Il Training autogeno: una tecnica di rilassamento per prevenire la risposta da stress nell’ottica dell’approccio mente-corpo

TA e stress

 

 

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Il presente studio pilota, svolto nell’ottica dell’approccio mente-corpo e della psicosomatica, esamina la relazione tra l’esercizio del Training Autogeno, teso a sollecitare la risposta di rilassamento, e la conseguente riduzione della risposta da stress, misurata ed osservata nell’incremento della consapevolezza e del controllo sugli eventi di vita percepiti stressanti, in un campione di studenti universitari di psicologia. È stato ipotizzato un cambiamento nella percezione degli eventi stressanti nel gruppo sperimentale, al termine delle otto settimane di Training Autogeno; precisamente, ci si aspettava una diminuzione del punteggio ottenuto nel Perceived Stress Scale (PSS-10) dopo aver praticato gli esercizi del training, a differenza del gruppo di controllo che non è stato sottoposto a nessun tipo di trattamento. La scoperta fondamentale è stata che il gruppo sperimentale, partendo da un punteggio elevato nella percezione dello stress prima delle sessioni di Training Autogeno (M=21), ha rilevato una riduzione nella percezione dello stress al termine delle sessioni (M=16.5), a differenza del gruppo di controllo che nel pre-test ha registrato un punteggio più basso nella percezione dello stress, ma ha mostrato, a seguito del post-test, un notevole aumento della percezione dello stress o, in alcuni casi nessun cambiamento.

 

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Il fine di questo studio è quello di analizzare il nesso esistente tra il funzionamento psichico e quello somatico che si rende particolarmente evidente quando l’individuo è sottoposto ad una condizione di stress. Questo aiuterà a comprendere meglio il significato e il funzionamento del training autogeno di Schultz (1999) nella prevenzione della risposta da stress a lungo termine e delle malattie psicosomatiche ad essa legate.

In particolare, due approcci teorici come l’approccio mente-corpo e la psicosomatica hanno aiutato ad inquadrare la fondamentale connessione mente-corpo, introducendo un nuovo modo di vedere l’uomo, che supera la divisione storica tra mente e corpo, lasciando così ampio spazio a una visione olistica. Pertanto, ora si tende a curare la globalità umana e a sviluppare una nuova e differente consapevolezza della vita e della malattia come strumenti di crescita. Da qui ne deriva anche che la salute non è solo assenza di malattia, ma qualcosa di più ampio e complesso, che va oltre l’equilibrio mente-corpo; secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità riguarda non solo il corpo e la mente, ma anche svolgere un lavoro gratificante, avere buone relazioni con le persone, essere in armonia se stessi e con gli altri, rispettare i propri bisogni e coltivare i propri interessi (Montecucco, 2005, 9). A partire da questa nuova visione, si può comprendere quanto i vissuti psichici della persona, siano essi positivi o negativi, possano avere un impatto non indifferente su di essa, in particolare sul suo sistema immunitario.

L’approccio mente-corpo

Le pratiche mente-corpo, insieme ai trattamenti con fondamenti biologici, alle terapie manipolative e alle terapie energetiche, rientrano nel campo medicine complementari. Tali medicine, nel XXI secolo hanno iniziato a riscuotere un certo successo e ad avere una rilevanza sociale soprattutto negli Stati Uniti. Anche in altre parti del mondo, come in Europa e in Gran Bretagna, si registrò un tasso rilevante di utenti di medicine non convenzionali del 33% (Giarelli, 2005, 16-22).

Il National Center for Complementary and Alternative Medicine (NCCAM), l’organo ufficiale americano di controllo delle medicine alternative, istituito nel 1988, definisce la medicina complementare come un insieme di sistemi, pratiche e prodotti medici e terapeutici che di solito non sono considerati come facenti parte della medicina tradizionale e che viene praticata contemporaneamente alle tecniche tradizionali.

In particolare, le pratiche mente-corpo hanno l’obiettivo di migliorare la capacità della mente, di influenzare le funzioni corporee e conseguentemente i sintomi. Tra queste sono note: le tecniche di respirazione, l’immaginazione guidata, l’ipnoterapia, il rilassamento progressivo (Pagliaro, Toti, 2010).

Uno dei primi autori che ha dimostrato scientificamente i benefici della risposta di rilassamento della pratica mente-corpo, è stato Hebert Benson (2011). Egli, aveva osservato in molte persone il bisogno di superare la stanchezza e lo stress conseguenti alla malattia, di ridurre e gestire ansia e depressione reattive alla patologia, di adottare strategie maggiormente efficaci per contrastare l’avanzare della malattia, ma anche il forte bisogno di contrastare gli effetti collaterali della chemioterapia, quali: nausea, vomito, dolori addominali, cefalea, diarrea.

Grazie all’utilizzo del suo protocollo che in primo luogo elicita la risposta di rilassamento ein secondo luogo porta ad una conseguente visualizzazione dello stato di salute, sono stati curati e contrastati diversi disturbi come: l’angina pectoris, l’ansia, la depressione, l’ipertensione, l’insonnia, la nausea, l’emicrania, i dolori articolari, le fobie, il dolore (alla schiena, addominale, alle articolazioni, al ginocchio, postoperatorio), la malattia di Parkinson, e la sindrome premestruale (Benson, 2011, 25-26).

Comunque, nonostante la grande quantità di ricerche che documentino la validità delle terapie mente-corpo, una parte di medici e ricercatori ignora l’evidenza del potere di tale cura. Come sostiene Benson (2011), quattro possono essere gli aspetti che contribuiscono a tale ignoranza: la totale mancanza di profitto, l’ignoranza delle prove scientifiche, la tendenza a non dare credito alla medicina “alternativa”, e il forte dualismo cartesiano che per lungo tempo ha influenzato la tradizione medica occidentale, secondo cui la mente non può migliorare direttamente la salute del corpo.

La prospettiva psicosomatica

Un ulteriore quadro teorico a sostegno della connessione mente-corpo è la prospettiva psicosomatica: quella branca della medicina che supera il dualismo cartesiano e pone in relazione la mente con il corpo, ossia il mondo emozionale ed affettivo con il soma (il disturbo), occupandosi nello specifico di rilevare e capire l’influenza che l’emozione esercita sul corpo e le sue affezioni.

Il termine psicosomatico è di origine recente. Nel 1800 si iniziò a sentire la necessità di unire il concetto di mente e di corpo per reagire alla tendenza eccessiva alla separazione che caratterizzava la cultura scientifica dell’epoca. Nel 1822, il medico K.W. Jacobi propose il termine somato-psichico per indicare l’influenza degli eventi corporei sull’attività psichica (Baldoni, Trombini, 2001, 32). Tale termine, utilizzato in molti contesti, rischiò di andare incontro a una confusione e a una perdita di significato. Oggi, esistono diverse accezioni, ciascuna delle quali corrisponde a differenti ambiti di studio e a specifici modelli teorici, ognuno dei quali si rifà ad una propria idea di conoscenza e di spiegazione causale. Ciò che si auspica è che la concezione moderna della psicosomatica operi da una posizione complessa e adotti un modello che offra una visione multidimensionale dell’uomo. In questo senso la psicosomatica si pone come metaparadigma, per cui permette l’adozione e l’integrazione di approcci teorici, tollerando differenze e contraddizioni.

Per poter affrontare efficacemente i problemi umani, è fondamentale ricorrere a vari trattamenti che considerino gli aspetti di natura biologica, psicologica, relazionale, sociale e ambientale.

Ma considerare l’essere umano da un punto di vista psicosomatico, porta a scontrarsi con i limiti del sapere scientifico. Infatti, ancora oggi si riscontrano delle difficoltà nell’adottare una prospettiva realmente psicosomatica e un unico trattamento, gli ambiti tendono a rimanere separati e i linguaggi sono profondamente diversi (Baldoni, Trombini, 2001, 35).

La psicosomatica moderna tende a seguire una prospettiva biopsicosociale, che studia i problemi umani considerando le relazioni tra sistemi diversi (genetico, anatomico, neurologico, endocrinologico, immunologico, psicologico, sociale), e tra livelli diversi, dal subcellulare all’ambientale; per cui, la malattia viene vista come il risultato dell’interazione di più fattori che possono essere valutati in relazione tra loro (Baldoni, Trombini, 2001, 38).

Il limite di tale modello potrebbe essere quello di cadere nel relativismo esasperato, a considerare ogni tipo di problema o disturbo come equivalente nei termini della gravità e della natura dei fattori coinvolti. Sembrerebbe che il contributo delle teorie sistemiche e cibernetiche più moderne e con il recente sviluppo della scienza della complessità, questi limiti siano superati.

Nonostante in questa sede si insista molto sull’adozione di un approccio integrato, è da riconoscere che ci sono delle situazioni che si affrontano meglio adottando una particolare prospettiva. Tuttavia, salute e malattia possono essere capite solo se tutte le discipline mediche vengono considerate globalmente.

Per molte patologie croniche, le terapie comuni non conducono ad una guarigione definitiva, esse riducono i sintomi senza migliorare in modo significativo la qualità della vita. Sia nella diagnosi che nella terapia è importante cogliere gli aspetti biologici, psicologici e sociali.

Baldoni e Trombini (2001) ribadiscono ulteriormente l’importanza e l’efficacia dei trattamenti meno convenzionali, come le tecniche di rilassamento, oltre agli interventi di natura educativa, come l’insegnamento di norme igieniche (limitazione di alcolici) e dietetiche (controllo del sovrappeso), e al miglioramento di stili di vita del paziente.

Per garantire un effetto diretto sulla malattia, e motivare il paziente, aumentando la sua autostima, è importante applicare tutti questi interventi all’interno di un programma terapeutico.

In questo senso, le terapie integrate assumono un ruolo importante, per cui i pazienti vengono aiutati da più specialisti e ricevono una valutazione globale, che permette al paziente di entrare in contatto sia con il medico e sia con lo psicologo (Baldoni, Trombini, 2001, 114).

La risposta da stress

Per comprendere in che modo il training autogeno contrasta la risposta da stress e i benefici che esso porta al sistema neurovegetativo, attivando la risposta di rilassamento, bisogna prima conoscere quale sistema si attiva nella risposta allo stress.

Ciò che accade esattamente è la stimolazione dell’ipotalamo dalla corteccia, che in condizioni di stress sintetizza e libera un fattore chiamato CRH (Ormone di rilascio della Coritcotropina), il quale attraverso il sangue raggiunge la ghiandola ipofisi dove viene indotta la sintesi e la aaliberazione di ACTH (Adrenocorticotropina), che a sua volta sempre attraverso il sangue raggiunge la parte corticale della ghiandola surrene, dove induce la sintesi e la produzione di ormoni steroidei come il cortisolo, da cui hanno luogo gli effetti metabolici sul sistema immunitario e di controllo della sua stessa secrezione attraverso quello che è chiamato l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene stesso.

Il CRH ipotalamico è sempre stato considerato un peptide controllato da due sistemi trasmettitoriali: uno stimolatorio che usa come neurotrasmettitore la serotonina, e uno inibitorio che usa come neurotrasmettitore la dopamina.

Più recentemente è stato osservato che anche i fattori tipici del sistema immunitario come le citochine interleuchina-1, interleuchina -6, e TNFa, sono in grado di indurre la sintesi e la produzione di CRH ipotalamico (Panerai, 2002, 3).

In poco tempo, la massiccia liberazione di steroidi surrenalici conseguente allo stress, comporta una serie di effetti metabolici, tra cui il più evidente è l’iperglicemia che fornisce una riserva di energia all’organismo.

Significativo è l’effetto di questi ormoni nella modulazione dell’entità e della durata della risposta allo stress. Gli ormoni steroidei possono esercitare un controllo di regolazione negativa (feedback negativo) sulla liberazione di CRH dall’ipotalamo e di ACTH dall’ipofisi, che tende a diminuire la risposta dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e a porre termine alla risposta allo stress. Questo effetto può essere anche alla base della distinzione tra effetti positivi dello stress (difesa dall’aggressione) e negativi (esaurimento e deterioramento).

Rispetto a questo, alcuni studi sugli animali hanno evidenziato che negli animali dominanti lo stress induceva un aumento di steroidi che poi tornava subito a livelli normali, mentre in animali sottomessi l’aumento era di pari entità e lo stesso rapido, ma i livelli rimanevano alti molto più a lungo, aumentando la possibilità che gli steroidi esercitassero dei danni alle cellule in particolare nell’area cerebrale dell’ippocampo.

Cosi nell’uomo accade che ad esempio, nell’anziano, molto più sensibile allo stress rispetto al giovane, lo stress rappresenti un grave fattore di rischio. Nell’anziano sotto stress si osserva un aumento di cortisolo, che quantitativamente è paragonabile a quello del giovane, ma il ritorno alla norma, nell’anziano, dei livelli di cortisolo è molto più lento, comportando un’esposizione prolungata di alcune aree del cervello (ipotalamo) a questi ormoni. Inoltre, è da considerare che l’anziano parte da livelli di steroidi circolanti più alti rispetto al giovane, ulteriore motivo per cui raggiunge livelli assoluti maggiori (Panerai, 2002, 4).

Gli steroidi possono esercitare due azioni dannose: una periferica e una sul Sistema Nervoso Centrale:

  • Perifericamente gli steroidi inducono una serie di effetti sul sistema immunitario che si traducono in una diminuzione della risposta immune e in un possibile aumento della morbilità indotta da batteri o virus con aumento di infezioni, eczemi, fino a una maggiore incidenza di tumori.

  • A livello del Sistema Nervoso Centrale, dove gli steroidi entrano liberamente e rapidamente, si osservano effetti dannosi a livello dell’ippocampo, con una modificazione delle strutture anatomiche deputate alla formazione e strutturazione della memoria e di altre facoltà cognitive, con un conseguente decadimento progressivo delle prestazioni.

Normali livelli di steroidi contribuiscono a mantenere l’omeostasi, mentre gli alti livelli raggiunti durante lo stress inducono diverse modificazioni dell’attività dell’organismo.

In sintesi, possiamo dire che, l’aumento di steroidi indotto dallo stress induce un effetto positivo caratterizzato da un aumento dell’attività metabolica con la possibilità di affrontare e di cercare di superare il momento di difficoltà.

Nel caso di uno stress acuto il danno può non sussistere o essere transitorio, mentre nel caso di uno stress cronico, come già evidenziato, si possono osservare danni più gravi.

Uno dei danni più evidenti, come osserva Panerai (2002), è l’alterazione dei meccanismi coinvolti nell’acquisizione e nel consolidamento della memoria.

Il Training Autogeno

Il training autogeno di J.H. Schultz, considerato da Benson (2010) come una delle varie tecniche che elicita la risposta di rilassamento, ha tratto le sue origini dall’ipnosi e dalla ricerca dei legami che intercorrono tra la mente e il corpo (Bowden at. Al, 2009, 404).

A differenza dell’ipnosi, con il training autogeno si passa da un eterosuggestione a un autosuggestione. Infatti, training autogeno significa, dal greco, “allenamento che si genera da sé”; esso rende possibile un metodo di lavoro veramente autosuggestivo praticabile e comprensibile a tutti.

Un aspetto che Schultz ha elaborato per il training autogeno è quello di concentrazione. L’opera stessa portava il titolo di Autodistensione da concentrazione psichica.

Nel corso dei suoi studi, si accorse che in realtà era più corretto parlare di fenomeni concentrativi, piuttosto che suggestivi. La differenza dei due termini sta nel fatto che quelli concentrativi riguardano fenomeni di autoregolazione, di autosuggestione; mentre i processi suggestivi riguardano i fattori esterni (Hoffman, 1980, 19).

Per concentrazione si intende quel processo per cui la persona rivolge attivamente e selettivamente la propria attenzione su determinati oggetti, escludendo con una certa coscienza e consapevolezza tutto ciò che non è attinente a essi, lasciando il resto sullo sfondo. Tuttavia, ci sono casi in cui l’attenzione risulta maggiormente passiva e diffusa, essa è considerata come attenzione fluttuante sull’intero campo percettivo, e non esclude nessun oggetto presente nello spazio, ma comunque è presente un certo grado di attività.

Dunque il concetto di concentrativo, nei termini del training autogeno, significa “rivolgersi in modo disteso e spontaneo verso un processo” (Hoffman, 1980, 21).

Durante la distensione nel training autogeno, avviene il processo di commutazione. Il significato di tale termine varia a seconda del contesto in cui viene usato. Si può parlare di esperienza concentrativa di commutazione che fa riferimento a un aspetto psichico del processo, oppure, come nella maggior parte dei casi, può riferirsi all’aspetto psicofisico globale dell’evento (Hoffman, 1980, 46).

Dunque nel training autogeno l’aspetto psichico è connesso a quello fisiologico.

Il processo commutativo è stato osservato non solo nel training autogeno, ma anche nel sonno e nell’ipnosi. Tuttavia, vi è una differenza nei risultati che dipende dall’atteggiamento che la persona assume verso il processo di commutazione: se esso è passivo, conduce al sonno; se esso è passivo e la commutazione è indotta da una persona esterna, si ha l’ipnosi; se c’è un’attenzione rilassata o una concentrazione passiva, si giunge a una commutazione autogeno- concentrativa (Hoffman, 1980, 61).

Prima di spiegare le differenze dei tre processi rispetto alla commutazione, è bene fare una rapida sintesi delle differenze tra il sonno, l’ipnosi, e il training autogeno (TA) rispetto ai processi che si verificano.

Dunque, la concentrazione passiva verso la commutazione, è un concetto centrale nel TA.

Se l’attenzione viene interrotta, si può cadere facilmente nel sonno o ritornare a uno stato di veglia. Pertanto, si può dire che nel training autogeno, ci si trova in una condizione di sospensione tra la veglia e il sonno e che tale condizione è ben mantenuta quando si è ben riposati per l’esercitazione e quando si è ben allenati.

Affinché si possa arrivare a una commutazione più veloce, a una distensione profonda e a un controllo dello stato di sospensione bisogna tener conto dell’importanza della ripetizione e delll’allenamento continuo (Hoffman, 1980, 63).

Dopo aver chiarito che la concentrazione passiva favorisce la commutazione, adesso si offre una spiegazione di come si possa giungere a questo risultato, osservando un’attivazione dei processi associativi dell’emisfero destro.

L’utilizzo delle immagini ha un ruolo fondamentale nella suggestione. A seconda delle aree sensoriali da cui provengono, possono essere visive, sonore, cenestesiche e tattili, per cui anche sensazioni come la pesantezza e il calore assumono caratteristiche di immagini. Dunque l’immagine fa riferimento a dei contenuti psichici concreti (Hoffman, 1980, 122).

A tal proposito è stato anche osservato che le immagini collegate agli affetti e ai desideri della persona aumentano la suggestionabilità, o al contrario, se connesse a ansia o aggressività, ne ostacolano la sua realizzazione. In sintesi, è necessario tener presente che l’efficacia dell’autosuggestione dipende dall’intensità dell’emozione e dalla qualità dell’immagine (Hoffman, 1980, 128).

Con la commutazione alla calma, si acquisisce la capacità di influire sugli organi del corpo a livello neurovegetativo.

Prima di tutto, il sistema nervoso dell’uomo è suddiviso in sistema sensomotorio, che trasmette le impressioni sensoriali al cervello e gli impulsi motori volontari ai muscoli scheletrici, e sistema vegetativo che controlla la regolazione degli organi, lavorando indipendentemente e senza l’uso della coscienza, e subendo l’influenza delle emozioni.

Tale sistema consiste a sua volta, del sistema simpatico e del parasimpatico, collegato al cervello e alle ghiandole endocrine (Hoffmann, 1980, 73).

Il sistema simpatico è coinvolto nella risposta allo stress, è alla base di tutte le funzioni necessarie per la produzione e l’attività, per cui il suo tono è maggiore nello stato di veglia; mentre quello parasimpatico tende a conservare le risorse dell’organismo e a ristabilire l’equilibrio dello stato di riposo, attivando i processi assimilatori e rigeneratori; il tono di tale sistema è elevato nello stato di riposo (Jessell, et alii., 1999, 77).

Detto questo, possiamo dedurre che con il training autogeno si può ottenere un aumento del parasimpatico per raggiungere uno stato di riposo.

I disturbi vegetativi funzionali possono riguardare una scorretta regolazione delle funzioni di entrambi i sistemi vegetativi: simpatico e parasimpatico.

Nel momento in cui la persona deve rispondere a dei cambiamenti fisiologici, il sistema vegetativo può rispondere adeguatamente, per cui reagisce “sintonicamente” e per cui si presuppone una corretta attività di questo, oppure può reagire eccessivamente e in modo inadeguato, andando così a manifestare uno stato di distonia vegetativa.

Da qui ne emerge che, come sostengono Luthe e Schultz (2001), gli effetti del training autogeno sono opposti alle modificazioni indotte dalla risposta da stress prolungata; uno stato di benessere raggiunto tramite il training autogeno può: modificare il tono vegetativo verso una distensione della reattività, attraverso la “commutazione trofotropica”, la quale comporta una riorganizzazione vegetativa nelle funzioni di rigenerazione e assimilazione (sistema parasimpatico) e di produzione delle riserve interne (sistema simpatico) (Corvini, 2012, 19).

Recenti studi controllati randomizzati hanno mostrato che il training autogeno abbia un effetto notevole sull’ansia.

Uno studio di Kanji ed Ernst (2000) ha rilevato che in sei prove su sette, c’è stata una riduzione significativa dell’ansia nelle persone che praticano gli esercizi del training autogeno rispetto al gruppo di controllo che non riceve alcun tipo di trattamento.

A partire da questo, sono stati avviati ulteriori studi che potessero approfondire tale aspetto: la prima, è una ricerca eseguita su un campione di infermiere (Kanji, White, Ernst, 2006); la seconda, su persone che dovevano sottoporsi ad angioplastica coronarica (Kanji, White, Ernst, 2004); e infine, una terza ricerca è stata condotta sulle donne con un carcinoma mammario precoce (Hidderley, Holt, 2004); in tutti questi studi, fu provata una riduzione significativa dell’ansia conseguente all’esercizio del training autogeno, a differenza delle condizioni del gruppo di controllo.

In particolare, nello studio di Hidderley e Holt (2004), l’obiettivo era quello di osservare potenziali cambiamenti nei comportamenti correlati allo stress e nel sistema immunitario, conseguenti al training autogeno, in un campione di 31 donne con carcinoma mammario precoce. Alcune di esse rientrarono nel gruppo di controllo e ricevevano solamente visite a casa, mentre il gruppo sperimentale era sottoposto al trattamento con il training autogeno della durata di due mesi. Prima e dopo il periodo di training, furono effettuate delle misure con l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS) e dei marcatori T e B per verificare rispettivamente, effettivi cambiamenti nelle misure relative all’ansia e alla depressione, e nella risposta del sistema immunitario.

Alla fine dello studio, non si osservarono cambiamenti nell’ansia e nella depressione e nei marcatori T e B nelle donne che non ricevettero il trattamento con il training autogeno. Mentre le donne sottoposte al training, mostrarono una differenza significativa a livello statistico osservata nel miglioramento dei punteggi HADS e nell’incremento della risposta del sistema immunitario (Hidderley, Holt, 2004, 1).

Un studio successivo di Kanji e Ernst (2006) dimostra come il training autogeno abbia un effetto immediato nell’alleviare lo stress in studenti di infermieristica.

Nello specifico si testò che nel gruppo del training autogeno ci fu una riduzione notevole e immediata dello stato d’ansia (p< 0.001) e del tratto d’ansia (p< 0.001). Inoltre, si registrò una riduzione della pressione sistolica (p< 0.01), diastolica (p< 0.05) e del battito cardiaco (p< 0.002) a differenza del gruppo di controllo (Kanji, White, Ernst, 2006, 1).

Un ulteriore ricerca riporta a un livello qualitativo le esperienze di riduzione dei sintomi ottenute con il training autogeno in 12 donne che soffrivano di ansia. Dall’intervista ne risultò che attraverso il training si sperimentò uno stato di calma, una chiarezza dei pensieri e di freschezza della mente, una riduzione delle preoccupazioni associata al “cedere il controllo su ogni cosa”, un aumento del benessere e del coping, un maggior ottimismo e felicità e una maggiore capacità nel gerarchizzare le priorità (Bowden et. Al, 2009, 410-415).

La riduzione della risposta da stress raggiunta tramite il training autogeno è stata dimostrata in un’altra ricerca di Seung-Joo Lim e di Chunmi Kim (2014), condotta su studenti di infermieristica che sperimentano stati di stress connessi alla formazione clinica.

Lo stress ha un effetto negativo sulla formazione clinica e sulla salute degli studenti. Inoltre, se lo stress è eccessivo o prolungato, essi sperimentano, oltre al fallimento della formazione clinica, difficoltà psicologiche come ansia, senso di rabbia, indifferenza, frustrazione, e depressione e disturbi somatici come indigestione, anoressia, mal di testa, mal di schiena e disturbi del sonno.

Di fronte all’aumento delle preoccupazioni sociali sulla salute e alla grande importanza della formazione clinica, è necessario che studenti infermieri abbiano adeguate strategie di coping per fronteggiare lo stress per ridurre il rischio dei problemi di salute mentale e fisica (Lim, Kim, 2014, 1).

Il training autogeno offre un’ottima strategia per gestire lo stress. Infatti, oltre ad essere usato per ridurre la risposta da stress, è usato per trattare malattie associate allo stress o che sono aggravate da esso, come la sindrome del colon irritabile, il cancro e la sclerosi multipla (Andersen et. Al. 2005, 1).

Lo studio prevedeva 40 partecipanti 19 dei quali facevano parte del gruppo sperimentale e 20 del gruppo di controllo. I risultati furono misurati tre volte: prima del training autogeno; alla fine delle otto settimane di training e sei mesi dopo la fine del programma.

Si osservò che i livelli della risposta da stress erano differenti nei due gruppi (F=7.11, p=.011). Inoltre, fu rilevato un effetto significativo dell’interazione tempo/gruppo sulla risposta da stress (F=4.68, p=.012), che lo stress nel gruppo di controllo aumentava nel tempo, mentre nel gruppo sperimentale non si osservarono differenze significative tra i punteggi (Lim, Kim , 2014, 289).

Tuttavia, l’ipotesi che l’attività del sistema nervoso simpatico del gruppo sperimentale fosse minore di quella di controllo, non è stata verificata, così come non è stato provato che il livello di attività del sistema parasimpatico del gruppo sperimentale fosse più alto di quello di controllo.

Sulla scia delle ricerche presentate, nel presente studio pilota è stato applicato il trattamento su un piccolo gruppo di studenti di psicologia per verificarne l’efficacia, prima di poterlo sperimentare su larga scala.

Ipotesi

Lo studio pilota che si illusterà in questo articolo si propone di dimostrare l’esistenza di un cambiamento nella percezione degli eventi stressanti nel gruppo sperimentale, al termine delle otto settimane di Training Autogeno; precisamente, ci si aspettava una diminuzione del punteggio ottenuto nel Perceived Stress Scale (PSS-10) dopo aver praticato gli esercizi del training, a differenza del gruppo di controllo che non è stato sottoposto a nessun tipo di trattamento.

Campione

Lo studio pilota in questione è stato effettuato su un campione di 18 studenti di psicologia di età compresa tra i 18 e i 27 anni.

Per il gruppo sperimentale, 8 studenti hanno partecipato volontariamente al trattamento del TA della durata di due mesi.

Procedura

Il metodo utilizzato per lo studio pilota è quello sperimentale, il quale presuppone che a livello ipotetico ci sia una relazione di tipo causale tra una variabile indipendente e una dipendente, che nel mio caso sono rispettivamente il training autogeno (VI) e la diminuzione della percezione dello stress (VD) (Artistico, Pezzuti, 2010, 21).

Tra i piani classici di ricerca è stato utilizzato il “piano combinato” (ivi), il quale combina due modalità di confronto (intrasoggetti e intersoggetti); il gruppo 2 di controllo non sottoposto al trattamento, viene confrontato con il gruppo 1 sperimentale sottoposto al TA. I due gruppi sono simili al momento del pre-test, l’eventuale differenza significativa osservata al post-test, potrà essere attribuita all’effetto del trattamento.

I partecipanti interessati in questo studio hanno volontariamente partecipato al programma. Le finalità e le procedure dello studio sono state illustrate ai partecipanti. Inoltre, è stato detto che i dati personali sarebbero stati protetti e che potevano abbandonare lo studio, senza pregiudizio, in qualsiasi momento. I partecipanti sono stati informati in anticipo sulle finalità e modalità di studio, rischi previsti e benefici.

Si è cercato di prevenire il rischio delle risposte false da parte degli studenti, informandoli che risposte oneste avrebbero potuto migliorare la qualità dello studio, e di raccomandare una certa continuità (anche a casa) e intensità nella pratica degli esercizi, per evitare l’alterazione dei risultati e affinché fosse utile per loro stessi. Inoltre, è stato anche detto che tutti i dati raccolti sarebbero stati utilizzati per motivi di studio.

Il Training Autogeno è stato applicato su 8 studenti universitari di psicologia di età compresa tra i 18 e i 27 anni (età media= 21 anni).

Prima del training è stato somministrato il PSS-10 sia al gruppo sperimentale che di controllo.

La sessione di apprendimento del training è avvenuta prima del periodo di esami e la somministrazione del post-test è avvenuta una settimana dopo la fine degli esami di fine semestre, sia sul gruppo sperimentale che di controllo, al fine di indagare la percezione dello stress degli studenti una volta che la fase di allarme causata dalla preoccupazione per gli esami, era passata.

I partecipanti hanno praticato i sei esercizi del training per otto settimane, una volta a settimana per 40 minuti. Inizialmente, è stata offerta una breve spiegazione sul training autogeno e sulle condizioni da rispettare affinché i risultati dello studio non venissero alterati e affinché fosse utile per la loro salute e sicurezza fisica.

Il training si è svolto in un setting sicuro e rilassante e le formule che sono state utilizzate rientrano nei sei esercizi inferiori (focalizzati sulle sensazioni corporee) che possono essere eseguiti autonomamente.

Nella prima seduta del training, dopo che i partecipanti avevano assunto una posizione comoda per favorire il processo di rilassamento, è stato praticato il primo esercizio di pesantezza e distensione muscolare, utilizzando la formula per le braccia: “braccio destro/sinistro pesante”; e per le gambe: “gamba destra/sinistra pesante” (successivamente personalizzata in “corpo pesante”).

Successivamente è stata favorita la sensazione di calore utilizzando la formula: “braccio destro/sinistro caldo”; “gamba destra/sinistra calda”.

Dopo che i partecipanti hanno imparato a raggiungere uno stato di pesantezza e di calore grazie ad una concentrazione passiva, sono passati agli esercizi successivi relativi al battito cardiaco (“il cuore batte calmo e forte.”), alla respirazione (“respiro calmo e regolare”), al plesso solare (“plesso solare irradiante calore”) e alla mente fresca (“mente piacevolmente fresca”).

Le formule sono state praticate durante le sessioni in gruppo e ai partecipanti fu chiesto di praticare gli esercizi individualmente anche al di fuori del contesto di gruppo.

Domande, dubbi o curiosità rispetto all’esperienza individuale e collettiva, da parte degli studenti, sono state considerate, condivise e discusse durante le sessioni di TA.

Risultati

Dall’analisi della seconda somministrazione, avvenuta tre mesi dopo il pre-test, è stato osservato che la differenza delle medie, relative alla percezione dello stress, del gruppo sperimentale e quello di controllo, è significativa a livello statistico.

Nel gruppo di controllo, la media dei punteggi relativa alla percezione dello stress è aumentata da 19,4 a 28 al termine del training autogeno.

D’altro canto il gruppo sperimentale ha presentato differenze nei punteggi, ma non a tal punto da raggiungerne la significatività statistica.

 

Discussione dei risultati

Nel presente studio pilota, è stato appurato che i livelli di percezione dello stress nel gruppo sperimentale si sono rivelati più bassi di quelli del gruppo di controllo.

Guardando ai risultati, ho constatato che a partire da livelli diversi di percezione dello stress, per cui si è registrato un punteggio più elevato per il gruppo sperimentale rispetto a quello di controllo, quest’ultimo ha mostrato un aumento notevole della percezione dello stress o, in alcuni casi nessun cambiamento, al termine dei tre mesi complessivi; a differenza di quello sperimentale che è andato incontro a una diminuzione. Questo dato conferma anche quanto era stato scoperto nella ricerca di Lim e Kim (2014), secondo cui il gruppo di controllo registrava un aumento dello stress nel tempo.

In modo particolare si è osservato un peggioramento nell’accusare lo stress e il nervoso connessi al periodo degli esami; nella capacità di stare dietro a “tutte le cose da fare”; nella percezione che le cose da fare si stavano accumulando al punto da non poterle superare.

Al contrario, nel gruppo sperimentale, si è osservato un miglioramento nella capacità di seguire tutti gli impegni e le attività richieste durante il periodo di trattamento e dopo; nella sensazione di affrontare ed eseguire gli impegni anche quando sembrano accumularsi; nella sensazione di avere il controllo sulle cose importanti della vita.

Complessivamente, il gruppo sperimentale ha mostrato un miglioramento o una stabilità nella scala dello stress percepito, anche se non è stata raggiunta la significatività statistica.

Questo dimostra che il training autogeno potrebbe avere degli effetti positivi sulle capacità degli studenti di psicologia nel fronteggiare situazioni stressanti come, in questo caso, la sessione di esami di fine semestre, caratterizzata da un elevato numero di prove da sostenere in tempi rapidi e ristretti.

 

Limiti della ricerca

Il presente studio mostra, tuttavia, dei limiti e delle questioni aperte rispetto alcuni fattori di confusione e alcuni errori.

Innanzitutto, guardando alla varianza del gruppo di controllo, ci si chiede se l’aumento del livello della percezione dello stress sia dovuto alla mancata applicazione del training autogeno o a degli eventi di vita particolari che possono essere accaduti a tutti o quasi i soggetti del gruppo di controllo nell’intervallo tra la prima misurazione e la seconda misurazione.

Lo stesso discorso vale per il gruppo sperimentale, che ha presentato un cambiamento positivo in misura minore. È importante tener conto di eventuali fattori di confusione legati a un eventuale maturazione biologica e/o psicologica dei soggetti.

In secondo luogo, per controllare un errore di I tipo, ossia per evitare di rifiutare erroneamente l’ipotesi nulla (la media del gruppo di controllo e la media del gruppo sperimentale non differiscono significativamente), è stato ridotto il livello di significatività a 0.01; ma non è stato effettuato un adeguato controllo sull’errore di II tipo, per cui si rischia di accettare l’ipotesi nulla quando invece è falsa.

In definitiva, per tenere sotto controllo entrambi gli errori che avrebbero potuto minacciare la validità statistica, sarebbe stato opportuno aumentare la dimensione del gruppo di controllo e aumentare la dimensione degli effetti del trattamento, cercando di eseguire gli esercizi del training autogeno anche a casa.

Un ulteriore limite risiede nell’utilizzo del test; in Italia non è stata ancora effettuata una validazione dello strumento su un ampio campione.

Rispetto alla scelta degli strumenti, sarebbe utile l’integrazione con un altro test che possa misurare la percezione dei cambiamenti psicosomatici percepiti tramite il training autogeno, associati alla risposta di rilassamento; così da offrire informazioni più complete su eventuali cambiamenti riscontrati nei soggetti, non solo riguardo all’aspetto cognitivo della percezione dello stress, ma anche riguardo alla percezione dei propri cambiamenti corporei ad essa associati, che si possono osservare anche in situazioni rilassanti.

Tali limiti potrebbero rappresentare uno stimolo per approfondire lo studio e l’analisi degli effetti di tale tecnica di rilassamento in riferimento a un campione universitario più ampio.

Conclusioni

Da questa analisi, sono emerse delle risposte fondamentali alle questioni sollevate all’inizio dello studio riguardo: la psicosomatica, l’approccio mente-corpo e il meccanismo biochimico della risposta da stress.

  • Visto e considerato che la psicosomatica moderna guarda all’uomo, ai suoi problemi e alla sua riabilitazione da un punto di vista bio-psico-sociale, il training autogeno si lega bene a tale concetto. I risultati di questo studio hanno dimostrato che potenzialmente il TA porta dei benefici osservabili nella riduzione della percezione dello stress, sui livelli biologici e psicologici. Questi benefici sperimentati dapprima su un piano individuale, potrebbero conseguentemente portare anche a un benessere sperimentato sul piano sociale e delle relazioni.

  • Il training autogeno si inserisce bene anche nella tematica della connessione mente-corpo. Partendo da un vissuto mentale caratterizzato da calma e concentrazione passiva, si arriva a sperimentare delle piacevoli sensazioni corporee.

Vari esempi e ricerche hanno dimostrato come grazie alla “concentrazione passiva”, si favorisce la commutazione al rilassamento, ricorrendo all’utilizzo di immagini che rivestono un ruolo importante nella suggestione.

Con la commutazione alla calma, si acquisisce la capacità di influire sugli organi del corpo soprattutto a livello neurovegetativo, in cui avviene il controllo della regolazione degli organi, lavorando indipendentemente e senza l’uso della coscienza, e subendo l’influenza delle emozioni.

  • Infatti rispetto a questo, nel training autogeno, non c’è un eliminazione degli stati emotivi, ma un’attenuazione di essi, osservando conseguentemente, proprio per la correlazione esistente tre questi e il sistema vegetativo, una modificazione delle funzioni vegetative psichiche e sociali (Hoffmann, 1980, 418), e in particolare, un aumento dell’attività del parasimpatico osservabile negli stati di riposo, comportando degli effetti che si possono riscontrare anche nel TA (rallentamento della frequenza cardiaca, un’attivazione dell’attività intestinale, un rallentamento della respirazione, abbassamento della pressione sanguigna), in contrasto agli effetti nocivi provocati dalla risposta da stress cronica a livello del sistema neurovegetativo, del sistema nervoso centrale e periferico.

Come è stato analizzato e dimostrato attentamente, il TA può modificare il sistema vegetativo attraverso la commutazione che comporta una riorganizzazione delle funzioni di rigenerazione e assimilazione (parasimoatico) e di produzione delle riserve interne (simpatico).

Favorendo tutto questo, con il TA la persona può essere in grado di aumentare le funzioni di attenzione e di decision-making, e di gestire le situazioni stressanti cariche emotivamente in modo funzionale, evitando di generare disturbi psicosomatici correlati alla risposta da stress (ipertensione, disturbi gastrointestinali, cefalee, insonnia, disturbi della respirazione).

Dall’analisi dei dati e in linea con le ricerche svolte in questo campo (Kanji, Ernst, 2000; Hidderley, Holt, 2004; Kanji, White, Ernst, 2006; Bowden et. Al, 2009; Seung-Joo Lim, Chunmi Kim, 2014), è emerso che il training autogeno ha un effetto positivo sulla reazione allo stress e sulla riduzione della percezione dello stress. Infatti, è stato constatato che il gruppo di controllo, il quale non è stato sottoposto al rilassamento, ha mostrato un notevole peggioramento, o nessun cambiamento, nell’arco dei tre mesi in cui è stata svolta la ricerca, specialmente dopo il periodo di esami ormai trascorso; mentre il gruppo sperimentale ha mostrato una certa stabilità o miglioramento nel punteggio della percezione dello stress, favorendo così il controllo e la gestione dello stress dovuto alla sessione di esami e l’attenzione alle richieste provenienti dall’ambiente esterno.

Visti i risultati ottenuti, si può guardare al training autogeno non solo come a un modo per prevenire e curare in modo aspecifico l’ansia e lo stress, ma come a una tecnica che può avere un impatto significativo nella prevenire l’ansia da esame, favorendo il miglioramento delle prestazioni, non solo scolastiche, ma anche lavorative, sportive e artistiche, che spesso e volentieri sono condizionate negativamente dall’ansia e dallo stress, impedendo così il raggiungimento degli obiettivi.

Il training autogeno può essere considerato anche come un fattore di protezione specialmente per gli studenti di psicologia, che più di chiunque altro, hanno bisogno di provvedere alla cura di sé e di ascoltare i propri bisogni affinché possano essere in grado di proteggersi e tutelarsi dal rischio di stress elevato nella futura professione di psicologo e affinché siano capaci di prendersi cura degli altri partendo prima da se stessi. Pertanto, questo strumento può essere utile per la gestione dello stress, effettuando un lavoro su stessi che consiste nel prendersi cura di sé, nell’incrementare i pensieri positivi, nell’anticipare il cambiamento del comportamento, nello sviluppo dello competenze, nella risoluzione dei problemi e dei conflitti, nel decision-making, nel mantenere l’equilibrio psico-fisico (Colasanti, 2014).

Ciò che si vuole evidenziare è che il processo di cura e prevenzione tramite il training autogeno, è circolare. Curando il disturbo specifico, si previene anche dalle eventuali future ricadute; facendo un’azione di prevenzione, viene a consolidarsi ulteriormente la cura di sé.

Di fronte a questi risultati ci si domanda quanti altri miglioramenti sarebbero stati raggiunti se le sessioni di training fossero continuate o se i partecipanti avessero applicato la pratica degli esercizi a casa.

Per questo si auspica che gli studenti possano apprendere questo strumento per poterlo utilizzare in qualsiasi contesto, nel superamento delle difficoltà o nel favorire la distensione e lo stato di calma, o nel curare dei dolori o disturbi, o semplicemente nel regalarsi un po’ di spazio per stare in contatto con sé e le proprie sensazioni corporee favorendo un aumento della propria consapevolezza nel qui ed ora e un’autoregolazione dell’organismo.

 

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