato di attivazione, l’essere tesi si connette a un respiro rapido e corto, che coinvolge solo la parte superiore dei polmoni. Il respirare nel modo descritto riduce l’apporto di ossigeno al cervello ed ai muscoli e stimola il sistema nervoso simpatico (il quale si associa all’anticipazione del pericolo). La respirazione è centrale in quanto è controllata solo in parte dal sistema nervoso autonomo e può essere modificata, in una certa misura, anche coscientemente (ibidem).

La meditazione è un’ulteriore tecnica che prevede l’ottenimento di uno stato di rilassamento a partire dalla concentrazione rispetto uno stimolo interno. Questa tecnica si lega a metodi fisici e cognitivi e si fonda sulla amministrazione delle proprie funzioni mentali, riducendo il consumo di ossigeno ed aumentando la conduzione cutanea e le onde cerebrali alfa. Nello stato di quiete descritto, i muscoli si rilassano, la mente si libera ed è creativa, l’ansia diminuisce ed aumenta il senso di controllo interiore. La meditazione è una pratica che richiede una certa costanza nella quotidianità, il trovare un posto tranquillo e la ripetizione di un suono o di una parola sulla quale si concentra la propria attenzione (definito come “mantra”) (ibidem).

La visualizzazione si presenta come una tecnica particolarmente utile per rilassare la mente e spesso si abbina ad altre tecniche di rilassamento corporeo. La visualizzazione può prevedere l’immaginazione una scena tranquilla e confortevole sotto la forma di luogo reale o immaginario. La descrizione del luogo è quanto più possibile dettagliata in modo tale da rendere l’immagine vivida e coinvolgente. Si presta particolare attenzione al quanto ci si senta a proprio agio nel luogo immaginato, in quanto questo costituirà un ambiente nel quale poter entrare ogni qual volta si desideri ottenere uno stato di rilassamento. Questo metodo può essere considerato una estensione del rilassamento e come per gli altri metodi di rilassamento andrebbe svolta di frequente, prima e dopo una situazione ansiogena (ibidem). L’utilizzo della visualizzazione creativa può verificarsi secondo due principali modalità: visualizzazione attiva o passiva. Nella prima l’individuo sceglie in modo conscio cosa desidera immaginare, nella seconda si limita a rilassarsi lasciando che le immagini e le impressioni affiorino alla mente. Affinché tale tecnica si realizzi in modo efficace è necessario che sia stabilito un obiettivo sul quale lavorare, creare un’idea o una immagine chiara, concentrarsi frequentemente su questa e legare all’idea o immagine delle affermazioni positive corrispondenti. Nell’imparare ad utilizzare l’immaginazione creativa è necessario raggiungere un livello di rilassamento profondo, in cui la visualizzazione può essere usata con maggiore elasticità, agevolando il processo di cambiamento personale. Tale tecnica si basa sull’assunto per cui ognuno di noi costruisce un’immagine anticipata dell’atto futuro e lo facciamo a partire dalle esperienze sensoriali vissute. Per tanto, il sentimento di riuscita o fallimento avvertito durante la visualizzazione è determinante ai fini dell’azione che vogliamo compiere (Gawain, 1994). Dunque, nell’ambito della psicosomatica le tecniche mente-corpo trovano un grande spazio di impiego. L’applicazione di tali tecniche tiene conto di aspetti storici e culturali che caratterizzano l’uomo odierno. Infatti, i disturbi più frequentemente riscontrati e trattati sono inerenti alla stanchezza ed a dolori di diversa tipologia. In tal senso i disturbi psicosomatici si legano ad un contesto socio-culturale differente (a fine ottocento i disturbi psicosomatici si riferivano ad una eccessiva intimità nel dramma familiare, oggi si assiste al fenomeno opposto: la frantumazione dei legami personali e la carenza di intimità). Tale contesto spinge le persone a ricercare sempre più le attribuzioni dei propri malesseri da moti interiori a difficoltà esterne, dando maggior risalto ai segnali corporei (Zacchetti, Castelnuovo, 2014). Un obiettivo rilevante rispetto l’applicazione delle tecniche mente corpo ad oggi consiste proprio nel focus sull’attiva percezione delle proprie modificazioni psicofisiche (ibidem).

Applicazioni nella terapia cognitivo comportamentale:

Meichenbaum nel 1978 affermava che le terapie cognitive, che fanno uso di tecniche immaginative, possono contribuire al cambiamento in quanto il cliente apprende ad usare le immagini e questo potenzia in esso il senso di autocontrollo e di adeguatezza rispetto le proprie emozioni e relazioni. Il cliente impara ad attribuire un senso ai propri comportamenti non funzionali e ottiene questo sperimentandosi ed apprendendo strategie di coping adattive (Singer, Singer, 1995).

I modelli psicoterapici inspirati all’approccio della CBT odierna prendono in considerazione le immagini mentali come elementi mediatori e co-attori nella produzione delle risposte comportamentali. Questo tiene conto della capacità dell’uomo di trasformare l’evento vissuto in immagine oltre che in pensiero. Storicamente l’impiego di immagini mentali ai fini della terapia risale all’uso della desensibilizzazione sistematica e questo ha permesso di applicare le tecniche basate sull’immagine non solo agli eventi overt (direttamente osservabili), ma anche a quelli covert (non direttamente osservabili) (Giusti, 2011). Una delle tecniche più famose è la desensibilizzazione sistematica, nella quale vengono individuate diverse situazione ansiogene e vengono stabilite in forma gerarchica a seconda del grado di ansia che queste determinano. Il paziente, guidato dal terapeuta le visualizza partendo da quelle legate ad un livello ansiogeno inferiore. Il primo passo consiste nel visualizzare una scena neutra, al fine di constatare il livello d’ansia del paziente e di insegnare la visualizzazione durante il rilassamento. Le scene con carica ansiogena vengono visualizzate ed intervallate con il rilassamento, procedendo così per gradi. L’immaginazione che viene richiesta è vivida e partecipe, dunque è importante che il paziente impari a comunicare eventuali stati di disagio eccessivi (Ibidem). Tra le tecniche maggiormente impiegate nell’acquisizione degli obiettivi citati troviamo la REI (Rational Emotive Imagery), con la quale il terapeuta aiuta il paziente ad integrare aspetti emotivi nelle nuove interpretazioni cognitive elaborate. La REI può quindi mirare al cambiamento delle “emozioni negative” oppure lavorare sull’abbinamento delle emozioni con nuove cognizioni elaborate antecedentemente. In entrambi i casi le tecniche vengono fatte seguire ad una prima breve fase di rilassamento e vengono affidate come home-work da svolgere a casa (Kirchlechner, 2008). Un’ulteriore tecnica proposta è la IRRT (imagery rescripting and reprocessing-therapy), tale tecnica prevede l’uso dell’immaginazione guidata per creare dei decorsi differenti rispetto l’esperienza vissuta. Questa tecnica è quindi utile a relazionarsi diversamente con il proprio vissuto, facilitando le abilità di rilettura dell’evento secondo le capacità mentali ed emotive del presente. L’EMDR è un metodo clinico ideato da Francine Shapiro nel 1987, sulla base di osservazioni ciniche e scientifiche su pazienti con diagnosi di PTSD. La tecnica prevede il raggiungimento di una desensibilizzazione attraverso una “elaborazione accelerata” del ricordo, la quale è stimolata da movimenti oculari ritmici e ottenuta seguendo i movimenti della mano del terapeuta. L’EMDR è costituita da otto fasi che si definiscono nella forma di: anamnesi e pianificazione, preparazione, assessment, desensibilizzazione, installazione, scansione corporea, chiusura e rivalutazione. In questo senso i ricordi vengono rivissuti nel dettaglio, comprendendo tutto il livello percettivo sottostante e dando spazio non solo al livello visivo, ma a quello uditivo, olfattivo, tattile, cognitivo ed emotivo (Shapiro, 2000). Un’ulteriore tecnica che occorre citare è la Mindfulness, che in alcune sue parti può essere assimilata alle tecniche immaginative in senso stretto. Questa è sostanzialmente una tecnica meditativa che prevede l’utilizzo dell’attenzione in modo auto-regolato e l’orientamento verso l’esperienza. Tale tecnica propone quindi l’accettazione della realtà, la curiosità verso tutti i pensieri, le emozioni e le sensazioni sperimentati, la pazienza e l’assenza di sforzo. Questi elementi contribuiscono affinché il paziente sperimenti la possibilità di porre attenzione a tutte le sensazioni somatiche, l’ottenimento di una accettazione e di un decentramento, l’aiutare il paziente a relazionarsi diversamente con la sofferenza (Kirchlechner, 2008).

Applicazioni nella psicoterapia dinamica:

Le immagini, sono quindi lo strumento che permette di costruire nuove metafore, capaci di aiutare il paziente nel riorganizzare la propria vita in modo sereno (Giusti, 2011). Le immagini mentali sono fortemente sollecitate in ambito psicodinamico sin dalla fase psicodiagnostica, il paziente viene quindi abituato o riabituato alla costruzione fluida delle immagini, le quali solitamente vengono racchiuse nel codice verbale e dunque razionalizzate o intellettualizzate (ibidem). Gli strumenti psicodiagnostici impiegati in ambito psicodinamico utilizzano stimoli per comprendere il modo in cui il paziente costruisce le proprie metafore e questo guida la relazione terapeutica alla comprensione del blocco e del conseguente malessere sperimentato. Le tecniche di immaginazione guidata proposte in ambito europeo dimostrano quanto e come l’immaginazione sia in grado di identificare e rilevare le resistenze, le tendenze all’evitamento, i meccanismi di difesa, le credenze ed i miti familiari (Singer, Singer, 1995). Tra le principali tecniche immaginative negli approcci psicodinamici troviamo la R.E.D. (Rêve Eveillé Dirigé), la quale si presenta come metodo post-freudiano di analisi della produzione e rappresentazione immaginativa. Il metodo fu elaborato da Robert Desoille e prevede tre momenti fondamentali: il primo riguarda al produzione dello scenario immaginativo, il paziente viene posto in una condizione di minima attenzione, il terapeuta propone quindi uno stimolo immaginativo egosintonico intuitivo capace di far emerge catene immaginative. Il secondo passo consiste in una analisi comparata dell’immaginario, consistente nell’elaborazione dei contenuti evidenti emersi nella procedura immaginativa. Il terzo punto riguarda invece l’analisi comparata della realtà che ha scopo di responsabilizzare il paziente rispetto i suoi progetti, basati anche sui contenuti adattivi e cognitivi emersi dall’immaginario. La tecnica immaginativa proposta è guidata in stato di rilassamento, viene quindi richiesto al paziente di accettare le forme spontanee delle immagini, astenendosi dal giudicarle. Le immagini proposte dal terapeuta hanno quindi un alto contenuto simbolico ed evocativo, guidano quindi il paziente ad incontrare ed elaborare temi fondamentali della propria vita (Passerini, De Palma, 2012). La tecnica immaginativa di analisi del profondo (ITP) teorizzata da Leopoldo Rigo prevede l’analisi delle fasi oniriche. Una prima fase riguarda l’elaborazione del conflitto ed opera sul parziale controllo delle figure antagoniste e si conforma come una tendenza all’autocura. La prima fase è quindi definita ristrutturante, la seconda è conflittuale e la terza è definita archetipica. Tale tecnica parte dal rilassamento e procede in modo simile alla R.E.D., dalla quale definisce per alcune metodologie (come l’abbandono delle suggestioni di salita e discesa). Vengono quindi utilizzate immagini di un sogno o di una seduta per sviluppare un tema e non si impiegano dei motivi diagnostici predefiniti (Rigo, 2020).

L’utilizzo delle tecniche immaginative nella pratica ipnoterapica

Nella pratica ipnoterapica si fa uso della suggestione, la quale viene definita come un processo di natura inconscia in cui avviene un distacco con la realtà obiettiva e la conseguente sospensione della facoltà di critica. Possiamo distinguere l’ipnoterapia in due fasi precise, una prima riguarda l’induzione per ottenere un livello di coscienza desiderato ed una seconda propriamente terapeutica in cui poter vivere determinati eventi (Giusti, 2011). La psicoterapia ipnotica condivide delle fasi del processo di cura con gli altri approcci psicoterapeutici. Innanzitutto il terapeuta ed il paziente iniziano un processo relazionale e di comunicazione, si impegnano quindi in una forma di lavoro terapeutico, dispongono poi di criteri per la soluzione del problema e che consentono di definire quando interrompere l’interazione. Per l’ipnosi terapeutica può quindi esser definito un primo stadio consistente nella percezione di segnali di disponibilità al lavoro interno. In questo stadio il terapeuta chiede al paziente di esaminare in modo retrospettivo la storia del proprio problema, iniziando l’attività di ristrutturazione spontanea della memoria. Il terapeuta aiuta il paziente a riconoscere la sua mente “interna” come “inconscio creativo”, aiutando il paziente a percepirsi nella propria attività ri-elaborativa rispetto la soluzione del problema. Si aiuta quindi lo spostamento da processi di tipo razionale e deduttivo a quelli di tipo olistico propri dell’emisfero destro, costruendo associazioni a livello limbico-ipotalamico di trasduzione mente-corpo dell’informazione (ibidem). Il secondo stadio riguarda l’accesso alle risorse legate allo stato, alternando lavori autonomi del paziente con gli stimoli del terapeuta. Vengono dunque depotenziati i quadri di riferimenti abituali che nella fase cosciente sostengono il problema, favorendo una elaborazione primitiva, autonoma e che avvia verso una soluzione creativa del problema. Il terzo stadio è definibile invece come “ratifica della soluzione del problema”, viene quindi ratificata la soluzione del problema e ci si avvia verso la conclusione della seduta terapeutica. (ibidem) Quindi la riapertura degli occhi, la riacquisizione di tutte le facoltà proprie della veglia costituiscono il termine del lavoro terapeutico. Il distacco percepito dal cliente durante la seduta viene quindi ritenuto utile all’efficacia del lavoro interno, come elemento capace di evidenziare l’accesso al profondo, tramite fenomeni stato-dipendenti che possono essere ristrutturati ai fini di un cambiamento terapeutico. L’ipnosi ericksoniana o “nuova ipnosi” si basa sulla concezione della trance ipnotica come esperienza naturale e fisiologica per la nostra mente e definita come “common everyday trance”. L’elemento cardine della terapia è quindi l’amplificazione delle capacità mentali e l’uso della trance come fenomeno naturale normalmente funzionante quando siamo estremamente concentrati su attività che impegnano tutta la nostra attenzione. Fenomeni come l’analgesia, la generazione di allucinazioni positive o negative, la variazione nella percezione del tempo e la catalessia sono infatti eventi naturali che in situazioni particolari possono verificarsi spontaneamente. Si capisce quindi come nulla di quel che viene generato nel corso delle sedute di ipnosi non è già presente naturalmente nella persona guidata allo stato di trance (Erickson, 1978).

La ridecisione di copione nell’Analisi Transazionale come fenomeno immaginativo

La ridecisione di copione è una tecnica che concede un ruolo importante all’immaginazione, mostrando la sua utilità nella situazione in cui il paziente si accorge di una inadeguatezza del copione attuale. Tale tecnica prevede innanzitutto l’individuazione del vissuto emotivo percepito come “non adeguato” (che può essere eccessivo nella sua intensità, nella sua durata o nella natura dell’emozione), poi viene proposta una progressiva regressione (anche tramite la creazione di un ponte emozionale) ed il raggiungimento finale del ricordo più antico in cui si registra quel vissuto. Dopo questo avviene una scissione dello stato dell’Io in Genitore, Adulto e Bambino (nell’ambito di una riattualizzazione immaginativa della situazione arcaica), permettendo al paziente di rivedere la decisione esistenziale presa nell’allora come ricontrattabile nel qui ed ora e negli strumenti che l’Adulto sperimenta in quell’esperienza (Giusti, 2011). Nel lavoro sulla ridecisione, cliente e terapeuta si pongono su una scena in modo simile ad una rappresentazione teatrale. La scena può essere presente, recente, la scena originaria, una scena immaginaria oppure una combinazione tra queste. La scena presente fa riferimento a quella che si sta attuando nella stanza di terapia, si assiste quindi ad un largo uso del “presente” in particolare con i clienti che lamentano sintomi di ordine somatico, facendo soffermare il cliente mentre è in contatto con il sintomo. Per molti clienti risulta agevole lavorare sulle scena originaria, perché in queste sono bambini e non devono quindi sforzarsi di accedere ad uno stato dell’Io Bambino. Inoltre, la scelta di ridecisione è vissuta al massimo della sua potenza quando i protagonisti sono le persone della ingiunzione originaria. Una scena immaginaria è una scena non accaduta e che non potrebbe accadere. Vengono quindi utilizzate le parti in gioco della scena per superare il blocco e ridecidere il copione (Goulding, Goulding, 1983).

Le immagini nella Terapia della Gestalt

La terapia gestaltica impiega le immagini mentali soprattutto mediante la drammatizzazione, con il fine di acquisire responsabilità personale superando fissazioni e regressioni e ricondizionando il comportamento personale. Questo consente una riacquisizione del potere personale nella riorganizzazione dei propri valori per giungere poi all’acquisizione della responsabilità. L’uso delle tecniche immaginative è contestualizzato solitamente nella Terapia della Gestalt all’interno di un setting di gruppo con lavoro individuale. In tale contesto diviene fondamentale la consapevolezza (considerata elemento curativo di per sé) del qui ed ora. Dove l’essere consapevoli si esplica nell’avere una percezione diretta, attenta e puntuale dell’hic et nunc. L’immaginazione ha quindi il ruolo fondamentale di trasferire nel presente elementi del passato e del futuro, ancorandoli in questo senso alla concretezza ed alla consapevolezza del presente (Widmann, 2015).

Le tecniche immaginative sono quindi utili per sperimentarsi e fare esperienza diretta, può essere d’esempio rispetto quanto citato l’uso della drammatizzazione. In questo senso non risulta sufficiente il ricordo, si deve ritornare psicodrammaticamente all’evento passato. Occorre quindi rievocare i ricordi, le azioni, gli atteggiamenti e farlo in forma drammatica. A questo scopo risulta utile il gruppo, passando così da una drammatizzazione individuale ad una gruppale, dove diversi attori mettono in scena i frammenti della storia personale (Perls, 1980). Nella terapia della Gestalt le tecniche immaginative vengono in particolar modo applicate al sogno, nel quale tutte le componenti vengono affrontate come parti della personalità. Nella psicoterapia è possibile quindi riappropriarsi di queste parti proiettate e frammentate, cogliendo il potenziale nascosto dietro il sogno. L’ambiente onirico diviene quindi una mappa attiva in cui la persona può sperimentarsi, rendendo vivide le emozioni e presenti i vissuti. Nel caso in cui il sogno presenti più elementi, il soggetto è invitato a immedesimarsi strada facendo in tutti questi. Così facendo, si dà vita ad un role-playng con un ricchissimo scenario di informazioni e suggerimenti, provenienti dal corpo, dalla postura, dalla voce e dalle manifestazioni emotive (Giusti, 2011). Un’ulteriore tecnica immaginativa ed esperienziale consiste nella “sedia vuota”, l’uso della drammatizzazione si coglie nel dialogo con un’altra persona immaginata e presente sulla sedia vuota oppure con delle parti psichiche di sé. In tale processo, il paziente è invitato a comunicare in modo diretto, con linguaggio responsabile, esplicito ed usando il presente (ibidem). Il “rovesciamento” è invece una tecnica nella quale si prevede che il paziente con l’ausilio dell’immaginazione esplori esperienze differenti da quelle abituali. Questo esercizio immaginativo è utile per constatare la presenza di polarità dinamiche della propria personalità e integrarle quando possibile (ibidem).

Conclusioni:

In questo articolo si legge l’interessante conformazione del fenomeno immaginativo. Il quale si dimostra lungo la storia evolutiva dell’uomo e assume diverse forme sulla base delle manifestazioni culturali e sociali a cui si lega.

Valutare quindi l’esperienza immaginata in un’ottica macroscopica e storica permette di comprendere l’unicità e l’applicabilità del fenomeno immaginativo nel contesto clinico, specificando lo stretto contatto esistente tra fenomeno individuale e collettivo.

Gli studi e gli esperimenti in ambito neurologico chiariscono la centralità del fenomeno immaginativo, che si pone come strumento importante nel dialogo mente-corpo, interagendo con i diversi sistemi fisiologici, modulando il sistema immunitario e attivando risorse psichiche importanti. Il legame tra esperienza immaginata e reale dimostra l’utilità clinica delle tecniche immaginative, come collante tra quotidianità e setting terapeutico e come possibilità di lavorare su sistemi psichici complessi partendo da elementi simbolici interiorizzati in forma immaginativa.

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